C’è del marcio al Nazareno, e in realtà, dopo quello che si è visto negli anni, sorprenderebbe il contrario. Oggi, all’indomani dell’avvio della fase 3, dopo una sofferta fase uno e una speranzosa fase due, inizia il processo di ripresa del Paese, tra le profonde ferite lasciate dalla pandemia e le cicatrici che da decenni deturpano la geografia economica e sociale dell’Italia.
All’esecutivo in carica, coadiuvato dalle innumerevoli task force ed esperti convocati negli ultimi mesi, spetta l’arduo compito della ricostruzione, che dovrebbe avere la portata di un profondo restyling, ma che spesso si tramuta in un superficiale maquillage, con il solito triste, trito copione di alzare una balza del tappeto e spazzarci sotto la polvere delle macerie. Ad onor del vero, abbiamo avuto un primo roboante assaggio del compito che spetta ai governanti, di riprendere le redini di uno Stato alla deriva. La ricostruzione del ponte di Genova, avvenuta in tempi a dir poco fulminei per la macchina burocratica italiana, farebbe ben sperare sulle buone intenzioni del governo.
Eppure, nella seconda stampella della maggioranza, c’è chi ordisce trame amletiche per scalzare il Presidente Conte e ritagliarsi uno spazio di potere più consono alle proprie ambizioni. Da circa un mese si susseguono insistenti voci di corridoio, gole profonde ben informate che danno alla porta l’esecutivo in carica, in un disegno più grande di un semplice rimpasto, con nuovi capitani (per quanto ormai l’apposizione abbia assunto caratteri propagandistici) pronti a prendere il timone della nave in tempesta. Il toto-nomi che si sussegue da mesi, e che ha apparentemente bruciato la candidatura a Palazzo Chigi di Mario Draghi, oggi ha un nuovo cavallo vincente. Dario Franceschini, da tempo ancorato nel porto sicuro del Mibact, secondo i bene informati starebbe scalpitando per contendere la leadership di partito ad un, evidentemente, ectoplasmatico Nicola Zingaretti.
L’attuale segretario del PD, infatti, ha collezionato una serie di brutte figure, oltre che di incredibili scivoloni politici, che ne hanno molto eclissato la figura negli ultimi tempi. Non è mai stato un campione di carisma, s’intende, ma l’aperitivo pre-Covid, gli scandali mascherine alla Regione Lazio, e non ultimo il tentato colpo di mano del Papeete, miseramente fallito proprio perché sia Renzi (uscente) che Franceschini, hanno costruito dietro le quinte il Conte-bis.
In particolare, Franceschini ha avuto un ruolo di primissimo piano nella costruzione del governo giallorosso, andando ad avvicinare la corrente del Movimento che fa capo a Roberto Fico, dissuadendo il resto della delegazione pentastellata dal seguire la strada di un gialloverde-2 con un ridimensionamento di Salvini. Questo colpo di scena gli è valso il ritorno al Collegio Romano, dove era di casa già dal 2014, riaccorpando i dicasteri dei beni culturali e del turismo, dopo la breve separazione del Conte-1. Negli stessi corridoi di cui sopra si riconosce la sua grande influenza dalle parti del Nazareno, lo definiscono il capo occulto del partito che da anni tira le fila dello Stato profondo.
In realtà le ambizioni di Franceschini sarebbero ben altre. Nel 2022, infatti, sarebbe ben contento di trasferirsi al “Colle”, ma al momento l’orizzonte temporale sembra molto lontano. Dunque, la collocazione come capo dell’esecutivo potrebbe anche risultargli particolarmente congeniale, visti anche i suoi crescenti malumori verso la figura di Conte. L’attuale Presidente del Consiglio, infatti, secondo Franceschini sarebbe “troppo prolisso e decide troppo poco”. Il Ministro dei Beni Culturali parrebbe non aver digerito le posizioni del presidente sul dossier Covid, spalleggiando la causa di Sabino Cassese, che ha lanciato continue invettive contro l’atteggiamento presidenzialista del Premier. Conferenze stampa in tv, i famigerati DPCM, persino la scelta del vocabolo “congiunti”, hanno sollevato le aspre critiche di un purista della Costituzione (a dir la verità, non tutte posizioni errate, dal punto di vista di un giudice emerito della Corte costituzionale), e che oggi ledono la posizione di Conte anche presso le stanze del Quirinale.
Il Presidente di questo esecutivo, dunque, dopo essersi dovuto sobbarcare l’enorme peso di gestire una crisi senza precedenti, ad oggi non avrebbe più molti alleati su cui contare. Ad eccezione di un sempre rumoroso ed influente Travaglio (di nome e di fatto), continua a godere del claudicante appoggio del fu segretario Zingaretti, che in virtù della flebile speranza di continuare a mantenere la sua posizione di leadership del PD (palesemente messa in discussione, più volte, dai fatti), continua ad esternare un pieno appoggio a Conte. Zingaretti deve fare i conti con il malcontento di un partito di lungo corso, nato come un’accozzaglia di correnti, e che mantiene una grande frammentazione interna per sua natura. Ad oggi, il PD è un partito cristallizzato: saldo su quel 22% che continua a votare PD a prescindere. Lo spettro di una destra che continua a oscillare tra le leadership di Salvini e Meloni, con un cospicuo bacino di voti moderati che ballano pericolosamente tra un terminale FI, un Renzi che attende all’uscio e un Calenda a tutto campo, Zingaretti non riesce a fare la quadra dell’elettorato.
C’è chi sostiene che non sia il momento di tirare in ballo le nuove elezioni, ed in effetti il momento non pare affatto propizio per tornare alle urne, fosse solo per il problema di un distanziamento fisico che ora più che mai renderebbe pericoloso l’allestimento delle sezioni di voto. C’è da dire, tuttavia, che le prossime settimane saranno cruciali per scrivere il destino di questo governo. L’Italia ha urgente necessità di linfa economica, e le promesse di finanziamento del Recovery Fund, così come la consistenza di sussidi e prestiti che sono nel programma, devono essere mantenute. C’è una bomba sociale ed economica che sta per esplodere, i dati di aprile sull’occupazione sono nefasti, e registrano altri 274mila disoccupati. Conte, nella conferenza stampa del 3 giugno ha annunciato un massivo piano di rinascita (traduzione lievemente ambigua per i cultori della storia recente di questo Paese), occasione imperdibile per promuovere tutta quella serie di riforme di cui questo Paese ha disperato bisogno da decenni: infrastrutture, digitalizzazione, riforma fiscale, e chi più ne ha più ne metta. Anche il Ponte sullo Stretto ha fatto il suo trionfale ritorno nei discorsi politici.
La politica, dunque, neanche in tempi bui come questi, in cui neanche il gravoso impegno di dover operare (per una volta) senza il favore delle tenebre, in condizioni critiche per tutti, sembri risparmiare il consueto rotolamento delle teste da mozzare. C’è uno Stato che deve conservare la propria quintessenza, le proprie sicurezze, anche in tempi ardui in cui le certezze vacillano. Il nuovo corso può esserci a condizione che a farlo siano i vecchi nuovi volti di sempre. Finita l’emergenza, ci metteremo alle spalle tutto, e ricominceremo con le solite solfe.