OGGETTO: Io sto con gli animali
DATA: 10 Novembre 2021
SEZIONE: inEvidenza
Andiamo oltre la rumorosa (e ignorante) protesta degli animalisti di ogni colore. In un testo mistico islamico, “Il processo degli animali contro l’uomo”
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Il contatto con la bestia ci forma, sfida, e spesso è lì, evidente come un amuleto, indelebile, tra le leggende dell’infanzia. Ognuno ha il proprio. Io avrò avuto otto anni, ero sul San Bernardo, la nebbia mi ha uncinato in una selvatica solitudine. Dal nulla, vedo un camoscio, davanti a me, improvviso, potevo toccarlo. Il volto cornuto mi fissa, pensai fosse mio padre, travolto pure lui dalla nebbia, che si era trasformato; pensai di poterlo cavalcare, ma la bestia, ovviamente, scalciò, svanendo. L’ultimo è più recente. La volpe, nel giardino di una villa spartana, sobborghi di Dublino, che rovista tra i rifiuti – magra e di una bellezza speciale, fragilissima, mi ha fatto capire l’ossessiva devozione che le porge John F. Deane, grande poeta irlandese, autore di un libro straordinario, Christ, with Urban Fox (1997; in Italia è tradotto, tra l’altro, Il profilo della volpe sul vetro e Gli strumenti dell’arte). L’avrei voluta con me – mi ha guardato, con uno sguardo di cui ho afferrato (o creduto) una nostalgia d’acqua –, si è nascosta in un cespuglio, cifrata. Non ho mai visto il lupo artico, che sorgeva spesso nei miei sogni, da ragazzo.

In un articolo pubblicato su “Aeon”, What animals think of death, Susana Monsό, prof alla Uned di Madrid, autrice di La zarigüeya de Schrödinger, ci spiega – così il sottotitolo del suo lavoro – “come intendono la morte gli animali”. Secondo la studiosa, la cosiddetta tanatosi, il comportamento difensivo adottato da alcune bestie, che si fingono morte per sfuggire alla cattura di un predatore, dimostrerebbe che gli animali sanno cos’è la morte. Se non sa cos’è la morte chi finge la morte – attraverso un’articolata atrofia del corpo: rallentamento del battito cardiaco, pupilla rivoltata, secrezione di liquidi odorosi – lo sa il predatore, disgustato dall’azzannare un corpo morto, putrefatto. “Il concetto di morte è costituito semplicemente da due nozioni: non-funzionalità (gli individui morti non fanno ciò che di solito è naturale per gli esseri viventi di quella specie) e irreversibilità (si tratta di uno stato permanente”. La Monsό parte raccontandoci i prodigi dell’opossum della Virginia, il suo autentico “spettacolo della morte”, e la morte elaborata, “drammatizzata”, messa in atto dagli hognose, una categoria di serpenti diffusi in Nordamerica e in Messico: “l’animale si contorce in modo irregolare e violento, resta immobile a pancia in su, con la bocca aperta e la lingua fuori. Secerne sangue dalla bocca. Potresti colpirlo con un bastone o sollevarlo: non reagirebbe”. Lo studio vuole dimostrare che “il concetto umano di morte non è necessariamente l’unico” e che “lungi dall’essere una caratteristica specificamente umana, la consapevolezza della morte è un tratto comune del regno animale”. In effetti, l’uomo esiste come creatura di morte, per la morte: agisce, crea, distrugge perché è braccato dalla morte, in una lotta impari – perciò, affascinante – contro l’inevitabile. Gilgamesh intraprende il suo lungo viaggio perché scoprire che dovrà morire, come l’amico Enkido, lo squassa; tutta la letteratura, in fondo, non è che l’immensa testimonianza di un condannato. D’altronde, sono sorte civiltà vivissime e feconde tutte protese nell’aldilà; non c’è religione che non predichi la vittoria sulla morte, o che ambisca alla morte, ne lecchi la soglia, per soggiogarla. La morale finale – “A noi umani piace ritenerci unici… Anche il concetto di morte va annoverato tra quelli a cui non possiamo più ricorrere per testimoniare la nostra specifica unicità” – va segata: ci basti lo studio, interessante.

Il problema, quando si parla di ‘tutela della natura’, di ritorno allo stato selvaggio, è scadere in un irenismo ipocrita. In fondo, siamo sempre noi, la specie eletta, a determinare il gioco: disposta persino a togliersi di torno per dare spazio ai poveri animali, derelitti e defraudati. Poveri noi, piuttosto, alienati dal bosco, inebetiti dalla notte, che per una presunta comodità abbiamo dimenticato la virtù del sopravvivere, incapaci della nitida eleganza del ghepardo, della crepuscolare abilità del ragno, distanti, nel mondo profilato, profilattico, certificato, sicuro, da un rapporto concreto con la materia – che sia, perfino, la scelta di un marmo particolarmente sgargiante per la costruzione di una cattedrale. Il rapporto con la natura – che è sotto casa, in soffitta, ovunque, mica in Amazzonia – ci disorienta sempre: diventa turistico, allora, viziato da un atletismo esasperante, bonificato da una generica bontà, comunque domestico, addomesticato. Agli animali, da Esopo a Disney, assegniamo, ostinatamente, caratteri e sentimenti umani. Nel mito, piuttosto, la bestia resta una alterità, il raro, un pericolo, cosa sacra da affrontare e su cui pregare. Ma ci mancano, ormai, i fondamentali per affrontare il ferino: siamo fieri di proteggere qualche specie in estinzione in paesi lontanissimi dal nostro – la tutela non è mai vicenda di studio né di ascesi, di scoscendimento in sé, ma faccenda che riguarda il denaro –, prediligendo una didattica per lo più imbarazzante (un esempio: la “favola selvaggia” di tale Filelfo, L’assemblea degli animali, pubblicata da Einaudi l’anno scorso). Ci mancano gli attributi narrativi per dire il travolgente della fiera, il tremendo.

