La cultura del ricordo è un fenomeno universale. La cultura del ricordo rimanda a un passato che deve dimorare, mai come oggi, nella coscienza di noi tutti. Non dimentichiamo che la memoria culturale si concentra attorno ad alcune figure simboliche (archetipiche) del passato, le più significative, che permettono il riconoscimento dell’identità degli appartenenti a un gruppo, a un popolo, a una determinata geografia, a un determinato territorio… un’identità che valica il dato quotidiano e assume un valore cerimoniale, un valore sacro, oserei liturgico, imperituro. Mediante tale liturgia, oltremodo rituale (e anche un’esposizione di artisti, che hanno poetiche simili, nella nostra visione del fare risulta “rito”), dicevo… mediante tale liturgia ne esce garantita la partecipazione alla memoria culturale che, da sempre, ha, però, alcuni detentori speciali (appunto cantori, poeti, sacerdoti, pittori, scultori, musicisti) che, innegabilmente, si differenziano, per ruolo, dai restanti membri della comunità. Storicamente questa differenziazione si è espressa in maniera netta (nelle civiltà antiche), ora in maniera (tristemente) sempre più sfumata. Inoltre non scordiamo che la memoria culturale fa acquisire alla vita umana una bidimensionalità/bitemporalità importantissima (Genius Loci-cielo/ Passato-presente) che permane in tutti gli stadi dell’evoluzione culturale: il mondo attuale è però pervaso da un’irresistibile e inesorabile avanzata verso l’unidimensionale, verso la globalizzazione (o mondializzazione), verso l’omologazione, l’omogenizzazione, in una continua “attualità” (termine che odio), e ciò, miseramente, si accompagna, appunto, al declino dell’importanza di quel sacro, eterno e, per essenza, immutabile, che ho sovra ricordato. L’unidimensionalità è una caratteristica del quotidiano e, in base a quello a cui ogni giorno assistiamo, implica la mancanza di grandi prospettive: invece il ricordo del passato sempre si traduce nell’aspettativa del ritorno di un’era etico-estetica “aurea”, più favorevole per l’uomo perché più vicina all’origine (anche se i positivisti-progressisti, dalla Rivoluzione Francese in poi, hanno creduto e quindi professato, erratamente, il contrario).
Sempre nel passato, l’evoluzione temporale operò una grande trasformazione del “luogo del sapere” che, col procedere dei secoli, meno risiedette esclusivamente nel rito per scivolare nell’esegesi dell’immagine, poi nel simulacro (icona-totem-scultura), quindi nel testo. Nell’oggi questa prassi viene scientificamente definita come il passaggio dalla coerenza rituale alla coerenza testuale, transito che di solito si è venuto a verificare quando la società si è affrancata dalla ripetitività della celebrazione per infine definire un codice (un canone – una summa) che andasse a raccogliere l’intero flusso della tradizione. Mai come ora, in ambito visivo e plastico, il concetto di canone è fondamentale per determinare le categorie di appartenenza; infatti il suo corpus di regole rappresentative fonda e modella, ulteriormente, un’identità. Molti di noi occidentali, nonché non pochi euroasiatici, hanno opposto e ancora oppongono una strenua resistenza alla distruzione di quel canone accettato da secoli e secoli e secoli, quindi combattono, strenuamente e con valore, contro il cosiddetto “oblio della (propria) identità”. Non per nulla il tramonto di un’etnia risulta un vero e proprio crepuscolo collettivo, una tragedia, mentre l’intensificazione dell’identità di un determinato gruppo di “resistenti” si accompagna alla formazione di particolari componenti che saldano o rinsaldano i legami, così che quel piccolo insieme iniziale (quel “cenacolo di perseveranti”), unendosi ad altri, giunge prima o poi a ri-definirsi popolo… un popolo che, nell’apoteosi della conoscenza-coscienza, si riconosce, appunto, in un’unica matrice tradizionale.
L’unidimensionalità è una caratteristica del quotidiano e, in base a quello a cui ogni giorno assistiamo, implica la mancanza di grandi prospettive: invece il ricordo del passato sempre si traduce nell’aspettativa del ritorno di un’era etico-estetica “aurea”, più favorevole per l’uomo perché più vicina all’origine
Gian Ruggero Manzoni
Lo storico, antropologo e linguista tedesco Dietz Bering ha osservato che la memoria culturale oltre a riferirsi al concetto identitario di specifiche collettività (nazioni, comunità, famiglie, gruppi di fedeli, laici o religiosi che siano) risulta sempre ricostruttiva, perché non compie una ricognizione del passato alla ricerca di una verità generica o in modo disinteressato, bensì parte dal bisogno di identità nel presente quale ri-consolidamento del passato per ritrovare criteri stabilizzanti atti a dare forma compiuta, non liquida, non evanescente, al futuro (cioè, come diceva José Ortega y Gasset, “il futuro sta nel passato” o, come dico io, “nella tradizione dimora, sempre, l’unica avanguardia”). Del resto in una certa Europa (quella che amiamo) si attribuisce un’importanza straordinaria alla cultura della memoria. È possibile che in altri continenti (in particolare nelle Americhe e in Australia) ciò sia talora percepito come un’esagerazione, o, meglio, non sia capito, ma la memoria fa parte dei “miti fondanti” il nostro mondo (il Vecchio Mondo) sia del prima la Seconda Guerra Mondiale che del dopo. Infatti mai come in una certa Europa la cultura della memoria presenta sinergie interdisciplinari tanto forti ed effetti mediatici tanto grandi, e una buona parte dei territori di lingua germanica, ad esempio, ne sono una riprova, in modo che la cultura della memoria tedesca, nelle scienze del sapere, acquisisce un carattere esemplare per tutto l’Occidente.
