OGGETTO: Diamo il cattivo esempio!
DATA: 24 Settembre 2021
SEZIONE: inEvidenza
Cari accademici composti ed educati, fate lezione camminando, per strada! Contro la prassi dell’esemplificazione e dei saggi incomprensibili, tornate alla bellezza del parlar franco
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“Per quanta differenza ci sia tra buoni e cattivi esempi si troverà che gli uni e gli altri hanno prodotto quasi allo stesso modo cattivi effetti”, scrive La Rochefoucauld. Tale archibugio del linguaggio, usato tanto nella vulgata quanto nella ricerca accademica, quale funzione serve, se non strattonare il pensiero e aiutare a impadronirsi dell’uditore non convinto. “Gli esempi sono delle guide che spesso ci fanno smarrire”, continua il moralista francese nelle sue riflessioni. Questo danno alla comprensione e alla morale, è forse sconosciuto agli abusatori dell’esemplificazione? a chi è incapace di allineare una frase con l’altra senza addobbarla di esempi? O forse che l’esempio è perpetrato proprio perché si è a conoscenza di questi effetti e cause nefaste?

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L’utilizzo incontrollato degli esempi e il riferimento ripetuto al passato, hanno un effetto deteriore sulle scienze – che dico, sul linguaggio per intero e sulla comunicazione. Sì, vi è una necessità di rispettare ciò che è stato raggiunto. Eppure, vi deve essere un limite al citazionismo sfrenato. Testi, saggi e paper di ricerca, resi incomprensibili da sistemi di notazione ottundenti, che rendono il dovuto rispetto alla conoscenza su cui si appoggiano, distruggendo però la scrittura – sistema culturale rigoroso su cui inevitabilmente si appoggia l’edificio della conoscenza. Distruggendo però la bellezza.

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Le dimostrazioni e le ricerche condotte in campo scientifico fanno infatti un largo uso di esempi. Il loro utilizzo è raccomandato e consigliato – ‘miglior strumento di divulgazione e di spiegazione’, a sentire gli assidui frequentatori dei corridoi delle Università. Il principio dell’esempio e il suo abuso sono figli illegittimi di un accademismo sfrontato e irrefrenabile, che crede di dover spiegare facendo affidamento ad un senso comune – ma quale comunanza? e, soprattutto, quale senso?

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Questa comprensione che ci si vorrebbe imporre attraverso l’utilizzo degli esempi, questo giuoco linguistico a cui si verrebbe costretti, non è pero niente di definitivo. Ogni limite, ogni regola, ogni confine è fatto per essere oltrepassato – ah, il rocambolesco e giocondo saltare oltre confine! L’avversione per l’esempio e il suo potere distrattivo devono fare propendere verso la denuncia del mero utilizzo. Ad ogni uso, una denuncia, un altolà.

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A cosa conduce, tuttavia, un atto del genere? Al rifiuto netto e categorico della possibilità di universalizzare e generalizzare, al rifiuto dell’universalità. Quando ci si trova di fronte un caso di esempio, bisognerà ostruire il passaggio, impedendo il procedere del discorso; mettersi di traverso, brutalmente; sdraiarsi sul cemento ruvido, o masturbarsi alla maniera dozzinale di Diogene nella piazza del mercato.

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“Ora, quella dell’esempio mi sembra essere una grande risorsa filosofica, perché permette di generalizzare gli individui senza ricorrere agli universali”, scrive l’esimio professor Maurizio Ferraris, in uno stile asciutto, ragguardevole. A mio parere, la generalizzazione va raccomandata a chi vuol costruire una teoria, uno schema, un sistema, un catalogo; a chi ha la pretesa di annotare e parlare di tutto, ma usa solo un uno. La generalizzazione rappresenta l’allontanamento dall’individuo singolo e dal suo essere umano particolare. L’esempio non è altro che un’arma di convinzione di massa.

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L’amore antico per la realtà che anima il propugnatore del Nuovo Realismo, lo spinge a costruire una logica ferrea, ad innamorarsene e iterarla. Egli si abitua a tale procedere e ne fa un metodo logico di ragionamento. Eppure, l’utilizzo stesso dell’esempio per dimostrare l’efficacia e la correttezza “dell’esemplarità dell’esempio” è un errore logico esemplare.

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Al di fuori dei convegni e delle conferenze, il procedere lento e faticoso dello scrivere evita l’esemplificazione e inorridisce di fronte all’accumularsi di pagine strapiene di rimandi al già detto e al già ripetuto. Per quanto gli accademici e le scienziate producano inossidabili ricerche inzuppate di esempi.

