Ancora gli anni di piombo, di nuovo gli anni di piombo. Quando chi è stato ragazzo negli anni Settanta parla di tempo perduto e ritrovato ritorna lì, non certo nel salotto dei Guermantes. Se una volta questo veniva fatto per una supposta necessità di analisi politica, adesso chi lo fa affronta quel periodo da un punto di vista molto più intimo, personale. È che insomma gli anni passano per tutto e per tutti. Di recente lo ha fatto Culicchia, e del suo libro ha già parlato Enzo Fontana sulle pagine di Pangea, saldando la lettura del libro alla propria biografia, ed è ben comprensibile.
Culicchia affronta la storia di suo cugino, Walter Alasia, brigatista rosso – un nome diventato famoso più perché la colonna milanese delle BR avrebbe poi deciso di autoinititolarsi a lui, che per azioni effettive. Quando Alasia muore, ventenne, in uno scontro con la polizia, dicembre ’76, non aveva neanche ancora fatto in tempo a entrare in clandestinità. Si tratta di un libro scritto con fatica, sudore e lacrime – e sangue, naturalmente. E quindi è un libro autentico. Alasia è il cugino grande che Culicchia incontra d’estate, nove anni di differenza tra i due – insomma un modello, un oggetto di venerazione, qualcuno che è ancora un po’ giovane e che pure è già adulto. Suona la chitarra, conosce i fumetti, insegna a disegnare, gioca a pallone – il cugino sa tutto. In tono completamente diverso, solo gli Elii sono riusciti a spiegare cosa significhi l’esistenza di ammioccugino, per un ragazzino. Solo che quel che cugino affettuoso e generoso era intanto diventato brigatista all’insaputa di (quasi) tutta la famiglia. Che lo scoprirà solo nel momento della sua morte.
(Bisogna passare sopra il titolo, Il tempo di vivere con te. Ormai è quasi prassi non riuscire a trovare un titolo per libri o film se non prelevandolo da qualche canzone. Negli ultimi anni Venditti, Vasco Rossi e compagnia – cantante – sono stati letteralmente saccheggiati: Ricordati di me, Ti prendo e ti porto via, Domani è un altro giorno, Odio l’estate, Arrivederci amore ciao, eccetera finché basta. La scelta di usare un verso dei Giardini di Marzo è però giustificata dal fatto che era una canzone che il cugino grande suonava alla chitarra e il cuginetto ascoltava – una specie di maddalena proustiana, insomma. Ma tutto questo è comunque interessante: dunque anche i brigatisti cantavano Battisti – e suona pure consonante. Il dubbio se fosse o no cantabile in quanto possibile fascio sarebbe stato materia per la sinistra successiva. All’epoca, evidentemente, se ne fregavano tutti. Giustamente).
Nel libro sono contenute diverse foto, ma non può certo dirsi che si tratti del famoso album di famiglia di cui parlava la Rossanda a proposito delle BR. Qui è qualcosa strappato al privato – le foto somigliano a quelle di milioni di altre famiglie italiane in quegli anni. E questo rende tutto famigliare, per chiunque ricordi più o meno qualcosa di quell’epoca. Culicchia ha un intento preciso, dichiarato: quello di rendere il ritratto vivo, umano, di Alasia – scritto da uno che lo conosceva, gli voleva bene e nulla poteva sapere della sua vita parallela. Nel farlo, però, non riesce a nascondere un sentimento drammatico. Quel che colpisce, infatti – la parte migliore, la meno esibita – è il fatto che sia in fondo un libro sul tradimento. Un’esperienza ricorrente per chi abbia subito lutti in giovane età: si rimprovera al morto di essere stati abbandonati da lui. Perché l’hai fatto, a me non ci hai pensato? Questa cosa durerà poco, arriverà il riflusso, vinceremo perfino i Mondiali, torneremo nella casa dei nonni e io intanto crescerò, verrò a trovarti a Milano. Perché, dunque? Solo perché tu non hai voluto farti prendere vivo, per non tradire gli amici, l’Idea, l’Ideologia, i Compagni, la Causa e vaffanculo? Così facendo, Alasia ha di fatto tradito il cugino, che invece non l’avrebbe mai abbandonato. Ma un ragazzo di vent’anni è pienamente capace di comprendere tutta l’ingiustizia del mondo – molto meno i sentimenti del cuginetto imberbe. E questa è una colpa. Perché i bambini consapevoli, a undici anni, sono già in grado, a loro volta, di provare perfettamente tutti i sentimenti del mondo.