Per dinamizzare la cultura della memoria europea ed euroasiatica, come ci suggerisce il filosofo e politologo russo Aleksandr Gel’evič Dugin, occorre una simultaneità di testimonianze primarie e secondarie del tempo. Tale fenomeno viene definito, in ambito socio-politico, “ostalgia” (cioè nostalgia), termine entrato ufficialmente nella lingua tedesca nel 1993 quando la Gesellschaft für Deutsche Sprache (la Società per la Lingua Tedesca) lo inserì nell’elenco delle dieci parole più rappresentative per indicare il sentimento melanconico sviluppatosi nei primi anni ’90 nella ex Germania Orientale a seguito della scomparsa del governo totalitario-assolutista presente in tale geografia, il quale, come ben sappiamo, dava continuità, seppure con colore diverso, a quello che lo aveva preceduto. L’egittologa e antropologa tedesca Aleida Assmann ha dedicato alla memoria culturale il suo principale studio, “Erinnerungsräume. Formen und Wandlungen des kulturellen Gedächtnisses” (1999), che, nell’edizione italiana, con una modifica del titolo, ha perso la connotazione spaziale a vantaggio della più generale funzione del riandare al passato col pensiero, divenendo “Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale” (2002). Questa scelta espunge tuttavia un importante fattore della concezione della Assmann, che intende la memoria culturale come il principio monumentale del sapere, il quale abbisogna di una interazione tra condizioni spaziali e temporali per potersi sedimentare e diventare patrimonio collettivo. A questa prima fondazione concettuale, che è nata da una più antica analisi della Assmann, sviluppata in collaborazione con Dietrich Harth nello studio “Kultur als Lebenswelt und Monument” (1991) – includendo la dicotomia tra una Lebenswelt (una “situazione esistenziale”) che si riferisce all’effimero, al vacuo, al quotidiano, all’“attuale”, e un Monument, che invece indica una permanenza di messaggi eterni, in quanto legati a valori che sempre più si consolidano nel tempo – si sono aggiunte le rielaborazioni dei principi fondativi della memoria, che implicano un’ulteriore e oltremodo interessante distinzione tra memoria individuale, memoria generazionale o epocale, memoria collettiva e memoria culturale. Infatti per la Assman la memoria configura, quale compresenza ‘viva’ di ciò che viene ricordato come importante, uno “spazio di coscienza” (Besinnungsraum) che si estende ampiamente nel passato. Del resto tra gli impegni dello studioso della memoria culturale si trova anche quello di osservare i fenomeni di trasformazione dei ricordi lungo l’asse della storia, con attenzione ai mutamenti generazionali. Quindi con identità collettiva (o identità in quanto “Noi”) intendiamo l’immagine che un gruppo costruisce di sé, tramite il suo progettare poi fare, e in cui i suoi membri credono e, di seguito, si identificano. Del resto l’identità collettiva è una questione di fusione a opera degli individui che vi hanno e vi fanno parte: non esiste “di per sé”, bensì sempre e solo nella misura in cui soggetti ben determinati e culturalmente elevati (una élite) la professano.
Ma quali i massimi nomi degli studiosi che hanno sostenuto tali tesi inerenti la rilevanza della memoria culturale? In ordine sparso Simonide, Harald Weinrich, Elie Wiesel, lo stesso Proust, Pierre Nora, Paul Ricoeur, Reinhart Koselleck, Nicolas Perthes, Jens Ruchatz, i quali hanno fatto della “narrazione della memoria” punto focale, cioè: radice, fondamento, sul quale ergere ogni possibile costruzione di pensiero, oppure ogni forma creativa. Tra gli artisti contemporanei che hanno imboccato tale strada mi piace qui ricordare personalità come Anselm Kiefer, Giulio Paolini, Christan Boltanski, il primo Carlo Maria Mariani, la compianta Louise Bourgeois, Mimmo Paladino, William Kentridge, Luigi Ontani, Raúl Hevia, Serena Gamba, Tony Oursler, Fernando De Filippi, il compianto Igor Mitoraj, Urs Fischer, Claudio Parmiggiani, Jan Knap, Fabio Viale, il compianto Vettor Pisani, Simone Pellegrini, che sono riusciti a rendere visibile l’assenza di qualità che domina l’odiato “attuale” insistendo sulle tante metafore dell’“abbandono”, laddove la presenza di libri o antiche immagini, nelle loro opere, diventa una forma di propiziazione della memoria sempre ritrovata e sempre “tonificata”, e ciò con la volontà di ristabilire le condizioni antecedenti “l’era meccanicistico-industriale”, assumendo, in tal modo, un carattere apertamente “reazionario”, nel significato alto del termine, cioè quello del: “porsi contro”, con tenacia e per indole ribellistica, a una vacua modernità tecnologica, tecnocratica e tecnicistica.
