Contro Agamben di Edoardo Acotto (Scienze e Lettere, Roma 2021) è l’esito forse inevitabile della tendenza (ben evidente nel manifesto collettivo Non solo Agamben, apparso qualche settimana fa sul Fatto Quotidiano) a fare di un pensatore un capro espiatorio, quasi che sminuirne la figura sia condizione necessaria e sufficiente per silenziarne le tesi. Acotto ha, se non altro, il merito di inserire una polemica d’occasione (ai tempi del Codiv-19, recita il sottotitolo al sottotitolo, Una polemica filosofico-politica) in un contesto più ampio, che fa di Agamben il capro con cui esorcizzare non solo l’intera famiglia dei critici della gestione politica della pandemia, ma di una certa forma della filosofia continentale, quella solitamente detta postmoderna. Piuttosto che discutere la sua lettura di Agamben, vogliamo a nostra volta fare un uso espiatorio del testo: espiare, con Acotto, tutto un modo filosofico di porsi di fronte alla catastrofe. Acotto ha ragione quando ridicolizza la tesi di Agamben che la pandemia sia un’invenzione biopolitica; ma la meno filosofica delle attitudini è proprio quella assunta da chi, in negativo, identifica la contestazione della gestione politica con l’incapacità o la mancata volontà di riconoscere la realtà di una crisi, e, in positivo, crede che constatare la reale minaccia rappresentata da una crisi sia motivo sufficiente per legittimare qualunque misura presa per contrastarla. La domanda è quindi: come deve porsi il pensatore di fronte alla catastrofe?
L’analisi andrebbe svolta a più livelli. Primo: esiste qualcosa che giustifichi la stretta governativa? Nel caso specifico, la risposta è certamente sì, e da questo punto di vista chi critica Agamben può solo avere ragione. Acotto segnala il passaggio, in Agamben, da una postura davvero negazionista (sostenuta scientificamente dall’opinione iniziale del CNR), a una riduzionista che, nell’impossibilità di negare la pericolosità della pandemia, ne smussa comunque la portata, a una infine che, del tutto surrettiziamente, riconosce in modo implicito la gravità della situazione, salvo criticarne la gestione come se la stessa gravità fosse un fattore da non tenere in considerazione: “è come se nel pensiero di Agamben la realtà della pandemia venisse sempre messa tra parentesi: al suo posto troviamo soltanto il dibattito tra gli scienziati, ossia una pratica discorsiva, e dall’altra parte le conseguenze politiche di questa pratica discorsiva” (pp. 54-5). L’antirealismo e antiscientismo di Agamben, il suo “ipermachiavellismo biopolitico” (p. 55) per cui assume di potersi “issare sulle spalle di Nietzsche” (p. 13) denunciando ogni pretesa verità come effetto di giochi tra rapporti di potere, è ciò che più profondamente lo accomuna ai vari teorici postmoderni, il cui stile di pensiero si mostrerebbe inadeguato proprio nei momenti in cui una situazione catastrofica obbliga a un confronto serio con la realtà.
Il retrocedere non dichiarato di Agamben ha certo qualcosa di ipocrita. L’iniziale negazionismo può essere letto o come un modo per screditare il ricorso politico a un lockdown i cui effetti biopolitici sono evidenti, o come una semplificazione necessaria per far arrivare le sue tesi al grande pubblico – in entrambi i casi, non siamo proprio nei lidi più elevati del pensiero, e la posizione può essere comprensibile al massimo dal punto di vista della militanza politica. In chiave strategica, in particolare, la debolezza di questa scelta diventa evidente non appena lo stesso Agamben si trova obbligato a riconoscere le dimensioni dell’emergenza: così, un’intera posizione critica sugli effetti biopolitici della pandemia rischia di essere screditata a causa della scelta di fondarsi in un appello non più sostenibile all’inesistenza del fenomeno, appello dal quale in realtà è piuttosto autonoma.
Secondo livello di analisi: le motivazioni dietro le misure politiche sono davvero quelle ufficiali, o l’emergenza non offre piuttosto un mero pretesto, come crede Agamben, per l’implementazione di misure che avvicino sempre più a una vita in perenne stato d’eccezione? A proposito, Acotto non ha dubbi:
“Le norme varate dai governi hanno avuto la finalità di proteggere i cittadini a prescindere dalla loro credenza nella possibilità del contagio. Si può certamente discutere sui mezzi impiegati, ma la bontà del fine sembra difficilmente contestabile” (p. 59).
Questa posizione non è argomentata, e difficilmente potrebbe esserlo, vista l’impossibilità di entrare nelle teste dei vertici di governo. L’autore rincara la dose:
“Agamben pecca di anti-psicologismo: nonostante le intenzioni collettive e istituzionali non siano trasparenti, si può ritenere sensato interpretarle a partire dal contesto, escludendo per esempio che il governo italiano voglia instaurare nel 2020 una dittatura fascista” (p. 144).