(Chissà invece cosa avrebbero fatto i compagni di Alasia, se fosse rimasto vivo, viene da dire, pensando a ciò che sarebbe poi accaduto con le leggi su dissociazione e pentitismo – quando, insomma, la lotta armata ha cominciato a essere smantellata davvero, perché la gente si è messa a cantare. Chi perché autenticamente convinto di aver perso e chi per avere qualche vantaggio processuale, come capita sempre).
Non è chiaro se Culicchia viva inconsapevolmente tutto questo, che pur si respira in tutto il libro, oppure se abbia scelto di lasciare emergere il tradimento di fatto, senza indugiarci sopra tanto – che poi è uno dei meriti del testo. Quel che è certo è che vengono capottate le grandi convinzioni dell’epoca, gli slogan più vieti: non è vero che il privato è politico, è anzi l’esatto contrario. Il politico è privato – il politico entra nelle case, squassa le famiglie, uccide la gente. Non capovolge la Società, però in compenso devasta i bambini. Compio adesso un atto arbitrario e metto a confronto questo libro con Il sacrificio dei pedoni, di Gian Ruggero Manzoni. Sugli anni di piombo sono stati scritti i classici fiumi di inchiostro, ma questa comparazione è dettata da più motivi. Intanto, sono libri scritti a freddo – quello di Manzoni è uscito per Castelvecchi nel 2019. E poi c’è una convergenza di tempi: Alasia viene ucciso del dicembre del ’76; Manzoni, che all’epoca apparteneva a un gruppuscolo anarco-comunista, si concentra sui mesi di febbraio e marzo del ’77, fino al momento del suo arresto, che segnerà la sua nuova – e piuttosto rocambolesca – vita.
Entrambi i libri provano talvolta a inquadrare le cose all’interno di un mondo che cambiava, e che però doveva essere cambiato in modo diverso e radicale; entrambi non riescono a nascondere il fatto che, in realtà, si stanno leccando ferite ancora vive. Culicchia guarda le cose da due vertici del triangolo industriale, Torino e Milano (Sesto San Giovanni, per la verità), dove a un certo le Brigate Rosse in fabbrica sono ben radicate davvero. Manzoni parla della Bologna del Movimento, ed è un mondo completamente diverso. Sì, certo: le Brigate Rosse erano oggetto di mito anche lungo i portici bolognesi, ma qui in realtà la lotta si consuma in un mondo di ragazzi che vanno o che più o meno sfiorano l’università. Qui di operai non ce ne sono – gli operai sono qualcosa di cui si scrive, ma che si conosce molto poco. Al confronto con la colata grigio-industria di Torino e Milano, a Bologna sembra tutto molto più colorato. Di sguincio ci sono gli Hare Krishna, gli Indiani Metropolitani, le prime tavole di Andrea Pazienza, i primi esperimenti di Mazzacurati, Tondelli che veglia con un certo distacco di saggio, un fiume di pastiglie ed eroina, i rossi e neri che si occhieggiano e si menano con rispetto per via di un nemico comune a entrambi, cioè l’Italia del compromesso storico. Il dramma non per questo è minore, si muore anche qui, anche qui giovani, anche qui per scontri con la polizia.