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Perfino Kant, accademico, scienziato e filosofo, condanna l’esempio. “Gli esempi sono le dande del giudizio e sono sempre indispensabili a chi manchi del talento naturale del giudizio”, scrive il moralista di Königsberg. Insomma, gli esempi sono strumenti di dominio linguistico giustapposti sul lettore – come se fosse un bambino incapace di trovare la via. Altrove, invece, il filosofo illuminista maledice l’esemplificazione in campo morale: “Non si potrebbe neppure immaginare qualcosa di peggio, per la moralità, che volerla trarre da esempio”. L’esempio? Una maledizione teorica e morale.

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Ma, quindi, che funzione serve l’esempio? La chiarificazione? La semplificazione? No! Neppure per sogno! L’esegesi di testi complicati viene trasformata in un percorso ancora più accidentato e difficile da compiere, che se fosse stato portato avanti individualmente. L’aggiunta di citazioni di casi che dovrebbero spiegare, descrivere nel dettaglio e rendere accessibile – ovvero l’addizione dell’originale e dell’interpretazione –, trasforma il risultato in un immondezzaio in cui è difficile orientarsi, una pila di cianfrusaglie teoriche che a confronto l’universo di D. F. Wallace è un cassetto della biancheria ordinato. Un tentativo di chiarificare che complica irrimediabilmente. Un compromesso malpensato che si risolve nell’edificazione di un castello lugubre, oscuro e di difficile accesso.

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La filosofia senza compromessi di Vauvenargues, Cioran e Dávila, che rifugge dall’esempio e rifiuta di essere maltrattata dall’intelletto razionale. Uno scrivere degno della scrittura, che tratta il suo soggetto senza tirare in ballo realtà, oggetti, pantofole, od ordinamenti degli scaffali. Pensatori come Schopenhauer, capaci di arrischiare le vette senza rimandare a forme e valori altrui; capaci di fare forza sulla propria persona e nient’altro. La franchezza dell’aforisma e della riflessione non ornata – ecco, questa è la medicina all’abuso dell’esempio; tanto negli ambiti accademici, quanto nel linguaggio della cittadina qualunque.

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Questo mio è un grido disperato. Voi, antropologhe ed etnologi, tornate per strada, imbracciate di nuovo la via che porta alla montagna! Voi, professori composti ed educati, abbandonate i vostri laboratori di ontologia e fate lezione per strada – camminando! Voi, letterati ed esperte, lasciate le vostre cattedre e rifiutate le aule chiuse! Non state a guardare, inermi, di fronte alla decadenza del vostro mondo; non dormite sonni tranquilli, tornate per strada! Mostratevi nudi di fronte al sole e tergete le vostre coscienze all’aria aperta, lasciate i posti ottenuti con un favore e riversatevi per le strade delle città. Fatevi inondare dall’aria fresca, dall’alta marea, dal ronzio incontrollato delle api e tralasciate tutto il resto – i magazine accademici freschi di stampa, i convegni monotoni e vuoti e i laboratori illuminati da luce artificiale.

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La fertilità delle idee risiede altrove. L’odore stantio di muffa stagnante è persistente, ritorna ogni volta che ci si avvicina ad una ricerca accademica – iper-condita di esemplificazioni. L’ambiente ha un disperato bisogno di essere areato, di essere ringiovanito e reso nuovamente salubre — vivibile!

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L’abbozzo malriuscito di avvicinare l’accademia all’individuo da supermercato, ha creato delle chimere del linguaggio e ha allontanato ancor più le persone dai meandri raziocinanti delle Università. Le professoresse istruite dal mondo della fede scientifica e i docenti imbottonati con cappelli di lino bianco non hanno fatto altro, sino ad ora, che allontanare la filosofia viva dall’Accademia – si pensi ad un Thoreau o a un Pirsig. Tale antagonismo insegna molto.

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Infine, che regola assurgere? Nessuna, se non l’abbandono del trito esempio e l’approccio rinnovato alla parola franca. L’ampolloso linguaggio esemplificatorio non porta da nessuna parte. Anzi, esso esercita un dominio non richiesto, ottuso e tedioso. Non vi è alcuna necessità di ricorrere all’esempio. Non andate in giro a gridare che Ananke vi ha colto di sorpresa e spinto a cambiare i vostri pensieri: dismettete l’esempio e il suo uso equivoco! Ripulite i vostri periodi e i vostri paragrafi, la chiarezza del pensiero non abbisogna di alcuna esemplificazione.

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