Non a caso, seppure in modo sintetico e quel tanto semplice, in base a questa mia analisi critica, tutti gli artisti sovra elencati in sé hanno ritenuto che un’opera d’arte sia tale solo se, distaccandosi dal civile, dal politico, dall’“attuale”, fornisce, o è progettata con l’intenzione di fornire, esperienze apprezzabili di per sé, per il suo contenuto intrinseco, così che detti artisti sono tutti partiti tentando di opporsi all’assimilazione di ogni valore da parte di istanze funzionali a un qualcuno o a un qualcosa, e, in modo particolare, da parte delle richieste tipiche del mercato, tentando di realizzare opere che non avessero altro principio se non quello offerto dalla contemplazione del lavoro stesso (forse il mallarmeano “arte per l’arte”?), cioè, per dirla con una formula ancor più compiuta: autenticità e virtù dovute alla contemplazione e allo stupore (poetici-immaginifici) sgorganti dall’opera, quindi da quei sentimenti lontanissimi da qualsiasi utilità e dalla strumentalizzazione sociale che i lavori, figli della modernità, spesso vengono a svolgere, così da tornare a quel prestigio, a quell’emozione creativa che la “memoria dell’arte” (e non “l’arte memoriale”, perché differenza c’è tra le due definizioni, ed è differenza per noi enorme) e la “filosofia canonica dell’arte” ancora ci consegnano.
Svolgendo siffatto discorso, bisogna anche mettere in conto che l’eredità culturale, che è relativa a un contesto territoriale e comunitario ed è capace di dimostrare unicità e potenzialità nel tempo (il famoso e da noi sostenuto: Genius Loci – qui già citato), si sintetizza nel termine “heritage” (patrimonio). Il “cultural heritage” è il concetto che ci porta oltre la fisicità della definizione “bene culturale”. L’heritage connota estremo valore, rappresenta uno stretto legame con il passato, ma, soprattutto, risulta un motivo portante di continuità nel presente e nel futuro; inevitabilmente muta nel tempo e nello spazio, riflettendosi nella società tutt’intera, ma il patrimonio ereditato da un luogo, cioè ciò che abbellisce o ha abbellito quel luogo, quello che lo ha reso o lo rende “magico e primario”, permette di acquisire una particolare esperienza che risulta un forte collante fra gl’individui per un divenire comune. A tal proposito lo storico francese Pierre Noira ha scritto: “Il luogo della memoria è un’unità significativa, d’ordine materiale o trascendentale, che la volontà degli uomini o il lavorio del tempo ha reso un elemento simbolico di una certa comunità […]. Il luogo della memoria ha come scopo di fornire al visitatore, al passante, il quadro autentico e concreto di un fatto storico. Rende visibile ciò che non lo è: la storia, […] e unisce in un unico campo due discipline: la storia, appunto, e la geografia”. Infatti le relazioni e i rapporti che la comunità intrattiene con il proprio patrimonio immateriale (col proprio “universo astratto-simbolico”) delimitano e proteggono l’identità stessa della comunità: si tratta di creazione, ri-creazione, uso e incorporazione attraverso processi identitari ricorsivi. Così ogni società rappresenta se stessa nella capacità di riconoscere il proprio “immaginifico”, il proprio spirituale, o il proprio “inventivo”, quindi la propria storia culturale e appunto creativa, poi, a seguire, nel riuscire a produrre e a trasmettere detta cultura (perciò di farla accogliere, con la stessa tensione primigenia) alle generazioni a venire. A questo punto posso affermare che la memoria culturale è un nodo nevralgico non solo per dare identità a una Nazione o a una collettività, ma anche per dare “forma compiuta” a ogni individuo, così che i ricordi anche dello stesso divengono di valore comunitario e, una volta salvati e curati, insieme possono considerarsi come beni culturali d’approccio storico e di risposta ai vari quesiti che da sempre attanagliano l’umanità. Da tali e con tali presupposti è nata questa unione d’artisti, e così il titolo della stessa: UR, che tutti gli intellettuali occidentali (archeologi, antropologi, sociologi, linguisti, teologi, artisti, etc.) hanno definito “culla della nostra civiltà”, “culla del nostro sapere”, “sede originaria della nostra memoria culturale”.
UR, in lingua sumera: Urim, madre della prima scrittura, quella cuneiforme, nonché centro di importanza in cui nacque il patriarca biblico Abramo, fu città posta nella bassa Mesopotamia, situata vicino all’originale foce del Tigri e dell’Eufrate, sul golfo Persico. A causa dell’accumulo di detriti, oggi le sue rovine si trovano nell’entroterra, nell’odierno Iraq, nei pressi di Nassiriya. I reperti più antichi ritrovati in essa sono databili antecedentemente al 4.000 a.C.; fu prima importante centro agricolo e pastorale, poi divenne nodo artigianale e commerciale di tutta quell’area e non solo, e ciò anche merito il porto fluviale che poteva vantare sull’Eufrate… porto che la congiungeva al mare. Da un punto di vista archeologico gli scavi condotti a UR ci hanno offerto centinaia di documenti scritti (tavolette di creta ricoperte di caratteri) nonché una necropoli che conta oltre 1.800 tombe di importanza, delle quali 16 si sono distinte per la ricchezza dei corredi funerari in esse ritrovati, principalmente vasellame, oltre ad armi, monili forgiati con metalli preziosi e addirittura strumenti musicali, in particolare arpe e altri a corda, decorati con pietre preziose. Tra di esse quelle di re e di regine con all’interno anche i cadaveri di cortigiani, domestici, dame di compagnia, guardie, musicisti di corte, immolati per scortare i sovrani nell’aldilà.