(In effetti, l’insistenza sul parallelo col fascismo è, come il negazionismo, una strategia efficace per semplificare la realtà e renderla a portata di tutti, ma proprio come il negazionismo si rivela strategicamente debole, vista la disponibilità dei più trovare l’assenza di rastrellamenti e campi di concentramento un motivo sufficiente per tranquillizzarsi.) Resta che Acotto sembra accettare tout court la motivazione ufficiale: mossa difficile da accogliere, vista l’esistenza di studi come Shock economy di Naomi Klein, che evidenziano la sistematicità, negli ultimi decenni, dello sfruttamento di catastrofi come pretesto per implementare politiche autoritarie e/o neoliberali. Per citare solo alcuni dei casi più clamorosi, il Cile di Pinochet ha sfruttato lo shock derivato dal colpo di stato per trasformarsi nel grande laboratorio del neoliberismo; i risultati della guerra delle Falkland hanno permesso a Margaret Thatcher di sopprimere nel silenzio lo storico sciopero dei minatori inglesi; la distruzione provocata dall’uragano Katrina è stata per l’amministrazione Bush l’espediente per la conversione del sistema scolastico di New Orleans in un sistema di scuole “charter” private; il governo dello Sri Lanka ha allontanato i pescatori dalle spiagge per plausibili motivi di sicurezza derivanti dallo tsunami del 2004, salvo poi cedere le stesse spiagge ad alberghi destinati a rendere lo stato uno dei paradisi turistici d’Asia.
E con questo siamo al terzo livello d’analisi: indipendentemente dalle motivazioni dei politicanti, esiste la possibilità concreta di conseguenze pericolose del corso politico corrente? La risposta qui è pressoché scontata, e proprio l’opera di Agamben, che da oltre trent’anni sta costruendo un edificio concettuale che sembra fatto apposta per descrivere i nostri giorni, è una delle migliori introduzioni alla comprensione di questo rischio. A questo proposito il testo di Acotto, essendo scritto, come pare da alcuni passi, tra marzo e aprile del presente anno, non fa alcun riferimento al Green Pass, la cui introduzione corrobora fortemente la possibilità della deriva biopolitica paventata da Agamben. A ciò si potrebbero aggiungere la stretta sulla libertà di manifestare, l’unilateralità quasi orwelliana della comunicazione mediatica, la crescente distinzione di diritti tra chi opta diversamente riguardo una scelta che a norma di legge resta libera – tutti risvolti che non è affatto scontato siano destinati a scomparire insieme allo stato d’emergenza. E, anche rimanendo nel campo delle “strategie dello shock” neoliberali, stiamo assistendo a quello che ci si potrebbe aspettare mettendo a capo del governo un banchiere in tempi in cui l’attenzione pubblica è rivolta altrove: una escalation di privatizzazioni di fronte alla quale la standing ovation dei vertici di Confindustria è qualcosa di molto più che simbolico.
È all’incrocio di questi tre livelli che andrebbe affrontata la domanda: come deve porsi il pensatore di fronte alla pandemia? Negare l’evidenza della pandemia sarebbe anti- e ir-realistico, persino pericoloso: come sottolinea Acotto, la paura è un fenomeno naturale che ha permesso a lungo la preservazione delle specie e che non ha senso stigmatizzare di principio. La contestabilissima politica di terrorismo psicologico perseguita dai media non cambia questo fatto, e non deve spingere a reagire con l’estremismo opposto. Ma saltare dalla realtà dell’emergenza alla legittimazione automatica delle misure prese per contrastarla rischia di essere più pericoloso del negazionismo stesso. È futile pensare che un attacco alla figura di Agamben e ad alcuni suoi assunti metodologici generali, in nome di un generico realismo basato sulle evidenze scientifiche, basti a guadagnare una postura pienamente filosofica. Non è, come sostiene Acotto, la torre filosofica di Agamben che “ha già iniziato a cedere sotto i colpi del reale” (p. 216); a cedere, questa sì, è la strategia di Agamben, ma sarebbe folle disperdere così semplicemente la portata delle sue critiche. Come fare per non cadere in uno dei due estremi?
