Confessione

Ernesto Galli Della Loggia

"I giornali sono uguali tra di loro, troppo spesso noiosi e prevedibili. Non è possibile, ad esempio, che diano così tanto spazio, nelle prime sei o sette pagine, alla politica, solo per il gusto, magari, di fare un favore ad un politico e farselo amico".
Ernesto Galli Della Loggia
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Il professor Ernesto Galli della Loggia è, da molti anni, una voce autorevole e indiscussa non solo del mondo accademico, ma, anche, del giornalismo. A tutti sarà capitato di imbattersi, leggendo il Corriere della Sera, nei suoi editoriali, spesso taglienti e poco accondiscendenti.  E se la linea editoriale – sfumata e fumosa – che si detta in via Solferino cambia repentinamente, a seconda del momento politico, gli scritti “del cerchiobottista” Galli della Loggia, pur non essendo incendiari, spezzano la monotonia, movimentano il dibattito italiano e stuzzicano la riflessione, soprattutto quando non si è d’accordo con il suo pensiero. Raggiungo il professore in un elegante quartiere romano. Nella quiete del suo studio, solo i libri – migliaia sparsi in ogni anfratto – sembra che parlino e, vista la mole, incutano timore. Smessi i panni dell’accademico pensoso, ha il viso rilassato, a tratti sorridente, affabile e generoso nel concedersi. Pur essendo nato nella Roma dove tutto si compra e tutto ha un prezzo, per citare Sallustio, le sue origini sono meridionali.  A parte le mani, che muove in continuazione, come a voler disegnare qualcosa di astratto nell’aria, di levantino il professor Galli Della Loggia non ha nulla. I suoi caratteri sembrano del nord. Da professore universitario, mi sarei aspettato qualche critica, lucida e profonda, sul mondo accademico e sulle sue logiche. Eppure utilizza parole secche, disdegna i barocchismi, ama arrivare al nocciolo della questione in maniera istantanea. Nelle quasi due ore di chiacchierata, scaviamo nei ricordi, nelle esperienze fallimentari e, perché no, anche in qualche pentimento.

Professor Della Loggia, ha ancora senso, oggi, parlare, parafrasando Bobbio, di Destra e Sinistra in Italia?

È una distinzione che fa comodo ed  è utile nel dibattito politico. Quali siano, poi, le vere diversità, è tutt’altro discorso. Il punto più importante mi sembra un altro, e cioè che oggi né la Sinistra né la Destra, in Italia, riescono a mettere in  pratica programmi di sinistra o di destra che siano. Non da ultimo anche per l’insipienza dei loro rappresentanti, a cui non affideresti neanche le chiavi di un condominio. A livello comunque di orientamento culturale, di gusti, la distinzione  forse ha ancora un senso.

Tralasciando per una volta, gli errori dei nostri politici, non pensa che il vero dramma sia dettato dalla aurea mediocritas del corpo docente?

L’aurea mediocritas del corpo docente c’entra, eccome, con i nostri infimi politici! È colpa infatti di chi da diretto politicamente la scuola se il corpo degli insegnanti è quello che è. I concorsi li fa la politica. Le commissioni, i criteri di accesso, li decide la politica. È sempre colpa della politica. Se gli insegnanti sono mediocri, è perché sono pagati poco. La politica ha deciso quanto pagarli, e di conseguenza, ha fatto diventare una bellissima professione poco attrattiva per i migliori.

Come nasce la sua passione per la storia? Quali sono stati i suoi maestri, o storici, negli anni della sua formazione?

Sono arrivato all’età della ragione tra i 18 e 20 anni, anni in cui nell’Italia in cui sono cresciuto c’era un grande fervore politico. Io ne ho molto risentito, positivamente spero, perché la politica intesa seriamente e vorrei dire moralmente  ha molto a che fare con la storia. E poi, fondamentali sono stati i miei incontri universitari, in uno dei quali incontrai Giampaolo Nitti, persona di grandi qualità intellettuali e morali. Questa occasione d’incontro e scambio, ha rafforzato la mia passione per la storia.

Professor Galli della Loggia, a che punto è la notte della nostra povera disastrata democrazia?

Notte mi sembra una parola esagerata. Direi che è un pomeriggio nuvoloso; che, però, non è solo della nostra democrazia. Basta vedere quello che succede in altri Stati occidentali. In Italia c’è un problema particolare legato al fatto che noi abbiamo una pessima organizzazione del governo. La Costituzione ci ha dato ad esempio un bicameralismo assoluto e una debolezza, quasi un’inconsistenza, della figura del premier che è una specificità, ahimè, tutta italiana. Tra i grandi Paesi d’Europa solo in Italia il presidente del Consiglio, almeno stando alla lettera della Costituzione, conta così poco che non può neppure licenziare un ministro.