Al centro del sito archeologico di UR spiccano, anche, le rovine di una imponente ziqqurat (in sumero: etemenniguru, “casa dalle fondamenta imponenti”), una piramide, in questo caso a tre gradoni, che raggiunse l’altezza di oltre 25 metri, e che è ancora in gran parte intatta. Fu tempio dedicato al dio-luna Nanna (o Sin) e osservatorio astronomico; inoltre, in cima allo stesso, venivano compiuti sacrifici umani, tramite la somministrazione di veleno, quindi senza spargimento di sangue. La ziqqurat fu costruita in mattoni i quali, nella parte bassa, ancora sono tenuti uniti con il bitume, invece, nella parte superiore, sono di malta, impastata con paglia e canne, per rendere più leggera la struttura. Decadute la civiltà sumerica e quella assiro-babilonese, a UR giunsero i Caldei, popolo semita, che parlava un dialetto aramaico, citato nel libro biblico della “Genesi” e più volte nell’Antico Testamento; un’etnia che si diceva discendente da Sem, figlio del patriarca Noè, e di cui i padri fondatori non erano che gli appartenenti alla ex casta sacerdotale babilonese. Così scrisse di loro lo storico Diodoro Siculo (90 a.C. – 27 a.C.) nella sua monumentale “Bibliotheca historica”, citando lo scrittore ellenistico di origini babilonesi Berosso (vissuto nel III secolo a.C.): “Da molto tempo i Caldei hanno condotto osservazioni sulle stelle e primi, tra tutti gli uomini, hanno indagato nella maniera più accurata i movimenti e la forza dei singoli corpi luminosi; per questo possono predire alquanto il futuro degli uomini stessi”. Anche i Greci antichi e i Romani conoscevano i Caldei per le loro “arti magiche” e Filone, noto cronista e storico ebreo nato ad Alessandria d’Egitto nel 30 a.C. e ivi morto nel 50 d.C., così scrisse di quel popolo nella sua “Migrazione di Abraham”: “Sono i Caldei ad avere elaborato più compiutamente di altri l’astronomia, l’astrologia e l’oroscopo iniziale: essi hanno così collegato gli avvenimenti della terra con i fenomeni superiori, così i fatti celesti con quelli che porta la terra, e in base a dei rapporti che si direbbero musicali, facendo sentire l’armonia pienamente concertata dell’universo, grazie alla coesione e simpatia delle sue parti, che malgrado la distanza che intercorre fra loro, si mantengono inseparabili a causa dell’origine comune”.
UR, considerata dagli ebrei al pari di Babilonia quale città senza Dio dedita a ogni perdizione, fu governata dai Caldei fino al 539 a.C., cioè fino a quando non giunsero i conquistatori persiani, ma detto popolo non sparì. Dopo l’avvento del Cristianesimo, fede alla quale i Caldei mai si convertirono, preferendo lo Zoroastrismo, o Mazdeismo, oppure Parsismo, cioè la religione che si basa sugli insegnamenti del profeta Zarathustra o Zoroastro (si rammenti il famoso poema “L’epopea di Gilgamesh”), dicevo… dopo l’avvento del Cristianesimo, il primissimo documento nel quale si menzionano i Caldei risale al I secolo d.C., ovvero nel manoscritto conosciuto come “Dottrina dei Dodici Apostoli” o “Didaché”, nel quale sono riportate queste parole: “Gli apostoli stabilirono inoltre: chiunque si rivolga a maghi, indovini e Caldei, riponendo la sua fede nel fato e negli oroscopi come fanno coloro i quali non conoscono Dio, fate che costui, come un uomo che non conosce Dio, lasci il sacerdozio e che non vi torni mai più”.
I Caldei, oltre a studiare e a “leggere” gli astri, furono anche i primi ad avere inventato la Numerologia, tramite la quale, come poi con l’Astrologia, pare fossero in grado di predire il futuro. Infatti la Numerologia Caldea, antesignana della Kabbalah ebraica, permetteva di convertire le lettere in numeri e i numeri in lettere ed utilizzava solamente le cifre dall’1 all’8, dove l’1 aveva il significato di origine, inizio, e l’8 di conclusione, fine. La Numerologia Caldea è conosciuta, anche, come Numerologia Mistica, in contrapposizione alla più diffusa Numerologia Pitagorica. Sempre i Caldei davano grande importanza divinatoria alle eclissi di sole e di luna, alle comete, alle meteore e ai vari eventi celesti da loro osservati, da ciò anche l’episodio dei Magi (mágoi) riportato nel Nuovo Testamento. L’evangelista Matteo parla di loro al plurale, ma senza indicarne il numero e senza affermare che fossero re, come qualcuno invece sostiene. In effetti nelle versioni più accreditate, che hanno preso in considerazione detto episodio della nascita di Gesù, vengono considerati quali astrologi e indovini di etnia caldea, giunti dalla Persia (o meglio: “da dove il sole sorge”), per rendergli omaggio (per “inchinarsi a lui”, questo significa il termine proskýnesis, non “adorarlo”); perciò mi pare più che motivato supporre che fossero sacerdoti dell’antica fede Zoroastriana (per la quale è fondamentale esprimere venerazione per i giusti di ogni terra e di ogni credenza trascendentale, se essa di stampo monoteista) i quali, indirizzati appunto da una cometa (che, esotericamente parlando, si dice stessero attendendo da anni), si recarono in Palestina per portare doni “all’agente del Dio di Luce, veicolo di quel logos (Verbo) che dà forma e congruità al cosmo intero”, attribuendo in tal modo al Cristo degna continuità con ciò che era stato e aveva predicato Zarathustra. Un’antica pergamena araba, conservato alla Laurenziana di Firenze, conferma questo dire, così come in un testo risalente al medioevo, il cosiddetto “Vangelo Arabo sull’Infanzia del Salvatore”, si legge: “Nato il Signore Gesù a Betlemme di Giuda, al tempo del re Erode, ecco che dei Magi vennero a Gerusalemme, come aveva predetto Zaradusht, portando seco dei doni”.
