Nella versione più conosciuta del mito, Eos, l’Aurora, ottiene per l’amato Titone l’immortalità, dimenticandosi però di chiedere – con questa – l’eterna giovinezza: Titone è condannato dunque a invecchiare per sempre. Se ciò non avverrà, sarà soltanto perché Aurora stessa lo trasformerà in cicala, laddove da sempre nell’immaginario classico la cicala è simbolo e inno alla giovinezza che se ne va e alla brevità di una vita dedita ai piaceri. Nel 1969 Robert Butler connota con il termine ageism quell’informe insieme di atteggiamenti di orrore e repulsione che sfociano in un rifiuto discriminatorio di tutto ciò che è vecchio. Dopo la pandemia, gli scandali che hanno colpito la cattiva gestione delle strutture per anziani e in generale l’accresciuta percezione del vecchio come ‘peso sociale’ hanno riportato in auge il problema, che ha in realtà molte facce: non si tratta soltanto della sopportazione della altrui vecchiaia, in gioco c’è la percezione del proprio sé nel tempo.
È solo di qualche giorno fa la notizia del suicidio di Cheslie Kryst, ex Miss USA ormai trentenne: «Society has never been kind to those growing old», aveva detto poco prima. Sentiva di aver fatto il suo tempo. In un’intervista rilasciata a Le Monde, la psicanalista De Hannezel ha puntato il dito contro l’ageism della società occidentale e di quella francese in particolare, colpevole dell’oblio della morte dal discorso pubblico e della demonizzazione implicita del decadimento fisico. Ma è davvero questo il punto? Veramente uno sguardo pieno di rinnovata solidarietà rivolto verso la terza età sarebbe risolutivo?
La realtà che si apre di fronte a chi la voglia guardare è molto diversa e, come spesso accade, semplicemente cruda. La vecchiaia, secondo le stime attuali, è in verità uno dei più grandi business al mondo per il volume di affari che sposta: la cosiddetta silver economy, cioè il sistema di mercato che ruota intorno alla popolazione senior dai sessantacinque in su, costituisce virtualmente una potenza economica capace di produrre, solo in Europa, oltre cinque trilioni di euro entro il 2025. Sanità e beni immobiliari, ma non solo: l’ambito delle leisure activities, dai viaggi vacanza alla cosmesi, non è che un aspetto di quello che nelle proiezioni degli analisti si configura come il vero e proprio paese dei balocchi degli investimenti.
Ci si è accorti, infatti, che a godere del portafoglio più ricco e a recitare il ruolo dei big spender non sono le fasce ‘in ascesa’ della popolazione, ma i boomers nati tra la metà degli anni Quaranta e la fine degli anni Sessanta. In pensione fin da giovani, tendenzialmente invecchiati in buona salute, i nuovi anziani spostano l’asticella della vecchiaia almeno di vent’anni più in là di quanto si è ritenuto fino ad ora: si trattava di inserire anche loro nel gran carrozzone della società dei consumi e tutto lascia prevedere il buon esito dell’operazione,nella misura in cui pur non lavorando più, è questa fetta di popolazione a garantire un considerevole e sempre più cospicuo dinamismo economico.
L’immagine del futuro che va delineandosi – e non solo in Europa, visti i numeri da inverno demografico di paesi come Giappone e Cina (che dal 2016 ha allargato il numero di ‘figli possibili’ a due per coppia sposata) – è quindi quella di una società molto attenta non solo alle esigenzedei big spender, ma soprattutto a far sì che non si interrompa il cerchio magico nell’ambito del quale anche chi si incammina verso l’anzianità viene stimolato ad avvertire come impellente il diritto a sentirsi giovane. Dalla campagna Old lives matter all’apertura nel 2020 della Decade of healthy Ageing, gli assi portanti della sensibilizzazione sono sempre quelli: una società consegnatasi al consumismo liberaleggiante e l’occasione irrinunciabile di moralizzare la corsa all’oro che tale sistema impone. Ora che a luccicare non sono più soltanto i modelli della pubblicistica classica, la nuova kalokagathia, ma di colpo sono diventate più che interessanti le ultime pensioni a quattro zeri in circolazione, ecco che nobiltà d’intenti e calcolo d’interessi vengono mirabilmente a coincidere.
