All’apice della crisi pandemica è riemerso con forza il pensiero di Giorgio Agamben. L’idea che lo Stato abbia costante bisogno di situazioni d’eccezione per poter governare si è riaffermata con forza davanti all’evidenza di un esecutivo capace di agire solo mediante decretazione d’urgenza. Non è una pratica nuova, è chiaro. Nei fatti è dagli anni ’80 che sempre più il Parlamento si ritrova ad approvare norme nate in seno alle Commissioni o dall’iniziativa dei ministri. Un Parlamento svuotato del suo potere legislativo lascia il campo per un accentramento del potere verso l’esecutivo, con la conseguente rinascita di proposte mai del tutto sopite. L’idea di un’elezione diretta del Presidente della Repubblica, ad esempio, è da considerarsi diretta discendente di una situazione che è già realtà de facto. D’altro canto la sensazione è che si passi di crisi in crisi senza soluzione di continuità, e che dunque ci sia la necessità, ancor prima che la volontà, di dare spazio di manovra al governo. La cesura improvvisa e netta fra il Covid e l’Ucraina è una dimostrazione, già avanzata da molti, di questo incessante saltellare di emergenza in emergenza.
Anche questa non si può dire una pratica nuova. I governi degli uomini su altri uomini hanno sempre poggiato le basi sulla protezione dei loro sottoposti da un pericolo che stava al di fuori la comunità creata dal tacito accordo fra governanti e governati. In Italia per decenni la Democrazia Cristiana è rimasta al potere sfruttando l’idea d’instillare il costante e potenziale pericolo dell’instabilità sociale portata dal nemico rosso. Ciò che rende l’epoca corrente speciale, per così dire, è il continuo sovrapporsi di diverse crisi, che sovraccaricano il sistema fino allo stremo. Tanto che, contrariamente a quanto avveniva ai tempi della DC, l’arrivo di Giorgia Meloni alla guida dell’esecutivo è stata accompagnato da un sentimento di dispiacere per la povera signora dalla Garbatella cacciatasi in un guaio più grande di lei. Mai l’elezione di un governo aveva portato a dover provare amarezza per gli eletti. Questa è la novità. Una novità portata da quella definibile come una “strategia della tensione internazionale” che ritiene eleggibili solo personaggi in grado di cavalcare l’onda, senza essersene travolti. L’applicazione di tale strategia è possibile solamente in uno scenario di costante emergenza. Anzi emergenze, perché solamente una sarebbe forse sormontabile. Ma l’unione di Covid, Ucraina, approvvigionamento energetico, riscaldamento globale, emergenza migratoria, quello no, quello è troppo per un banale governo politico, espressione della volontà popolare.
Lo storico inglese Adam Tooze ha pubblicato lo scorso 28 ottobre sul Financial Times un breve articolo chiamato “Welcome to the world of the polycrisis”. Crisi è un termine di origine greca, significa scelta ma denota anche il momento in cui il paziente si trova al bivio fra la vita e la morte. Ognuna delle crisi che Adam Tooze cita nel suo articolo potrebbe portare alla fine del sistema. Ancora peggio, lui sostiene, è il fatto che queste crisi sembrano intersecarsi e rafforzarsi l’una con l’altra, formando poi un insieme che è più grande della somma delle sue parti. Il riscaldamento globale si collega alle alluvioni che, oltre a portare morte, funestano un settore economico già in difficoltà dal Covid e dai crescenti prezzi delle bollette. L’aumento delle temperature porta siccità (un problema già sparito dai radar, sebbene pochi mesi fa aprisse le prime pagine dei giornali) che a loro volta spingono tanti a emigrare verso paesi più ricchi, con le conseguenti tensioni internazionali che sono invece fresco argomento per opinionisti oggi. Da qualunque lato lo si analizzi il puzzle non cambia. Resta il fatto che l’Italia vive la policrisi da protagonista. Non solo perché si affaccia sul Mediterraneo, ed è dunque porto principale per chiunque cerchi di raggiungere l’Europa dall’Africa, ma anche semplicemente perché si trova in Europa, vittima principale della crisi energetica. Una vittima d’eccezione dato che, a differenza di altri paesi vicini. si trova a dover recuperare un 40% di deficit del proprio fabbisogno di gas russo. Altri paesi sono stati più accorti nel diversificare le proprie forniture. Difficile infine tralasciare la potenziale crisi politica interna, data da un esecutivo – uno dei più schierati ideologicamente della storia della Repubblica – che agisce sia da vittima che da carnefice. Pronto a cavalcare l’onda invece di farsi buttare giù.
I problemi da più fronti non sono una caratteristica esclusiva di questi anni ’20. Ma mai come adesso l’impressione è che la soluzione non possa essere una sola. Spiega Tooze: “Immaginare che i nostri problemi futuri saranno quelli di cinquant’anni fa significa non capire la velocità e le proporzioni della trasformazione storica” (traduzione di Gregorio Sorgi per Il Foglio). In un mondo che a novembre 2022 registra 8 miliardi di abitanti – negli anni ’70 erano 4 – e che ha assistito al trionfo del Washington consensus come unico modello di crescita perseguibile, è difficile credere che le vie di fuga potenziali siano le medesime adoperabili durante gli anni del boom economico. Non ci sono vincitori, solo vinti: allo stesso modo chi sosteneva che l’affermazione delle logiche mercato avrebbe portato alla risoluzione di tutti i problemi e chi affermava l’opposto, cioè altri modelli fossero realizzabili. L’impasse è proprio questa: non c’è alternativa al capitalismo, pur essendo causa degli attuali problemi. Ecco perché la policrisi può essere considerata un fenomeno relativamente nuovo: non tanto per la qualità dei problemi che presenta, ma per la loro quantità, e per l’assenza di una vaga idea sul percorso da intraprendere per tamponarli. Le politiche ambientali sono divisive e allo stato attuale irrealizzabili; quelle migratorie peccano di visione a lungo termine; infine quelle geopolitiche conducono direttamente alla terza guerra mondiale. Soluzioni di facciata che guardano al domani, dimenticandosi del dopodomani.
Se Tooze arrivare a sostenere che la policrisi è più grande della somma delle sue parti è anche perché a far da cassa di risonanza c’è forse il più imponente apparato mediatico mai visto. Pervasivo e capillare fino allo stremo, è difficile fuggire la narrazione o il pressante bisogno di avere un’opinione. Così tutto è argomento di un grande discorso, che quando esaurisce il tema del momento è rapido nel buttarsi su quello successivo. Il tutto segue i dettami dell’iperspecializzazione di matrice neoliberista: ad ogni personalità di cittadino preoccupato corrisponde una crisi che potrebbe cambiare terribilmente lo status quo (su quest’ultimo a ben vedere aleggia un sentimento tutto sommato d’accettazione passiva). L’aumento delle temperature globali, Donald Trump, la disperata ricerca di fornitori di gas, a seconda dei gusti si trova una crisi per tutti. E per ognuna di esse una maglietta da indossare, un motto da urlare. È l’epoca della policrisi, un fenomeno che si autorinforza la cui ineludibilità diventerà sempre più evidente per ogni afflato provocato dall’infinita discussione collettivamente alimentata. Fino al momento in cui, inevitabilmente, scoppierà.