I Caldei, oltre a studiare e a “leggere” gli astri, furono anche i primi ad avere inventato la Numerologia, tramite la quale, come poi con l’Astrologia, pare fossero in grado di predire il futuro. Infatti la Numerologia Caldea, antesignana della Kabbalah ebraica, permetteva di convertire le lettere in numeri e i numeri in lettere ed utilizzava solamente le cifre dall’1 all’8, dove l’1 aveva il significato di origine, inizio, e l’8 di conclusione, fine. La Numerologia Caldea è conosciuta, anche, come Numerologia Mistica, in contrapposizione alla più diffusa Numerologia Pitagorica
Ma chi sono gli artisti che, assieme a me, hanno dato vita a questo gruppo, quindi, a loro volta, vanno a sotto firmare, tramite le loro opere, ciò che finora ho sostenuto? Colui che per primo, in anni non sospetti, ha promosso le posizioni artistico-esistenziali alle quali ho dato idea e costrutto tramite lo scritto che qui precede, volutamente usando una chiave quel tanto didattico-esplicativa, quindi storiografica, è stato, innegabilmente, il romagnolo Giovanni Scardovi il quale, remando contro corrente in un momento in cui Arte Povera e Arte Concettuale la facevano da padrone, con piglio altamente poetico, tramite i suoi scritti, le sue poesie, i suoi disegni e, soprattutto, le sue sculture ha fatto della figurazione, del mito, dell’immaginario pagano (linea di tendenza da lui teorizzata), dell’unione letteratura-arti plastiche, della narrazione, della reinterpretazione del simbolo i punti di forza della ricerca che negli ultimi quarant’anni egli ha condotto. Usando la creta quale materiale di elezione, tramite la stessa ha ribadito l’appartenenza a una geografia ben definita, quella che dalla Romagnola-Ferrarese via via degrada verso il Po e il suo delta, così che, nelle epifanie a cui ha dato e ancora dà forma, l’impasto acqua e mota è divenuto e diviene sempre un “io-tu” in dialogo entro l’animo di personaggi che si pongono quali custodi, quali sentinelle, di un mondo che perdura a scorrere a lato del nostro. Trascendendo ogni contemporaneità così scriveva Rilke, a mio avviso anticipando anche il ritratto artistico di Giovanni Scardovi: “Ah, non essere separati / non esclusi, per minima parete, / dalla misura delle stelle. / Lo spazio in noi altro non è / che intensità di cielo, / solchi di uccelli, profondità / di venti del ritorno”. Infatti Scardovi della coniuctio oppositorum ha fatto costante cibo e trama del suo desco, in una condizione di perenne tensione tra elementi diversi che risultano presupposti energetici necessari affinché vi sia una costante vitalità della psiche la quale, sulla base di processi di sintesi, di compensazione, di equilibrio, giunge ad articolarsi in stabili, specifiche, sedimentate configurazioni. Come suo perdurante riflesso, calcando, con necessaria dovizia, sulla continuazione di un racconto chimerico e regalmente allusivo e illusorio, ecco un altro romagnolo, Alberto Bambi, e le sue sculture le quali, basandosi sull’oracolarità del sempre sublime Eraclito di Efeso (che sosteneva che tutto ciò che esiste prima o poi si trasforma nel suo opposto), infine approda a una sorta di idealismo hegeliano, quello che poggia sulla famosa triade: tesi-antitesi-sintesi, dove l’elemento fuoco, emblema del dinamismo del divenire, viene bloccato nel momento della sua massima emanazione calorica, interpretando questo frammento poetico di Novalis che tanto amiamo: “Come la più riposta / anima della Vita, / la respira il cosmo immane / delle insonni costellazioni / che nuotano danzando / in quell’azzurro oceano. / La respira la pietra, che brilla / in sua quiete eterna; / la pianta sensitiva, che risucchia; / il selvaggio focoso animale / d’innumerevoli forme. / Ma, sovra tutti, / il Viandante superbo: / gli occhi ricolmi di sensi profondi; / librati i passi leggeri; / dolcemente socchiuse le labbra / ricche di suoni”. Alberto Bambi, come poi anche Scardovi, grazie a studi transculturali e alla minuziosa opera di recupero e di approfondimento su importanti testi della tradizione ermetico-esoterica, introduce quella scienza definita “dell’evoluzione psichica” che unisce il principio solare a quello lunare, ovvero il maschile e il femminile, realizzando una condizione necessaria che consente il superamento dell’unilateralità della coscienza egotica per realizzare una più ampia esperienza del proprio Sé, inteso quale simbiosi unitaria dei diversi e molteplici aspetti, consci e inconsci, della propria personalità, sia umana che artistica, per infine approdare a una visione di ordine universale. A tale soluzione dell’Essere, messa in opera da Bambi, necessita aggiungere l’alta esperienza estetica che profondono le sculture del bolognese di nascita Sergio Monari. Per questo nostro artista l’aspetto “dandistico” (e perdonatemi detto termine che qui uso per fini di sintesi) si pone, con voluto distacco, dai processi tipici del cosiddetto “gusto di massa”, così da voler fare anche della propria vita opera d’arte, come poi la grande ammaliazione del “decadentismo” ci ha indotto a praticare, in cui l’amore per la raffinatezza si coniuga