Tra le tante attrici che affollano il cinema italiano, speranzose magari di trovare un posto nel vanitoso e caduco paradiso del grande schermo, ho sempre nutrito una curiosità nei confronti di Sonia Bergamasco, un’anti-diva. A differenza di tante altre incursioni nella vita altrui, la nostra Confessione non è avvenuta in salotto, anzi. In una fredda mattina (era ora!), questo faccia-a faccia fatto di puro istinto, privo di fronzoli e filtri, è avvenuto dalle parti di Piazza Cavour; per difenderci da una tramontana affilata come una lama, ci siamo rifugiati in una brasserie rumorosa ma, allo stesso tempo, discreta e per nulla desiderosa di romperci le scatole con flash, selfie o carinerie non richieste. Due ore insieme: abbiamo riso tanto, e senza nessun tipo di imbarazzo. Ma, dietro quel suo riso vero, spontaneo, e i tratti e le movenze delicate, osservandola, mi ha fatto venire in mente la metafora – uomo-pesca – usata dal grande Walter Tobagi a proposito di Luciano Lama. Ecco, la sciura Sonia è morbida fuori ma, una volta spazzata via la morbida buccia, inaspettatamente dura, proprio come il nocciolo di una pesca.
Questa lombarda trapiantata a Roma per lavoro è poco incline all’embrassons-nous. Al volemose bene romano, alla ruffianeria. Come un gatto, è guardinga, cerca di essere inafferrabile, si apre, ma non si dona, ti scruta con i suoi occhi di ghiaccio, ti gira intorno, ma, alla fine, prova a dire solo quello che le va. E, senza troppe perifrasi, non ha remore a mandarti a quel paese. A differenza di tante attrici, sempre smaniose di dire, apparire, piangersi addosso, spogliarsi, raccontare aneddoti magari fasulli al solo fine di catturare l’attenzione dell’intervistatore o del fan, questa fatina dura e dalla pelle lattea ha optato, invece, per la sottrazione, per il rimescolio delle carte. Abile a manovrare le parole, e a usarle per un depistarmi, Sonia, sia chiaro, non ha barato, come spesso capita ai giocatori di poker o, più semplicemente, agli amanti dell’inganno e della menzogna. Ha provato a raccontare, piuttosto, la sua vita di attrice, i suoi più lontani ricordi, gli incontri fondamentali con i due mammasantissima del teatro italiano – Giorgio Strehler e Carmelo Bene – stando sempre attenta, però, a non infilarsi nella galleria, magari scivolosa, della sua vita privata.
Perché sì, la sua vita privata Sonia Bergamasco la protegge come fosse un fortino ricco di tesori preziosi e delicati e troppo importanti per essere svelati alla massa. Ma, incassando, pazientando, tergiversando, e dandole il tempo di “dimenticare” qualche mia domanda più insolente, alla fine, penso, sono riuscito a scavare e a tirar fuori qualcosa che i lettori non sapessero o che non avessero già letto su qualche rivista patinata o accondiscendente: si sa, le gazzette sono sempre un po’ adoranti dinanzi alle star…
Sonia Bergamasco, sei milanese di nascita, profondamente lombarda. Viso chiaro, occhi azzurri, tratti algidi. Sei nata e cresciuta così?
Adesso mi spieghi perché, secondo te, ho tratti algidi…!
Partiamo subito con le polemiche, Sonia. Andiamo a nozze, allora. Quello che posso dirti è che, osservandoti, è quello che mi hai trasmesso…
Trasmetto freddezza?
A primo acchito, non scorgo chissà quale calore…
Davvero? Penso sia un po’ un cliché, il tuo. Sicuramente l’occhio azzurro, nell’immaginario collettivo, è associato a un certo tipo di fisicità. Ti dico, guardiamo oltre la superficie, e poi vediamo se sono veramente algida come tu dici.
Scusa, Sonia, non pensi, invece, che i cliché, proprio perché tali, nascondano, sotto il tappeto, un fondo di verità?