Gaetano Mosca, negli Elementi di Scienza Politica, così scriveva: I”n tutte le società, a cominciare da quelle più mediocremente sviluppate, fino alle più colte e più forti, esistono due classi di persone, quella dei governanti e l’altra dei governati. La prima, che è sempre la meno numerosa, adempie a tutte le funzioni politiche, monopolizza il potere e gode i vantaggi che ad esso sono uniti; mentre la seconda, più numerosa, è diretta e regolata dalla prima in modo più o meno legale, ovvero più o meno arbitrario e violento, e ad essa fornisce, almeno apparentemente, i mezzi materiali di sussistenza…”. La crisi dei partiti italiani non pensa coincida, contestualmente, con la crisi delle élite?

Sì, condivido, ma questo non accade soltanto in Italia. La crisi delle élite riguarda l’Europa e anche gli Stati Uniti, Essa è  legata al problema generale della rappresentanza e a quello della  formazione: al fatto che nei sistemi educativi europei è stata progressivamente espulsa la cultura umanistica, e quindi sono arrivati al potere dell’élite formatesi con un retaggio umanistico sempre più debole. La metto giù dura: per governare serve una serie di competenze, di capacità che  possiede soltanto chi sa di storia, di letteratura, di diritto. Non mi pare che ci sia mai stato un famoso uomo politico laureato in ingegneria o in chimica. Un ingegnere non è capace, un tecnico non può comandare. Soltanto la cultura umanistica fornisce la capacità di cogliere una tendenza generale, quella  capacità di visione e d’interpretazione dei movimenti storici e della cronaca che servono a governare. 

Non pensa che la prima, vera crisi dell’élite italiana vada collocata alla debolezza del sistema liberale di inizio Novecento, quella debolezza che, poi, ha consentito l’avvento del regime fascista?

Io penso che questa sia un’interpretazione storiografica consolidatissima ma falsa. Penso che il regime fascista non sia stato per niente “l’autobiografia della nazione” e in particolare l’esito necessario della debolezza dell’élite liberale. Credo che il fascismo sia stato molto legato ad una fortissima crisi specifica di quel triennio successivo alla guerra che per varie ragioni specifiche, e non storiche, hanno coinvolto le classi politiche liberali, ma, anche, socialiste e cattoliche. Ricordiamolo. Non si è trattato  solo della sconfitta dei liberali. Il fascismo è stato anche la catastrofe dei socialisti che, dopo aver fatto un rumore d’inferno reclamando “rivoluzione, rivoluzione”, si sono poi squagliati come neve al sole. Il fascismo non è un destino fatale insito nel Dna del nostro Paese. Semmai il fascismo è stato “autobiografia della nazione” in una altro senso, diverso da quello  che credeva Gobetti. Il fascismo ha messo in luce alcuni pessimi caratteri antropologici degli italiani. La vanità del potere, la mancanza di senso civico, l’anarchia, la doppia verità.

-Come giudica, con la giusta distanza storica, la classe politica fascista? Che spessore gli attribuisce?

La classe politica fascista si sovrappose ai quadri dell’amministrazione pubblica dell’epoca liberale precedente che mediamente era composta  dei buoni funzionari, i quali non avevano una particolare inclinazione fascista, tutt’altro. E il fascismo, durante il suo ventennio, se ne servì abbondantemente. Quanto alla classe politica propriamente fascista, mi riferisco ai massimi dirigenti quella di vertice, mi riferisco ai dirigenti, beh, il vertice era sicuramente rappresentato da uomini di buon livello, basti pensare a Balbo, a Grandi, a Bottai. Moltissimi di quali tra l’altro venivano dal repubblicanesimo, dal sindacalismo, dal nazionalismo. Al livello inferiore.  invece, i segretari di federazione, i gerarchi, era roba perlopiù raccogliticcia, di scarsissimo valore intellettuale e morale. Per giudicare il vertice fascista  non bisogna mai dimenticare che il fascismo cadde innanzi tutto per decisione dell’élite fascista alla riunione del  Gran Consiglio ill 25 luglio 1943.

-Perché, secondo lei, il lavoro, monumentale, di Renzo De Felice, è stato sovente criticato dai circoli culturali vicini alla Sinistra?