con la continua sete di emozioni esclusive, rare, uniche, le quali risultano colonne portanti dell’esistenza, sia in accezione sublime che antisublime, infine sublime anch’esso, così come Bacon, Giacometti e altri ci hanno insegnato. Del resto come dare torto a tutti coloro che hanno sostenuto che l’arte è praticabile e accessibile solo da e a pochi eletti, che è volta alla conquista della bellezza, che è autonoma e non ha scopi morali, e che giustifica il travalicamento dell’etica, al fine che il piacere risulti istanza dominante? Così scriveva, per i Monari che a suo tempo incontrava in questo o quel salotto o studio, l’inarrivabile William Butler Yeats: “Gli innocenti e i belli non hanno altro nemico che il tempo. Ho disteso i miei sogni sotto ai tuoi piedi; cammina delicatamente perché cammini sui miei sogni, ed è nei sogni che comincia la responsabilità”. Infine, anche per questo artista, l’opera vive, sempre, una sua componente alchemica in cui contrapposizioni e conflittualità giungono a un possibile superamento grazie all’allargamento ed arricchimento del campo di coscienza, il quale sempre contiene in sé elementi negati o rimossi che l’arte riesce a razionalizzare soprattutto tramite le pulsionalità suggerite da una fredda logica unita all’eros, schema che si pensa molto difficile da raggiungere, ma che Monari, senza ombra di dubbio, riesce a realizzare.
Per restare sempre nell’ambito dell’estetica ora non si possono che prendere in considerazione le poetiche allusive e armoniche rappresentate dalle opere del ferrarese Gianni Guidi. Così come Schopenhauer, sulla scia dei romantici, vedeva nella musica una vera e propria “metafisica in suoni”, un “linguaggio più puro della stessa ragione”, un’arte eterea e sublime capace di svincolare l’uomo dalla materialità degli istinti e dalle regole imposte dalla “volontà di vivere”, lo stesso filosofo tedesco, reinterpretando la famosa, determinata e illuminante distinzione kantiana tra “fenomeno” e “noumeno”, ossia tra ciò che si manifesta all’interno delle forme trascendentali del soggetto (conoscente), il quale via via si costituisce progressivamente come oggetto, e la “cosa in sé”, in-esperibile e quindi in-conoscibile, colse nella scultura e nella pittura quella componente platonica, tra mondo sovrasensibile delle idee e mondo sensibile del divenire, per la quale alla dimensione del fenomeno, inteso come pura apparenza e rappresentazione, si contrappone l’entità soggiacente alla volontà, che per Schopenhauer fu la vera e propria “dimensione dell’Essere”, cioè il vero sostrato metafisico dell’esistente. A seguito, come non ricordare questi versi di Théophile Gautier, scritti per spingere l’artefice alla continua applicazione di ordini non solo astratti, ma, soprattutto, alla messa in atto di misure di elegante matrice formale: “Sì, l’opera risulta più bella / da una forma al lavoro / ribelle, / versi, / marmo, / onice, / smalto, / […] Gli dei stessi muoiono. / Ma i versi sovrani / restano / più forti dei bronzi. / Scolpisci, / lima, / cesella; / che il tuo sogno fluttuante / si sigilli / nel sasso resistente!”? In tale componente risiede la forza di Guidi, sofisticato esecutore dell’impercettibile. Sempre frutto dell’odierna, sebbene antica, scuola ferrarese appaiono, ai nostri occhi, le opere di Sergio Zanni, che di sé scrive: “Il mio mestiere mi permette viaggi continui alla scoperta di terre sconosciute. Questi luoghi si sono materializzati in una miriade di personaggi: eremiti, signori della pioggia, assassini, diavoli, custodi delle pianure, osservatori, camminatori, cacciatori di nuvole, angeli, equilibristi…” i quali, goticamente, appaiono dall’intangibile, dall’etereo, occupando, d’incanto, gli spazi dello scibile. Dove Breton e i suoi cercavano di elevare lo stato onirico a una più alta realtà, un artista visionario come Zanni usa tutti i mezzi a sua disposizione per accedere a differenti stati di coscienza e quindi mostrare, appunto, ciò che in essi incontra. Infatti la sua arte cerca di rendere concreto quello che dimora al di là dei confini della nostra vista, superando le modalità ordinarie della percezione, per poi esprimere, in una forma riconoscibile, ciò che in questo universo risulta, per noi, evanescente. Scriveva William Blake: “Sognai un sogno! Che vorrà mai dire? / Regina ero, e vergine, / guardata da un buon angelo: / pena senza perché mai non s’inganna! // Piangevo notte e giorno le mie lacrime, / e lui me le asciugava; / giorno e notte piangevo / celandogli la gioia del mio cuore. // Così sulle sue ali volò via; / il mattino arrossì; / io il pianto mi asciugai, / e i miei timori armai di scudi e lance. // Egli presto tornò: mai mi ero armata, / così che tornò invano; / gioventù era passata, / e grigie chiome stavan sul mio capo”. Forse quello che oggi può essere dimostrato risulti, nel domani, immaginato? Pare che per Zanni tale processo a ritroso sia la seconda componente portante del suo fare… cioè rendere visibile l’invisibile, per quindi, di nuovo, riconsegnarlo all’intangibile, all’irreale, come poi deve essere in ogni rito che si rispetti.