No, non penso proprio sia così, semplicemente perché le persone che ci stanno intorno, fosse anche solo per pigrizia, amano incasellarti o dipingerti in un certo modo, come più gli conviene.
Eri un soldatino da ragazza? Di ribelle sembra che tu abbia poco…
Non sono d’accordo.
Spiegami, allora. Prova a smentirmi… Sono qui apposta.
L’essere ribelle non penso sia un valore al merito, e non mi importa neanche dimostrarlo. Nella vita ho sempre lottato per avere qualcosa. A diciotto anni, avevo già una certa indipendenza, per necessità e desiderio. E, questo, amo gli spazi di libertà che mi sono conquistata.
Perché, a dieci anni, decidi di suonare il pianoforte? Ti costrinsero i tuoi genitori?
A quell’età non potevo decidere autonomamente, e costringere trovo sia una parola un po’ forte. Sicuramente, e non poteva essere diversamente, mi indirizzarono loro. I primi anni furono durissimi anche perché ero una bambina abituata a stare e a divertirsi per strada. Oggi, però, solo loro grata, perché la musica è diventata poi la mia lingua, quella che mi ha messo in ascolto non solo nel mio lavoro ma, anche, nella vita di tutti i giorni.
Cosa hai imparato dalla musica?
La sensualità del suono e il rigore, due cose in forte contrasto, agli antipodi, direi.
Quali musicisti hanno segnato un po’ la tua vita?
Ho ascoltato moltissimo il jazz – Billie Evans – Bach, sempre, e il rock.
Tuo padre, se non sbaglio, muore a 48 anni…
Sì, morì improvvisamente, a causa di un ictus, e fu uno shock per tutti noi…
La sua morte segna uno spartiacque importante nella tua vita: la ricerca dell’indipendenza. Cosa hai fatto per procurartela?
Ho avuto una borsa di studio per fare una scuola di teatro; questo mi ha permesso di studiare senza dover pensare alle esigenze dettate dalla quotidianità. Finiti gli studi, ho iniziato subito a lavorare: sono stata molto fortunata.
Vivevi ai Navigli in un buco di casa, cosa hai detto più volte. Soffrivi gli spazi angusti e, magari, gelidi?
Non soffrivo per niente, anzi. La casa era piccolissima, ma io ci stavo bene. Ho vissuto l’indipendenza sempre come un valore e mi sono sempre sentita una sfidante. Detesto fare la vittima e chi pratica, perennemente, il vittimismo. Non è utile a loro stessi e alla società.
Perché ti sei buttata nel teatro? Eppure non avevi mica il sacro furore della recitazione…
No, è stato casuale, o forse no, chissà. Sicuramente non ero una di quelle ragazzine che ambiva fare l’attrice. Ricordo che gli inizi furono duri… Fu uno shock emotivo, ma necessario.
Perché? Cosa successe?
Perché non ero abituata a stare insieme agli altri, dalla mattina alla sera. La musica mi aveva abituata a stare molto tempo sola e il dover condividere tutto, ma proprio tutto, con gli altri, non fu facile da comprendere e accettare. Ma ho avuto la fortuna di trovare persone eccezionali che mi hanno abbracciata e accolta.
Sei una donna ambiziosa?
Sì, molto. Ma penso si tratti di una ambizione umana…
Cosa vuoi dire? Spiegati meglio.
Non amo scalciare, perché sono una donna troppo orgogliosa per chiedere.
Di quei tre anni, conservi un ricordo particolare?
Le amicizie con i miei compagni di corso, e Strehler…
“Non ho iniziato a fare l’attrice per il successo – così hai detto una volta – ma tutti vogliamo essere amati”. Hai bisogno del riconoscimento altrui per sentirti viva e apprezzata?
Tutti abbiamo bisogno del riconoscimento altrui. È assolutamente giusto e umano.
La tua carriera ha avuto un’ascesa lenta ma costante. Se non fosse arrivato il cosiddetto successo, cosa avresti fatto? Te lo sei mai chiesto?
