OGGETTO: Donne che odiano gli uomini
DATA: 25 Marzo 2021
SEZIONE: inEvidenza
La misandria è una precauzione? Secondo Pauline Hermange sì. Il suo libro “Odio gli uomini” ha fatto scalpore, ma dietro vuote polemiche e imbarazzanti generalizzazioni resta ben poco
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Quindici anni fa uscì il romanzo Uomini che odiano le donne, da poche settimane invece, in pieno ribaltamento di genere, è uscito Odio gli uomini, libro che ha infiammato la Francia e in Italia è stato salutato da la Repubblica come “un caso letterario”. La genesi di questo libro è particolarissima. Lo ha scritto Pauline Harmange, ventiseienne, volontaria in un’associazione contro le violenze sessuali e blogger, e lo ha pubblicato un minuscolo editore in pochissime copie. Il libro ha però catturato l’attenzione di Ralph Zurmély, funzionario del ministero per le pari opportunità francese, che ha minacciato l’editore di denuncia per incitamento all’odio se non avesse ritirato il libro. Com’era prevedibile, sortì l’effetto contrario: migliaia di copie vendute e traduzioni in diciassette lingue.

La Francia assolve da sempre al compito di avanguardia europea e l’intellighenzia italiana ne accoglie prontamente i frutti come novità da imitare: non stupisce dunque che qui il libro sia stato accolto con entusiasmo provinciale. Quel che semmai stupisce è che un libretto di 96 pagine (Garzanti è riuscito a stirarlo fino a 114 ingigantendo il corpo del testo), pensato per un pubblico minuscolo e in cui ben poco si dice, abbia suscitato reazioni tanto scomposteLa Francia è sensibile verso la questione e ha molto insistito sulla parità di genere, affrontata con una certa distensione grazie alla proverbiale laicità razionalista, fino ad esiti parossistici. Se, da un lato, il comune di Parigi è stato multato perché la sindaca ha nominato troppi dirigenti donne, violando così la parità di genere, dall’altro si preannuncia battaglia sulle celebrazioni per il bicentenario della morte di Napoleone, accusato di razzismo e sessismo, tra le altre cose, con un preannunciato impiego di forze femministe.

In questo contesto di decostruzione dell’uomo bianco, sia perché uomo sia perché bianco, Odio gli uomini casca a fagiolo. Il libro è stato negativamente criticato per due ragioni. La prima è l’accusa di incitamento all’odio e di istigazione alla guerra tra sessi, esemplificata dall’inequivocabile confessione “odiare gli uomini, in quanto gruppo sociale e spesso anche in quanto individui – mi riempie di gioia.” L’altra è quella di ipocrisia: Pauline Harmange scrive a venticinque anni un libro del genere ma è già sposata proprio con un uomo bianco eterosessuale della classe media, cioè il perfetto bersaglio del suo odio. Da quest’ultima accusa la Harmange si difende già nel libro sostenendo che 

“ciò non mi impedisce di chiedermi perché gli uomini siano come sono. Vale a dire degli esseri violenti, egoisti, pigri e vigliacchi.”

Queste però sono critiche forse marginali, mosse da chi guarda il dito invece che la luna, rispetto ai difetti fondamentali di questo libro. La prima cosa che si nota è che il libro è connotato da molta vis polemica ma poca argomentazione: le tesi, anzi, le recriminazioni, non vengono quasi mai spiegate e pochissime sono le fonti e le citazioni. Secondo la Harmange, “una volta aperti gli occhi sulla profonda mediocrità degli uomini, non ci sono più molte ragioni per apprezzarli a priori.” Questo la porta a propagandare la misandria come “principio precauzionale” e a sostenere che “il minimo che possa fare un uomo di fronte a una donna che avanza una tesi misandrica è ascoltare in silenzio.” Contravvenendo a questo suo suggerimento, opponiamo una questione di principio.

Questo libro, e più in generale il discorso entro cui si situa, è assiomatico e antidialettico per costruzione: perciò, è impossibile che se ne possa discutere. Scrivere un libro che poggia sull’assunzione di insindacabilità perché scritto da una donna, cioè un’oppressa, che ha dunque ragione a prescindere nell’odiare gli uomini e nell’esprimerlo, mentre le donne che ancora non lo fanno devono solo “aprire gli occhi”, vuol dire escludere a priori la possibilità di interloquire con chi non condivida questa assunzione, cioè con tutti tranne che con chi la pensa già come l’autrice. Allora viene da chiedersi perché abbia scritto questo libro, se si può solo leggerlo in silenzio senza dibatterne.