Penso che oggi, per fortuna, il lavoro storico fatto da De Felice sia stato abbondantemente rivalutato. Quei libri sono stati scritti negli anni Sessanta, nel pieno del furore ideologico più estremo di cui l’Italia è stata vittima. Se lei pensa che ancora oggi, il fascismo è la cosa più divisiva del discorso pubblico italiano… Si può ben capire, quindi, il furore che quei libri suscitarono. Oggi, però, nessuna persona sensata avrebbe il coraggio di mettere in discussione la qualità e l’importanza dei libri scritti da De Felice, il quale aveva introdotto, attraverso un prezioso e vastissimo scavo archivistico, elementi nuovi completamente cancellati dalla storiografia ufficiale. Non dimentichiamo che De Felice era un antifascista, ma, da storico, sapeva scindere i propri convincimenti dallo studio e dall’analisi dei fatti.

Come nacque Pagina, che diresse, e che vantava nomi come Mieli, Mughini, Fini? Perché finì quell’esperienza?

Com’è nata? Una persona che è morta proprio pochi giorni fa, un industriale illuminato, Franco Morganti, ebbe l’idea di finanziare, raccogliendo un po’ di soldi con i suoi amici, un giornale,  un mensile. Chiese a me di dirigerlo, che all’epoca, e siamo negli anni Ottanta, avevo da poco iniziato a collaborare con La Stampa. E io mi rivolsi ad alcuni  amici, quelli che lei ha citato. La rivista durò poco perché non avevamo molti quattrini a disposizione. Avemmo tanti attestati di stima, ma nelle vendite fu un disastro assoluto, anche perché non riuscivamo ad arrivare,  ad un pubblico di qualche consistenza dati i limiti della nostra distribuzione.

-Fu quasi una sconfitta in partenza?

Beh, sì, con il senso del poi, possiamo dire che fu quasi una sconfitta in partenza, anche se alcuni di noi, ma non io, lo sapevano già. Paolo, Giampiero, che erano del mestiere, sapevano che era un’impresa disperata.

-Ha ancora senso, in un Paese come l’Italia, fondare una rivista, in grado di far circolare idee, pensieri, riflessioni, oggi più che mai indispensabili per contribuire alla formazione?

Certo che ha senso, sarebbe utilissimo, anche se molto difficile. A parte Micromega, che ha una storia quarantennale e un gruppo editoriale alle spalle molto forte e solido, di riviste cartacee di qualche peso, in grado davvero di suscitare dibattito, non ne abbiamo più, purtroppo. Penso che il cartaceo, in termini di prestigio, di peso politico-culturale, abbia un’influenza che il digitale non riesce a garantire. Solo la carta, secondo me, è in grado di garantire la circolazione delle idee.

-La crisi dei quotidiani, secondo lei, da dove nasce? Siamo proprio sicuri che l’inesorabile declino affondi le origini nell’avvento dell’era digitale?

Certamente è  diventato molto  difficile fare un giornale. L’esplosione del digitale, la televisione rendono sicuramente più complicato il quadro; proprio per questo però dovrebbe obbligare chi li fa ad avere un po’ più d’inventiva, a farsi venire delle idee nuove. I giornali sono uguali tra di loro, troppo spesso noiosi è prevedibili. Non è possibile, ad esempio, che i giornali diano così tanto spazio, nelle prime 6-7 pagine, alla politica, solo per il gusto, magari, di fare un favore ad un politico e farselo amico. Dovrebbero occuparsi di altro; sono stato nel Mezzogiorno qualche giorno fa, e ho scoperto quanto fervore, quante idee, anche quante storie ci siano in quella parte d’Italia. Ma sui giornali è difficile che qualcuno si prenda la briga ad esempio di partire e raccontare quello che succede lì.

-Come nascono i suoi editoriali? Da un suo rapporto diretto con i vertici del giornale o da una sua idea di partenza?

Nascono, in genere, da una mia ispirazione, da una mia riflessione che propongo al giornale.

Le è mai stato censurato un articolo sul Corriere?

Una volta, sì, mi è capitato di essere stato censurato, ma non le dico quando né come.

“Dare un colpo a destra e uno a sinistra – ha detto Paolo Mieli – non è opportunismo, è il giusto modo di criticare chi pensiamo in quel momento abbia sbagliato”. Condivide l’opinione di Mieli o pensa, come tanti altri, che il cerchiobottismo sia stato uno dei principali mali del giornalismo italiano?