Perché ‘moralizzare’? Perché il fenomeno dell’ageism, così come in molti altri casi, è un prodotto della stessa forma mentis sociale che ora cerca di liberarsene. Eppure, se la cattiva coscienza delle società moderne – dove moderno è un connotato prima di tutto assiologico, ordinatore di un sistema di valori ontologici prima ancora che etici, etici prima ancora che politici – si esaurisse in questo, in una specie di rimorso per la ‘cultura dello scarto’ generata e foraggiata a piene mani nel corso degli ultimi secoli, avrebbe ragione chi indica come soluzione il reinserimento della morte (o della vecchiaia, o di qualunque degenerazione rispetto all’ideale) come tema di riflessione. Ma di fatto, proprio nella proposta di queste voci sta la leva della pace armata, il voler perseverare sottotraccia, una volta regolate le apparenze, della coscienza sporca.
La morte, dalla società che conta, non è mai sparita. La sofferenza, neppure. E poiché la società che conta, quando si tratta di stabilire le logiche del potere (economico, perlopiù, quindi politico), non è altro che la società che consuma, a conti fatti la morte è rimasta ben ferma nell’immaginario comune come qualcosa di presente, di impellente, nemmeno sempre disturbante. Non solo il bollettino quotidiano del Covid-19, sarebbe un esempio troppo semplice; trasversalmente, persone di ogni generazione, estrazione sociale e ceto culturale si sono nutrite della carneficina di Squid Game, magari qualche giorno dopo esser tornati da una delle sempre più diffuse Funeral home, smartphone tra le mani, Netflix, il cugino nell’urna sul comodino lì affianco. Se dunque non è l’immagine della morte a mancare, se – pur pirandellianamente imbellettata – la ‘bellezza vecchia’ del sono-bella-così-come-sono è l’ultima avanguardia contro il bodyshaming, qual è il pungolo d’inquietudine, la spina nella carne che tormenta le anime belle dell’Occidente?
L’ubi consistam della cattiva coscienza dell’Occidente è la mancanza di senso, il suo cuore pervicacemente pagano. E in questo, l’ironia tragica che colpisce sta già da sempre all’origine del discorso, evidente e manifesta nel nome stesso della terra dell’occasus soli, del tramonto, Abendland. Cercare di inglobare la morte è il tentativo coerente dell’industria culturale, la vocazione che l’Occidente ha scelto per sé. Più difficile, poiché meno spettacolare e spettacolarizzabile, il tentativo è ciononostante in fase avanzata anche per quel che riguarda la vecchiaia, il pride culturale, economico, sociale dell’esser-vecchi. Un tentativo indispensabile: per riassorbire nel sistema gli eventi che mettono in scacco l’esistenza, per rendere parte dello spettacolo ogni istante, per rendere, una buona volta, pop la morte e produttiva, divertente, godereccia l’anzianità. L’ospite inquietante che cresce, l’ombra che vela gli occhi, è il semplice chiedere il perché e non ricevere in cambio risposte.
Spesso a farlo sono i deboli schiacciati da un ritmo che non riescono a tenere, qualche volta la sensibilità dell’intellettuale inattuale: di fronte all’abisso del silenzio, del non sapere dove si va, si comprende in un istante che il cammino della vita non è un fatto di prodotto interno lordo, e nemmeno di pensioni d’oro o leisure centers. Si domanda sempre più insistentemente il senso del percorso, la direzione del cammino, si implora una teleologia che ognuno finisce per trovare in qualche modo, se vuole sopravvivere. È questo che manca alla ‘scena di questo mondo’: non ha in sé le proprie ragioni. Il brutto le resiste, il vecchio le chiede conto: verso dove? La risposta l’Occidente l’ha rifiutata quando ha voltato le spalle alla trascendenza – et tenebrae eum non comprehenderunt – decidendo di trascendersi da sé, innamorato di quelle sue antiche origini greche e narcise, cattiva coscienza che non smette mai il suo lavorio. E greco e narciso, chiuso in una stanza dalla sua stessa mitopoiesi, l’Occidente guarda morire se stesso.