È ormai già vecchia la notizia della cacciata del consigliere di Zelensky, Oleksij Arestovich, uno dei volti del governo ucraino più riconosciuto a livello internazionale. Motivazione: dopo la caduta di un missile russo su Dnipro, l’adesso ex consigliere ha imputato alla contraerea nazionale la responsabilità, avvallando così le ipotesi russe. Difatti Dmitry Peskov, Portavoce del Cremlino, poco ci ha messo per riportare le dichiarazioni del suo collega, smarcando così la Russia. Sono seguite ore turbolente per uno degli uomini più quotati per il dopo Zelensky, posto che ve ne sarà uno in un futuro prossimo. Arestovich è un personaggio istrionico, con chiare aspirazioni di potere, al punto da andare in controtendenza con le versioni ufficiali del suo governo. Nei fatti il suo era un ruolo da eminenza grigia, con una carica piegata ad hoc per lasciargli quanto più spazio di manovra possibile. Dal suo precario scranno ha più volte prospettato svolte geopolitiche, strategie di controllo, tattiche militari. Scavalcando però il suo Stato profondo, che infine si è deciso ad attendere la prima occasione disponibile per lasciarlo a piedi. E ora è più probabile – ma mai del tutto certo – che il dopo Zelensky avrà un altro volto, specie dopo che il nome dell’ex consigliere è addirittura finito nelle liste di proscrizione dell’arcinoto sito Myrotvorets.
La corruzione è un problema endemico a Kiev, e la guerra non ha certo aiutato. Dal 2022 in poi, un fino ad allora impensabile afflusso di capitali, armi, e uomini nel Paese ha attirato le attenzioni delle più forti organizzazioni criminali europee e non, che tutto l’interesse hanno nel mettere le mani sugli equipaggiamenti militari gentilmente donati per sostenere il conflitto. Allo stesso tempo, all’interno dei palazzi del potere, l’euforia è esplosa dopo che in molti si sono resi conto di poter sfruttare l’occasione per accrescere il proprio status, o semplicemente le proprie ricchezze personali. Arestovich, direttamente o indirettamente, non ha fatto eccezione. Ma sono tanti i nomi che dall’inizio del conflitto hanno dimostrato di non farsi troppi scrupoli quando si tratta di trarne il massimo dalla situazione. Una tale improvvisa e inaspettata accensione di singoli interessi ha creato un’altrettanto rapida tensione interna, che è infine deflagrata lo scorso 24 gennaio quando Zelensky ha deciso l’ultima importante purga del proprio esecutivo. Uno dei casi che ha creato più scalpore è quello del vice ministro delle infrastrutture Vasyl Lozynsky la cui tangente da quattrocentomila dollari è ormai fatto accertato. I soggetti coinvolti nel ripulisti sono tutti, curiosamente, dei “vice”: c’è il vice Procuratore Generale, il vice ministro delle comunicazioni, e il vice ministro dello sviluppo. Una riprova che, nell’ombra, lontano dai riflettori e con una connaturata punta di arrivismo, è forse scontato cercare di fare il massimo per il proprio personale interesse, il quale, spesso se non sempre, viaggia parallelo rispetto a quello dello Stato.
C’è però un altro fatto rilevante da sottolineare, ovvero lo scarso controllo che un esecutivo come quello di Zelensky ha modo di mantenere sul proprio apparato burocratico-amministrativo. Oltre a quelle dei ministeri sono previste altre dimissioni, stavolta provenienti dai pezzi grossi delle amministrazioni regionali, anch’essi accusati di aver abilmente gonfiato i prezzi di alcuni contratti per il loro personale arricchimento. È la natura umana, forse, quella che porta anche in un momento cruciale nella storia del Paese – una fase che deciderà per lungo tempo le possibilità di esercitare la sovranità su territori riconosciuti come propri – a decidere in ultima istanza in favore della propria individualità, lasciando indietro la collettività, ignorando le luci della ribalta globali. Così facendo si rovescia l’idea che la guerra riesca sempre a raggruppare la società contro il nemico, sanando le fratture, facendo dimenticare le divisioni. Ognuno pensa per sé, in una logica utilitaristica che, anche se vera, spesso si sceglie di non considerare nei ragionamenti politici. Pena finale la caduta nel vortice nichilista, che è ancora peggio.
Niccolò Machiavelli, il primo nome di cui ci si ricorda quando si cercano d’inquadrare natura umana e analisi politica nello stesso discorso, come noto aveva già attraversato, nella Firenze del suo tempo, i problemi che riemergono oggi. Invece che combatterli, proponendo medicine per la salute pubblica, le aveva accettate come ineluttabili, e su di loro aveva costruito la propria teoria. Nell’Ucraina di Zelensky – dove la legittimità del suo Presidente, nata da un discutibile e acerbo processo democratico, è riconosciuta limitatamente ai riti cerimoniali, alla rappresentanza delle istituzioni, e non di certo al conflitto bellico – si ha la sensazione che il Prìncipe possa cadere da un momento all’altro. Non in favore del nemico. Ma di un Prìncipe legittimato sul campo di battaglia, che governerà fino al prossimo capitolo della storia. Zelensky, in carica dal 2019, ha sfruttato le narrative da e per lui sapientemente costruite al fine di approfittare delle criticità di un sistema democratico appena creato, per ottenere ciò che voleva. È questo che il buon Prìncipe è in grado di fare. Oggi la situazione è cambiata, il futuro Prìncipe non è stato purgato, e anzi si muove nella stretta intercapedine legale-razionale che gli impedisce di fare la fine di ex consiglieri ed ex vice ministri. L’obiettivo è il medesimo che Zelensky aveva qualche anno fa.
Non c’è purga che tenga, la decantata lotta alla corruzione, per cui anche i vertici dell’Unione Europea si sono complimentati con Kiev, nasconde la paura di perdere il potere, e la conseguente necessità di eliminare qualsiasi minaccia. Perché il trono ha poco a che vedere con il potere. La corona ancora meno, pesante che sia. Non esiste unione dietro il governo di uno Stato, ma solo Prìncipi potenziali, frenati dalla paura o dai propri limiti. O dalla mancata comprensione dell’ordine generale delle cose, che è come terra sotto ai piedi in questi casi.