Stupisce poi la fusione di tutti i singoli uomini in un unico magma. Le differenze individuali sono abolite a favore di volontà di gruppo, facendo perfino ricorso a stereotipi grotteschi. Gli uomini sarebbero mediocri per definizione, tutti violentatori dai quali difendersi (anche se non lo sono, perché potrebbero esserlo), in una sovrabbondanza di cliché per cui certi uomini si interessano al femminismo “per rimorchiare qualche femminista”, “si imbucano a tutte le feste” e passano del tempo tra loro per “esacerbare la propria virilità”. Di fronte a tanta mediocrità, l’autrice rivendica per le donne “il diritto di essere brutte, malvestite, volgari, cattive, irascibili, casiniste, stanche, egoiste, carenti…”

Ancor più importante però è un altro difetto di questo libro, ossia la sovrapposizione tra la condizione e i problemi delle donne in generale e quelli delle donne europee, bianche, benestanti e secolarizzate. Nel suggerire alle donne di stare tra loro praticando la “sorellanza”, così da scoprire il proprio valore, l’autrice immagina gli uomini come un gigantesco club in cui “il prezzo da pagare per ottenere la tessera è il disprezzo delle donne e delle minoranze”. Come se nelle minoranze non esistessero sessismo e patriarcato. Per sopperire a questo disprezzo connaturato, “le donne sono in un processo di aggiornamento costante”, che si esprime nell’

“andare dallo psicologo, leggere libri per imparare a organizzarsi, a essere zen, a godere, condividere i propri stati d’animo, fare sport e diete, sottoporsi a restylingcoaching, interventi di chirurgia estetica, cambiare lavoro, farsi in quattro.”

Che talune donne si sentano costrette a tutto questo per risultare gradite agli uomini suscita dispiacere e riprovazione, ma che il disagio della condizione femminile in un paese come la Francia si esprima nell’essere costrette a consumi di lusso appare un tantino eccessivo.

Proprio lo scorso anno il governo d’oltralpe ha proposto l’abolizione del certificato di verginità, che si stenta a credere possa ancora essere praticato in un paese europeo. Il certificato però è stato difeso proprio da diverse ginecologhe, secondo le quali “si tratta di casi estremamente rari ma esistono e si tratta essenzialmente di richieste di origine religiosa” per cui “alcune ragazze, se non viene provata la loro verginità, rischiano di essere uccise dal padre o dalla madre.” L’origine religiosa di queste richieste è facile a intuirsi. Proprio mentre si dibatteva del certificato di verginità, un sondaggio condotto da Ifop annunciava che il 45% dei musulmani con meno di venticinque anni ritiene l’islam incompatibile con i valori della società francese, mentre il 74% antepone le convinzioni religiose ai valori della Repubblica, evidenze che portano a concludere che “i giovani musulmani si dicono più radicali dei loro genitori”.

L’islamizzazione della Francia, a sentire perfino il presidente Emmanuel Macron, è diventata un problema. Anche lo scrittore di origine algerina Boualem Sansal parla di una “pandemia ideologica”, denunciando “il comunitarismo, la delinquenza nelle periferie, il permissivismo della società europea, i giochi torbidi della sinistra”. Lungi dall’essere mossi da pregiudizi sciocchi nei riguardi della religione islamica, appare però chiaro come tutto ciò potrà facilmente costituire un problema per le donne, francesi e non solo. Che nelle novantasei pagine dell’edizione francese Pauline Harmange non trovi neppure un rigo per affrontare la questione e anzi si rivolga esclusivamente a “uomini bianchi, cis, eterosessuali e senza disabilità” è sintomatico di uno sguardo retrogrado sulla questione femminile, giacché questi uomini sono in via di dismissione se non altro demografica, almeno in Francia, destinati come sembrano a diventare una minoranza nel giro di qualche decennio.

In un’Europa globalizzata e instradata sul viale del meticciato, ridurre il confronto tra i sessi al solo rapporto con l’uomo-bianco-etero è forse riduttivo rispetto alla complessità delle nostre società. Perché, in definitiva, no: gli uomini non sono tutti uguali e neppure le donne. Parlare a nome di tutte contro tutti è pura velleità. Con una punta di cattiveria, non resta che archiviare questo testo nello scaffale delle pubblicazioni sintomatiche di una società decadente, afona e imbelle, dove suggestioni non dimostrabili unite all’introspezione ombelicale del proprio vissuto privilegiato, assurge a “caso letterario” e a “grido di liberazione” (Il Messaggero). Senza che nessuno nutra mai il sospetto che il tono apocalittico e astorico di chi sembra aver scoperto stamattina le disparità di genere non denoti invece la rimozione di mezzo secolo di femminismo e di progressivo smantellamento del patriarcato europeo. 

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