Sicuramente, non avrei fatto nulla di noioso. Ricordo che a 15 anni, quando mi chiesero cosa volessi fare risposi: non so cosa vorrò fare da grande ma, sicuramente, so che non voglio fare qualcosa di noioso e ripetitivo.
Cosa hanno rappresentato, per te, Giorgio Strehler e Carmelo Bene?
Sono state due figure centrali nella mia vita. Strehler era un uomo irruento. Quando lo vedevi ti faceva battere il cuore. Era, per chi come me che stava cominciando la carriera teatrale, una leggenda in carne e ossa. Carmelo Bene, che ho conosciuto dieci anni dopo, è arrivato nel momento giusto della mia vita professionale.
Come hai conosciuto Bene?
Una mia amica mi disse che Carmelo stava facendo dei provini e così mi presentai. Ma io, in realtà, della sua attività artistica, conoscevo poco. A differenza di quelli della mia generazione, non lo seguivo in maniera ossessiva.
Cosa non sopportavi di Strehler?
Era un regista demiurgo e, come tutti i demiurghi del Novecento, Strehler aveva l’abitudine, pessima, di trattare male gli attori.
Perché, invece, hai litigato con Carmelo? Cosa gli ha fatto?
Tutti hanno discusso con Bene! Litigai perché lui voleva provocare una crisi; mi chiedeva, durante le prove di uno spettacolo, cose impossibili. Dopo una discussione molto “accesa” me ne andai. Lui, ovviamente, andò su tutte le furie perché gli tolsi il ruolo di decisore. Non ci lasciammo, però, definitivamente, perché di lì a poco dovevo tornare in scena, al teatro Argentina, nel ruolo di Fatina, nella ripresa del suo Pinocchio.
Cosa hai imparato dal Pinocchio di Bene? L’arte della menzogna, dell’inganno, della fanciullezza?
Il gioco puro e la musicalità dell’azione.
Pensi di essere una donna pura?
È una domanda del cazzo, la tua.
Da quali attori hai imparato di più?
Sono molti i nomi che dovrei elencare. Te ne dico due su tutti: Meryl Streep e Al Pacino.
Perché hai sentito la necessità di buttarti nel mondo finto e patinato del cinema? Non avevi più stimoli teatrali o ti sei fatta ingolosire da guadagni ben più importanti?
Non penso proprio che il cinema sia un mondo finto. Non mi trovo per niente d’accordo con te! Il cinema, così come la televisione, mi piace molto. È un’altra lingua, appassionante, completamente diversa dal teatro.
Cosa non ti piace del cinema italiano?
Il cinema d’autore si esprime in questi anni anche a livelli altissimi.
Ne sei sicura, Sonia?
Gode di ottima salute, e di una generazione di attrici e attori importanti.
Ti piacerebbe lavorare con una produzione estera?
Sì, ma dipende sempre dal progetto che mi propongono. Non valuto mai a seconda della lingua, ma dalla qualità e dalle idee che si nascondono dietro un progetto.
Quale talento ti riconosci?
Il coraggio.
Perché?
Perché non mi tiro mai indietro: le cose le affronto, sempre…
Cosa ti procura la vittoria di un premio? Gioia, schiavitù, indifferenza, bramosia?
Gioia.
Quanto reciti nella vita reale? Pensi di essere una donna ipocrita?
Non penso di esserlo, anzi. Cerco di tirar fuori, con le persone, quello che sono davvero.
Sei una donna spigolosa, Sonia?
Se avverto malizia, ignoranza, cattiveria, posso diventarlo.
Pensi di essere una donna più intelligente o colta?
Penso di aver maturato la libertà di essere in contatto con il mio istinto e, alla fine, di conoscermi. L’intelligenza non è che m’interessi in modo particolare. Ho conosciuto nella mia vita persone molto intelligenti, ma cattive, volgari, banali…
Ti piace più sedurre o essere sedotta?