Il cerchiobottismo è un’espressione davvero indovinata: lo dico aggiungendo subito dopo che è un dovere essere cerchiobottisti, così come è un dovere cambiare idea. Se uno pensa che si debbano criticare entrambi le parti, che fa? C’è poco da fare: o evita di criticarne una, cioè si autocensura oppure dà un colpo di là e uno colpo di qua.

-Le sarebbe piaciuto lavorare alla Repubblica di Scalfari?

Io ho avuto, sul finire degli anni ottanta, un contatto con Eugenio. E per due mesi sono stato reclutato dal Fondatore. Avevo delle riserve, ma lui insistette. Dopo due mesi, vidi che non era aria. C’era allora un clima nel giornale che non mi convinceva. Il primo articolo con cui esordii, era un articolo di critica a Bobbio che su Repubblica era una sorta di papa.

-Lo fece apposta?

In un certo senso sì, scrissi quell’articolo per sondare il terreno e saggiare lo spazio che potevo avere. Eugenio lo pubblicò dopo dieci giorni, e lì capii che le mie perplessità erano più che fondate, e lasciai perdere.

Quali sono stati gli errori più grandi che ha commesso nel valutare la società italiana e i suoi tanti personaggi che, nel tempo, l’hanno affollata?

Ho condiviso il giudizio demenziale, come tutta la sinistra, sul malgoverno della Democrazia Cristiana. Che c’era, ma non solo era di una misura ridicola rispetto a quanto si è visto dopo ma soprattutto non poteva certo esaurire il giudizio sul ruolo della Dc. Quello sì è stato un gigantesco errore. La Democrazia Cristiana infatti è stata un’espressione politica di forte qualità, che ha fatto fare passi in avanti giganteschi al Paese. Anche la classe politica cattolica è stata nel complesso di primissimo ordine; avercela oggi! Avercene oggi, di un Fanfani, un Gonnella! Un altro errore che mi posso imputare è quello, forse, di essere stato troppo duro nei giudizi, con Craxi, nonostante poi io, sia passato, ironia della sorte, per un craxiano. Più passa il tempo, più mi convinco che Craxi è stato la grande occasione che ha avuto la Repubblica di cambiare, di mettersi su una strada diversa. Basti pensare alla riforma della Costituzione. La seconda parte della Costituzione è una vera palla al piede.

Da studioso, si sente più saturnino o mercuriale?

Assolutamente saturnino. Sono schivo. Non amo la vita mondana  per temperamento. Amo vedere poche persone, vere, e con loro parlare liberamente di tutto.

Negli anni, per professione, ha conosciuto migliaia di ragazzi. Cosa ha dato e ricevuto dalle nuove generazioni?

Dai ragazzi si riceve la vita, la vitalità, le idee nuove, le mode, anche se vuole le coglionate che i giovani fanno. In complesso penso di essere stato un buon insegnante, di aver lasciato qualcosa ai miei allievi, e ho qualche indizio che le cose siano così.

Roma, Novembre 2023. XII Martedì di Dissipatio.

Le è mai capitato di entrare in aula senza stimoli?

Beh, sì. Fare per anni e anni il professore è faticoso, e, quindi, sì, mi è capitato di entrare in aula e non avere voglia di mettermi a parlare, a spiegare. Però, mi è capitato molte più volte di avere voglia di lasciare qualcosa d’importante ai ragazzi, di comunicare loro  qualcosa che potesse essere utile. A me è piaciuto insegnare, e credo di essere stato anche un buon insegnante.

-La libertà si può insegnare, secondo lei?

Sì. La libertà di pensiero, in qualche misura, si può insegnare, dando l’esempio. Si può spiegare cosa significa. Ma il terreno deve essere fertile.

-Facendo i conti con la sua, di storia, pensa di aver tradito qualcosa o qualcuno?

Mi illudo di no. Bisogna sentire gli altri, però. È difficile essere giudici di sé stesso.

Nel suo libro Credere, Tradire, Vivere, ha parlato di risentimenti. Quali sono i suoi risentimenti?

A volte mi sono sentito oggetto di critiche ingiuste e quindi ho nutrito un sano risentimento, ma credo sia durato poco. Non ho mai coltivato risentimenti lunghi.

-È credente?

Non posso dirlo. Mi definirei una persona che vorrebbe molto esserlo

-Le sarebbe piaciuto scrivere per un giornale cattolico?

È capitato, diversi anni fa, sulle pagine dell’Avvenire, quando c’era Roberto Righetto alle pagine culturali. Spesso m’invitava a scrivere, e io accettavo, anche perché non avevo nessuna riserva ideologica e religiosa, anzi.

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