Oggi l’informazione somiglia a un condominio con le porte sfondate: ogni giorno passa una notizia più assurda della precedente, rimbalzata e distorta fino a perdere qualunque forma. I fatti non durano più di un ciclo di feed; si consumano nella ripetizione e si dissolvono nell’ironia. La mente, davanti a questa giostra, ha un riflesso antico: rifiuta il non-senso. Preferisce una trama sbagliata a un vuoto di significato. È un automatismo evolutivo, non un vizio culturale. Da millenni l’uomo traduce l’imprevisto in racconto: è il modo con cui trasforma il caos in memoria e sopravvive alla contingenza.
Da questa difesa nasce il complotto: un racconto rapido, un colpevole in maiuscolo, un piano che ricuce l’incoerente. Non è un difetto della modernità, ma il proseguimento di un impulso arcaico: quello di dare intenzione agli eventi. La mente umana tollera la crudeltà del caso meno di quella di un disegno ostile. Per questo, di fronte al disordine, immagina una volontà che lo governa. Prima erano gli dèi, poi gli spiriti, oggi le élite, gli algoritmi, le intelligenze artificiali. Cambiano i simboli, non il meccanismo: il complotto è la mitologia di un’epoca che ha perso la trascendenza ma conserva la struttura mentale del sacro.
La religione ha per secoli trasformato il caos in racconto. Non spiegava il mondo, lo interpretava: costruiva un linguaggio in cui il dolore potesse avere una grammatica. Ogni evento naturale – il tuono, la malattia, la carestia – trovava posto in una narrazione che collegava la terra al cielo, l’immanente al trascendente. L’ordine cosmico non era una scoperta ma una finzione condivisa, una forma di coesione mentale e sociale. La religione, in questo senso, non nasce per conoscere ma per abitare il mondo. La fede non è un errore logico, è una tecnologia del senso: converte l’imprevedibile in necessità, il caso in destino. È per questo che, quando la trascendenza svanisce, resta il bisogno della sua struttura – la stessa che oggi rinasce nei sistemi di credenze laiche, dai miti del progresso alle teorie del complotto.
Quando la mente ha imparato a misurare invece di credere, quella grammatica del senso ha cominciato a incrinarsi. La scienza non ha sostituito la religione: l’ha disinnescata. Ha tolto il velo al mistero, ma non ha saputo riempirne il vuoto. Ha dato all’uomo la conoscenza dei meccanismi, non la comprensione del perché. L’universo, che un tempo parlava in simboli, ha iniziato a parlare in formule. L’ordine divino si è dissolto in un ordine numerico. Ma la precisione non consola: descrive, corregge, prevede – non spiega il dolore, non giustifica la morte, non restituisce un orizzonte. La scienza ha svelato il mondo, ma nel farlo ha dissolto la trama che lo rendeva sopportabile. Ha liberato l’uomo dal dogma, ma anche dal mito. E ciò che chiama “progresso” è, in fondo, la progressiva scomparsa del linguaggio con cui l’uomo cercava di raccontarsi.

La politica ha allo stesso modo riconosciuto un ordine superiore. I sovrani governavano per grazia di Dio, le leggi erano giuste solo se rispecchiavano una legge più alta, “naturale” o “divina”. L’autorità non nasceva dall’uomo ma gli scendeva addosso dall’alto. La politica era un’estensione della teologia, non la sua alternativa. Quando la scienza ha smontato quell’ordine cosmico, la politica ha cercato di costruirne uno nuovo. Non potendo più appellarsi al cielo, ha cominciato a promettere paradisi sulla terra. È nata così l’età delle ideologie: comunismo, fascismo, nazionalismo, liberalismo missionario. Ciascuna con i propri martiri, i propri testi sacri, i propri riti collettivi. Buone idee per cui morire, ma pessimi mondi in cui abitare. E quando quelle promesse hanno fallito, la politica ha chiesto alla scienza di offrirle nuovi dogmi. È in quell’alleanza che la ragione ha dato il peggio di sé: la biologia piegata al razzismo, la medicina alla selezione, la psicologia al controllo. L’alleanza tra sapere e potere non ha liberato l’uomo, l’ha semplicemente spostato di altare.
L’autorità non discende più da Dio ma dall’evidenza, e l’evidenza è diventata il nuovo nome del dogma. Oggi, esauriti anche quei miti, resta solo il sospetto. Il potere non parla più in nome di Dio né della Ragione: parla in nome di sé stesso. La legittimità non si fonda più sulla verità, ma sulla quantità. L’autorità è diventata una funzione statistica: ciò che si ripete, ciò che si misura, ciò che si mostra in grafico. La società contemporanea si regge su flussi di dati, ma il dato, per sua natura, non racconta: registra. Misura i fenomeni senza comprenderli. E dove manca un racconto, la mente ne produce uno di riserva. Il sospetto è l’ultimo collante simbolico di un mondo che ha sostituito la narrazione con il calcolo.
Il complotto è la religione spontanea del vuoto: una teologia senza trascendenza, costruita con gli scarti della conoscenza. Non nasce dall’ignoranza ma dall’eccesso: troppe verità parziali, troppe versioni incompatibili, troppi frammenti di mondo che non si ricompongono in una forma. L’uomo ne seleziona una per difendersi. Meglio una menzogna ordinata che un reale senza trama. Il complottismo non è un sintomo marginale: è la forma moderna della fede. La fede ridotta al suo gesto essenziale – credere che dietro l’apparenza ci sia un disegno. È il bisogno di riconoscere un’intenzione anche dove non c’è più nessuno che intenda. Il complottista non è un nemico del vero, ma un credente del senso. Fa ciò che la mente umana ha sempre fatto: costruire racconto dove il mondo offre solo rumore. Il suo errore è confondere la finzione con la rivelazione. Il nostro, pensare di poterne fare a meno.