Se dovessimo descrivere la miglior attitudine del pensiero di fronte alla catastrofe, potremmo descriverla così: disporsi a cogliere la catastrofe come uno shock, un’iniezione di Realtà che impedisce di considerare l’evento come socialmente (o biopoliticamente) costruito, ma che allo stesso tempo causi, come ogni autentico shock, un risveglio di soprassalto. Le catastrofi, è vero, rendono la popolazione vulnerabile ai peggiori giri di vite autoritari e neoliberali, ma proprio perché mostrano, distruggendoli, l’insufficienza dei nostri schemi concettuali, i vuoti in essi insiti, il grado d’ideologia che inevitabilmente contengono, esse portano un potenziale di shock che pone chi ne ha le competenze in condizione di mettere in discussione i più profondi dogmi del suo tempo. Questo shock è quello che una vasta tradizione novecentesca ha chiamato il Reale. In direzione di vedere il virus come l’avvento shoccante del Reale vanno proprio alcuni pensatori, come Slavoj Žižek o Byung-chul Han, attaccati da Acotto come aderenti all’“agambenismo” (perché poi? perché non si limitano alla constatazione della realtà della pandemia lasciando il resto del lavoro a scienza e politica divenute ormai indistinguibili?), e c’è più di un motivo per pensare che filosofi accomunati al postmoderno come Deleuze, Foucault o Guattari vi avrebbero insistito altrettanto.
Di contro, è proprio questa postura che un non specificato realismo, una fiducia ammirevole ma forse eccessiva nelle istituzioni, e un’accettazione, di per sé giustissima, delle evidenze della Scienza impediscono di adottare. Acotto, e con lui centinaia di filosofi e gran parte della popolazione, sembra assumere che riconoscere la gravità della situazione dispensi la filosofia dal compito critico che le è inseparabile. Il realismo spicciolo è incapace di cogliere il Reale, non meno dell’antirealismo.
Un esempio di un dogma che lo shock causato dalla pandemia potrebbe portare a mettere in discussione è il dogma neoliberale alla cui insegna si sta disegnando la presunta ripresa del paese. Come scriveva Mark Fisher, “una strategia contro il realismo capitalista potrebbe includere invocare il Reale (o i Reali) sottesi alla realtà che il capitalismo ci presenta”. Qui si potrebbe quasi inserire un quarto livello di analisi: l’emergenza si poteva evitare? Esistono problemi strutturali che si può dire abbiano co-determinato l’emergenza? La risposta è ovviamente sì, e anni di continui tagli alla sanità e al settore pubblico sono lì a provarlo. L’autore (p. 21) ha ragione nel criticare Agamben per il mancato confronto con i motivi strutturali ed economici che non si possono ignorare in qualunque considerazione politica seria. Acotto sembra però l’ultimo a interessarsi di questioni del genere – certamente, non sembra interessato alla possibilità di pensare entro un quadro ideologico differente, visto che anzi ritiene il capitalismo un sistema “politico ed etico” che funziona, per quanto malamente, o non sarebbe ancora appoggiato da gran parte dell’umanità né dei filosofi (p. 48).
Per far capire cosa significherebbe vedere la catastrofe come uno shock che segni l’avvento del Reale, dipingiamo questo scenario ipotetico. Una galassia lontana, su una terra gemella alla nostra, anno 2020: l’Italia non viene da decenni di austerità e tagli alla sanità e al resto della sfera pubblica. Si presenta un nuovo virus: per quanto ben più violento di un’influenza qualunque, la mortalità è piuttosto contenuta, anche perché, grazie ai finanziamenti statali, esistono abbastanza posti in terapia intensiva da prendersi cura di buona parte dei malati a rischio. Si attuano tempestivamente misure per migliorare la situazione nei luoghi d’affollamento – su tutti, i mezzi pubblici – e si decide che, qualora la situazione minacciasse di sfuggire al controllo, si potrà arrivare a mettere temporaneamente, e secondo criteri chiaramente stabiliti, in DAD o in smart working chi ne ha la possibilità, lasciando che il resto delle attività procedano, con qualche accorgimento in più e restrizioni non pesanti sulla possibilità di accesso. Nel giro di pochi mesi è disponibile un vaccino, per il quale non viene nemmeno rilasciato un brevetto, essendo stato finanziato con soldi pubblici. Con la copertura vaccinale alla popolazione a rischio, gli ospedali a piena efficienza, e una comunicazione che preferisce una persuasione onesta a un bombardamento mediatico che rischierebbe solo di fare un fanatico di chi non vede l’ora di uscire dall’emergenza e di convincere chi è sospettoso di natura che ci sia qualcosa sotto, nel giro di un anno l’emergenza è passata, e verrà ricordata come un’influenza particolarmente temibile più che una vera e propria catastrofe.
Ripresici dallo shock, possiamo constatare come la gestione politica della pandemia paia solo rafforzare il dogma neoliberale, con nuovi, enormi tagli previsti per la sanità nei prossimi anni, giusto in preparazione a una prossima emergenza sanitaria (Ursula von der Leyen non ha proprio avvertito l’Europa di prepararsi all’“era delle pandemie”?). E in questo caso sì, una parte di “invenzione della pandemia” ci sarebbe certamente: una pandemia inventata da anni di assalti contro la sfera pubblica e dall’incapacità o nolontà dei pensatori di mettere in discussione gli assunti più discutibili della loro epoca.