Un testo di incredibile potenza, in questo troiaio di chiacchiere, è il cosiddetto “Trattato degli animali” composto dai “Fratelli della Purezza”. Società segreta sviluppatasi tra VIII e X secolo, gli Ikhwān al-Ṣafāʾ (per esteso: “Fratelli della Purezza, Amici Leali, Popolo della Lode, Figli della Gloria”), avevano sede a Bassora, sono rimasti nel più esoterico anonimato, la loro “enciclopedia” in 52 epistole, immane compendio di cultura coranica, intrisa di neoplatonismo e di veggenze sufi, è stata reiteratamente passata al rogo dai sultani dell’ortodossia. Henry Corbin, nella sua Storia della filosofia islamica, distingue in questo modo “la costituzione ideale del loro Ordine”:

“Essa comprende quattro gradi, funzionali alle capacità spirituali che si sviluppano con l’età (l’idea del pellegrinaggio alla Mecca si trasforma in simbolo del pellegrinaggio della vita). 1) I giovani, da 15 a 30 anni, formatisi secondo la legge naturale. 2) Gli uomini dai 30 ai 40 anni, istruiti alla sapienza profana e alla conoscenza anagogica. 3) Soltanto a partire dai 40 anni l’adepto è in grado di essere iniziato alla realtà spirituale celata sotto l’essoterico della shari’at; il suo modo di conoscenza diventa allora quello dei profeti. 4) A partire dai 50 anni egli è in grado di percepire in tutte le cose questa realtà spirituale esoterica; il suo modo di conoscenza diventa allora angelico, padroneggiando egli altrettanto bene la lettera del Liber mundi che quella del Libro rivelato”.  

Delle lettere, la più sconcertante, la ventiduesima, racconta la disputa tra uomini e bestie, accaduta su un’isola deserta, al cospetto di Bīwarāsp, saggio re dei jinn. Il confronto è senza scampo, la logica spietata:

“Vostra Maestà, continuò il portavoce delle bestie, noi e i nostri padri siamo vissuti sulla terra ben prima della creazione di Adamo, il capostipite della razza umana. Abbiamo abitato le campagne, vagato per pianure; le nostre mandrie andavano ovunque sulla terra di Dio, cercando sostegno, prendendosi cura gli uni degli altri. Ciascuno badava al proprio destino, abitando nello spazio più adatto alle proprie necessità: brughiera, mare, foresta, montagna, pianura… Notte e giorno abbiamo lodato Dio, senza assegnagli rivali o pari. Molte età più tardi, Dio creò Adamo, lo fece vice-reggente sulla terra. La sua progenie si è riprodotta, il suo seme si è moltiplicato, spargendosi per la terra, i mari, i monti, le pianure. Gli uomini hanno invaso le nostre terre ancestrali; hanno catturato pecore, mucche, cavalli, muli e asini, li hanno ridotti in schiavitù, sottoponendoli a fatiche estenuanti, a trasportare, arare, far girare i mulini, cavalcare. Ci hanno forzato con ogni sorta di tortura e castigo. Alcuni di noi sono fuggiti nei deserti, sulle montagne: la progenie di Adamo ci ha inseguito, dandoci la caccia con ogni sorta di astuzia e di stratagemma. Ci hanno scannato, scuoiato, squarciato il ventre, tagliato le membra, spezzato le ossa, scastrato i tendini, strappate le penne, tosato il vello, ci hanno messi sul fuoco, arrostiti, cucinati, sottoposti a crudeltà indescrivibili. E ora i figli di Adamo pretendono che questo sia un loro diritto inviolabile, che loro siano i padroni e noi gli schiavi”.

Il testo è pressoché sconosciuto in Italia – pochi mesi fa Jouvence ha pubblicato come I fratelli della purità una “introduzione e commento ai 52 trattati” di Alessandro Bausani, l’insigne islamologo morto un secolo fa – è stato tradotto dalla Oxford University Press nel 2009 come The Case of the Animals versus Man Before the King of the Jinn (a cura di Lenn E. Goodman e Richard McGregor) ed esce ora per Les Belles Lettres, in Francia, come Le procès animal de la domination humaine, in una traduzione commentata, straordinaria, a cura di Guillaume de Vaulx d’Arcy.

La testimonianza è straordinaria: il contatto con gli animali pertiene a una ascesi nell’alfabeto basilare della natura. Anche la stazione eretta, ricorda il portavoce delle bestie a quello degli uomini, non è segno di eccellenza:

“Tutti gli animali sono opera della sapienza del Creatore, che li ha fatti secondo ragione, per il proprio scopo, con la cura di beneficiarli e di proteggerli dal male. Ma questo è chiaro soltanto a Lui e a coloro che sono ben radicati nella conoscenza”.

Non va dimenticato che la parabola più stupefacente raccolta tra i Detti e i fatti dei padri del deserto, “una delle più brevi e grandi prose che mano abbia tracciato” secondo Cristina Campo, dice di un anacoreta preso per idiota dai monaci e dal loro cenobio allontanato: per non cadere tra le mani degli uomini, “fuggì correndo dietro ai bufali”. L’uomo di Dio, il più sapiente, preferisce l’andatura a quattro zampe.  

*In copertina: una fotografia di Will Burrard Lucas

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