Un’altra artista che ritrae creature alate, sfingi, uomini-albero, a grandi dimensioni, sfuggendo ogni anamorfosi, infatti si affida a una scheletrica sintesi, così da dare effigie all’impresentabile, è Daniela Carletti, di Ferrara anch’ella, che ha reso telaio la figura, in assoluta concisione ed essenziale definizione, piegando la rappresentazione al significato, ai volumi espressi, agli spazi occupati, dimostrando la variabilità che può riguardare la tecnica, sebbene nella fissità della regola, così che la forma viene ad adattarsi, quale componente mobile, transitoria, mutabile, mentre ben netto e riconoscibile resta ciò che la stessa esprime. Come non citare, davanti a simili formulazioni, la famosa frase di Ovidio, tratta dalle sue “Metamorfosi”, che recita: “Omnia mutantur, nihil interit” – “Tutto muta, ma nulla perisce”, che oltre ad anticipare concetti poi sostenuti anche dall’odierna fisica e astrofisica, attribuisce a quello che è archetipico una perduranza significativa che travalica sia tempo umano che tempo universale (seppure entrambi li si sappia relativi), e come non continuare con un motto del grande Borges: “L’arte vuole sempre irrealtà visibili”…? In questo modo l’opera scultorea di Daniela Carletti racchiude in sé il nobile compito di plasmare il “mitologema uomo” attraverso una narrazione che elimina ogni possibile fronzolo decorativo, basandosi su geometrie essenziali ed elevando il vuoto (là dove ebbe inizio “l’ordine del mondo”), e ciò nel completo rispetto della contestualizzazione tematica, anch’essa, come tutto quello che stiamo trattando, oltremodo carica di contenuti, di interessi, di valori e di rimandi. Del resto il desiderio della Carletti è sempre stato quello di voler andare al fondo delle componenti e di rappresentare (in questo caso l’essere umano metamorfizzato) mai privando il soggetto delle sue parti primarie e riconoscibili, così da cogliere “una possibile verità”, mantenendo le connotazioni naturali seppur scombinandone gli elementi o aggiungendone altri, provenienti, anche nel suo caso, dalla tradizione. Arcaico è invece il porsi di Amir Sharifpour, l’artista iraniano, stabilitosi, con la moglie, nella nostra Emilia-Romagna, che, quale vero e proprio anello di congiunzione con UR, dalla quale la sua etnia discende direttamente, risulta nostra guida in quei territori che a molti occidentali paiono lontani, ma che, e lo ribadisco, delineano i luoghi, i climi, le atmosfere in cui anche la nostra civiltà può ritrovare molte delle sue radici. Ed ecco apparire, nel suo studio, scale e barche (temi amati da molti dei nostri artisti), coni protési verso il cielo, spesso con struttura a base ovale, scritture cuneiformi, cipressi, maschere, quali testimoni di un grado di sapere che si innalza oltre ai confini terrestri. La Mesopotamia, la Persia, l’odierna Siria, l’odierno Libano, l’odierna Palestina rappresentano una delle prime tappe della storia artistica e architettonica dell’uomo, ma anche del pensiero religioso, dello sviluppo politico, della letteratura e delle scienze. Qui nacquero le prime città, i primi imperi e, come ho detto, la scrittura, e si incontrarono Sumeri, Accadi, Assiri, Babilonesi, appunto Caldei, Cassiti, Medi, Achemenidi, Mari, Filistei, Ebrei, Parti, Sasanidi, Fenici, Greci-Macedoni, Romani e tante altre etnie, tra cui quella che fu per secoli dominante, cioè la Persiana. Nelle opere di Amir tutto questo vive e ri-vive. Infatti dall’animismo, all’astrolatria, cioè il culto dei fenomeni celesti, fino al Dio unico, la sua arte riflette nel firmamento, nell’empireo, la nostra vita quotidiana, che spesso risulta curva, oppure a spirale, riproducendo il percorso del punto di levata del sole sull’orizzonte durante le varie stagioni, oppure il come la nostra stella vada a congiungersi, nei mesi dell’anno, con le varie costellazioni. Quindi, oltre all’ovale-uovo, all’albero, al cerchio e alle barche (le antiche “astronavi” che conducevano gli ierofanti iperborei da galassia a galassia, da cielo a cielo) come, per Amir, non attribuire ai corpi luminosi il ruolo di “finestre del mondo” o di occhi di esseri antropomorfi che ci insegnano il come parafrasare, sulla Terra, in una scultura, in un edificio, la conformazione degli allineamenti stellari, quale glorificazione della potenza creatrice primigenia? Al che mi sovviene quello che recitava l’inarrivabile Jalal ad-Din Muhammad Rumi: “Là fuori, oltre a ciò che è giusto e sbagliato, esiste un campo immenso. Ci incontreremo lì. Solo dal cuore puoi toccare il cielo. Perciò diventa cielo. Prendi un’ascia e rompi le pareti della tua prigione. Fuggi. E sappi, non sei una goccia nell’oceano. Sei l’intero oceano in una goccia”.