In Manzoni si capisce bene tutto quel che sostanzialmente non teneva, all’epoca: da una parte la lotta armata che voleva essere avanguardia rivoluzionaria, nel nome dei principi della Resistenza che si ritenevano traditi. Dall’altra, però, i comunisti che avevano visto i nazisti a Bologna e che trattano quei ragazzi né più né meno come teppisti qualunque. Decisamente bello, in questo senso, l’incontro con una vecchia signora in un giorno di scontri. La donna, forte di quel che aveva personalmente visto, li guarda e li considera con uno sprezzo degno della Regina Elisabetta. Insomma, la solita storia di chi fa qualcosa per qualcuno che, semplicemente, non vuole quell’aiuto. Le buone intenzioni che lastricano l’inferno. I due libri, fianco a fianco, sono un continuo rincorrersi di temi identici e dissonanze. Alasia muore perché, quando la polizia fa irruzione in casa sua, prende l’arma e uccide, per poi essere ucciso; Manzoni invece sopravvive perché, quando la polizia lo ferma, non estrae l’arma che ha addosso e viene arrestato. Questione di attimi, insomma. La madre di Alasia condivide la scelta del figlio, arrivando perfino a conoscere Curcio; il padre di Manzoni (ex partigiano, ex azionista), dapprima guarda benevolo, poi si rende conto in fretta che il finale sarebbe stato scontato, scritto male, senza colpi di scena. E di certo non è stato l’unico a capire per tempo. La sensazione è infatti che quei ragazzi – perché spesso erano veramente soltanto dei ragazzini – stessero all’opposto del Processo di Kafka. Dentro di loro, chi più chi meno, sapevano fin dall’inizio come sarebbe andata a finire e, soprattutto, sapevano perché sarebbe andata a finire male.
In ogni caso, questi testi rendono benissimo come tutto fosse polarizzato in poche, grandi città. E come queste città, in realtà, viaggiassero ognuna più o meno per conto proprio. Ma la maggior parte dell’Italia viveva e lavorava al di fuori delle metropoli – perché l’Italia, numericamente, è provincia. Certamente in provincia si sentiva l’eco di quel casino, e magari qualcuno si è mosso per raggiungerlo. È quel che è accaduto a Manzoni, ad esempio. Ma i grandi numeri erano fuori. L’avanguardia faceva rumore, magari paura, ma dietro non aveva quasi niente. E un’avanguardia senza seguito non è un’avanguardia, è solo un gruppo isolato e solitario, a sé stante. Il politico non spiega – e certemente non giustifica – tutto l’essere umano. Questa era un’illusione per marxisti scadenti. All’epoca, se ne trovavano in quantità. La politica è necessaria, ma è una strada che conduce – necessariamente – alla delusione. Si esce da queste due letture con la sensazione di essersi imbattuti in due grandi Canti dello Spreco. Di energie, vite, possibilità. Negli anni a seguire l’Italia intanto sarebbe andata come è andata, le Grandi Idee Politiche pure – anche molte di loro sarebbero andate a morire.
Questi libri non hanno la pretesa di chiudere i conti col passato, come a volte qualcuno dice. Per fortuna, perché queste sono frasi da tromboni. E comunque si tratta sempre di conti impossibili da chiudere, riguardano troppa gente. Lasciano però aperta la domanda: cosa resta, alla fine, di quei ragazzi? Non servono le canzonette, nemmeno le più struggenti, magari Charles Trenet: Que rèste-t-il de nos amours? / Que rèste-t-il de ces beaux jours? / Une photo, vieille photo/ De ma jeunesse. Perché il racconto di quegli anni non è mai una foto che vivifica lo struggimento per la gioventù perduta. Perdere la giovinezza, di per sé, sarebbe un’esperienza piuttosto comune. È che gli anni di quei ragazzi ci vengono sempre restituiti senza alcuna dolcezza. Dolore, dubbio, tragedia, magari rimorso – ma nessuna pacificata dolcezza. Una pesantezza di piombo che era e rimane insostenibile, piuttosto.