La seduzione, nel nostro mestiere, è un tema. Un tema legato all’infanzia, al bambino che deve essere coccolato e amato, sempre. La seduzione la vedo in questo senso. Posso pensare di avere una dose di malizia, ma nascosta, di certo non esibita.
E quando la esibisci, questa malizia?
Mica lo vengo a dire a te…
Giunta agli anni della maturità, ti reputi una donna risolta, o, ancora, problematica e complessata?
Dentro di me, sto decisamente meglio rispetto a quando ero ragazza. Mi “sento”.
Non ti piacevi da ragazza?
Avevo delle insicurezze, perché non capivo cosa volessi e dove volessi andare.
Guardandoti allo specchio al mattino, ti piaci come donna? Ti vergogni di qualcosa?
Mi accetto.
“Le figlie mi hanno regalato la possibilità di vivere il presente. Mi sono liberata dall’angoscia, con loro vivo un presente che racchiude tutto”. Che angosce avevi?
Posso solo dirti che oggi, rispetto a tanti anni fa, sto molto meglio. Può bastarti?
In un’intervista rilasciata a Repubblica anni or sono, hai detto: ”Amo gli attori anche quando sono antipatici, odiosi, superficiali. Li amo, mi riconosco”. Tu, Sonia, sei più antipatica o insopportabile?
Non credo di essere antipatica né, tantomeno, insopportabile, anzi. Ho sviluppato negli anni l’arte della pazienza.
Allora formulo meglio la domanda: quali sono i difetti più insopportabili?
Allora: l’irruenza e, probabilmente, una certa chiusura. Avevo difficoltà a mettermi in ascolto…
Da quanti anni sei in analisi?
Cosa te lo fa pensare?
Così, l’istinto…
Da due anni.
Da così poco?
Forse avrei dovuto farlo prima.
Come mai hai sentito quest’urgenza?
Il desiderio di conoscermi meglio e la voglia di regalarmi uno spazio tutto mio.
Sei più vanitosa o maliziosa?
Nessuna delle due.
Come mai la tua carriera è sbocciata più lentamente rispetto a quella di altri?
Non lo so. È una domanda che non mi sono forse mai posta. Non vivo la mia vita professionale in competizione con quella degli altri. Evidentemente, il mio carattere e le esperienze fatte hanno fatto sì che sbocciassi più tardi.
Quali sono state le ferite che hai cagionato alle persone che amavi?
Spero di non aver ferito nessuno. Se l’ho fatto, non è mai stato dettato da una volontà precisa, tutt’altro.
Hai paura d’invecchiare?
Ma io sono già vecchia! Mi guardo, mi seguo e accetto quello che mi sta succedendo, con la curiosità di capire come andranno le cose.
Come ti vedi fra vent’anni?
Malgrado io non sia una persona ottimista, mi vedo bene.
Perché non sei una persona ottimista?
Beh, guardandosi intorno, come si fa esserlo?
Hai avuto paura di essere madre?
No, assolutamente! È la cosa più bella che mi potesse accadere!
Quali sono stati gli autori letterari di riferimento?
Emily Dickinson, la Bachmann, Amelia Rosselli, Rilke e, tra le contemporanee, Maria Grazia Calandrone. E poi Dante, Tolstoj, Balzac, Cechov, Virginia Woolf, Annie Ernaux…
Qual è il luogo che ti dà pace e serenità?
La montagna.
Perché?
Perché amo camminare e poi perché la montagna è il luogo del silenzio.
Come hai vissuto il periodo chiusa in casa?
Leggendo Montaigne.
Cosa hai imparato da Montaigne?
La capacità di fermarsi – lui che era stato giramondo, ma poi si era isolato nella torre – e pensare all’essenziale e alla leggerezza.
Sei una donna pesante, Sonia?
No, ma la vita sa essere molto pesante.
Ti piacerebbe morire a Roma?
Non lo so. Per fortuna non ci ho ancora pensato.
L’importante è morire…
Beh, quello non dipende da noi…
Non è mica sempre vero, Sonia.
Beh, non nel mio caso.