La stessa tensione verso l’assoluto è vissuta dall’emiliano Michelangelo Galliani, giovane maestro delle emozioni, giovane interprete del senso primario, il quale, combinando abilmente materiali eterogenei, come marmo, acciaio, cera, ardesia, ceramica, piombo, oro, compone splendide figure metamorfiche. Infatti, ispirandosi alla “storia della scultura” e affidandosi al potere della narrazione, la sua ricerca va a permearsi entro il dialogo tra esperienze opposte, tramite un’efficace sintassi espressiva, un’esplorazione delle dicotomie quali uomo-donna, sofferenza-piacere, perdita-recupero, sacro-profano, catarsi-palingenesi. Riguardo il suo dedicarsi alla figura, o all’anatomia umana, di se stesso ha detto: “L’esplorazione del corpo e la sua rappresentazione in marmo risultano, ogni volta, un’esperienza unica e travolgente. E la sfida è crescente nel cercare di rendere sempre più perfetta la scultura che farò domani. Il marmo è magico proprio perché è così lontano dalla carne viva, ma allo stesso tempo così vicino nel restituirci il suo aspetto”. Per Michelangelo Galliani l’esporre un suo lavoro in un luogo pubblico risulta, a mio avviso, una sorta di pretesto, infatti non è la scultura in sé che per lui conta, ma ciò che genera nello spazio che la circonda. Quindi è l’energia emanante che diviene la vera opera, scatenando forze attrattive o separanti, quale pulsazione (e mi vengono alla mente le stelle pulsar) di un gigantesco cuore siderale che dà circolarità sanguigna a un macro-organismo del quale noi uomini siamo fragili parassiti, o, se nel positivo, infimi organismi simbiotici che, ogni giorno, tentano di raccontare il loro limitato destino, sperando che lo sguardo su se stessi oltrepassi la materialità per cogliere l’anima dell’intero, il quale, se raggiunto, diventa territorio aperto mediante cui è possibile addentrarsi in quegli intimi recessi di solito preclusi alla conoscenza. Di tale aspetto inerente la cosiddetta “altra vista” in questo modo parlò il Premio Nobel William Faulkner: “Il traguardo della saggezza è sognare dimensioni così elevate da perdere il sonno per ricercale. Comunque tutti noi abbiamo mancato nel realizzare i nostri desideri di perfezione. Così io giudico gli uomini in base a ogni splendido fallimento nel tentare l’impossibile, non per altro”. Di questo gigantismo votato alla consapevolezza, seppure amara, di risultare quali esseri infine imperfetti e fisicamente limitati, sebbene la volontà di solcare gli spazi infiniti per giungere a una risposta definitiva, si è sempre interessato il fare del modenese Fabrizio Loschi che dalla tradizione ha recuperato la tendenza all’ordine, il desiderio di possenza, l’inarrivabile trionfo della volontà. Infatti mentre scolpisce o disegna pare che a ogni passaggio egli si ripeta mentalmente: “Mira e poi scocca sempre più in alto di quello che tu sai di poter colpire. Infatti non devi gareggiare coi tuoi contemporanei o coi tuoi predecessori, essendo, il tuo unico avversario, te stesso. Quindi cerca di rendere migliore sempre il tuo essere, gareggiando unicamente con la tua essenza creativa, e alza la parabola, superando la paura di poter sbagliare”. Perciò, per lui, arte come sfida nei confronti dell’eternità (in questo caso la scultura come sfida)… arte che diviene rappresentazione di un universo permeato dalle nostre aspirazioni più profonde (quindi antiche come il mondo)… e arte nella continua ricerca delle proprie origini, attraverso una visione orizzontale della storia della stessa, dando forgia a una grammatica molto precisa che permette, al nostro artista, l’immersione in un racconto, intimo e atemporale, dedicato “alla perenne investigazione di liturgie mai arrendevoli all’accadente”, come lui dice. Con tali premesse, il fermare l’uomo in quell’attimo che possa risultare assoluto per consegnarlo alla perpetuità, spezzando ogni catena spazio-temporale, non può che divenire lento transito dall’effettuabile all’ipotetico, dal finito all’infinito, e viceversa, abbandonando ogni possibile rimando rivolto al sociale. Resta che la sfida nei confronti dell’eterno non si traduce nient’altro che nella sfida nei confronti della morte e di quel mistero. L’attesa della stessa, come conferma la nostra abituale esperienza di vita, è ricca di suggestioni non meno dell’evento stesso. Essa apre l’immaginario personale e collettivo verso mondi ideali dove i ricordi ancestrali costruiscono meravigliose tesi, possibilità, teorie. L’attesa della morte è dunque, per Loschi, ma anche per me e per i restanti artisti del gruppo, un periodo carico di somme emozioni, più o meno definite, che non possono non venire tradotte in arte da quel dáimon che, ed è giusto dirlo, nell’animo da sempre ci vive. Quel dáimon che ancora ci regala l’energia per ricordare, e perciò continuare.
*Il testo di Gian Ruggero Manzoni delinea, fonda e racconta la mostra “UR (La profondità dell’enigma)”, che si sarebbe dovuta svolgere al museo Magi 900 di Pieve di Cento. Il Covid ha fermato la mostra, ha dato più fermezza all’idea; in copertina: “Eremita d’attese” di Sergio Monari