È già un ricco possidente, il Mazzarò della novella La roba di Verga, ma non si accontenta: «Voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed essere meglio del re». Accumula ricchezze e anni sulle spalle, la gente lo invidia ma non sa «quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera…». Più passano gli anni più si avvede che «questa è una ingiustizia di Dio, che dopo essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla!» E quando infine i medici gli annunciano che la malattia che lo affligge non gli farà la grazia, ammazza le sue anatre e i suoi tacchini gridando «Roba mia, vientene con me».
Così passa la gloria dell’accumulatore votato alla roba, che Verga schernisce con sottile perfidia, tra carcasse di anatre e tacchini. E quell’urlo, «roba mia, vientene con me», rimane uno dei più strazianti rifiuti della morte di cui la letteratura ci abbia fatto dono. Se ci guardiamo attorno, i Mazzarò abbondano. Soprattutto in politica. «La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati», notava Gramsci dalla sua prigione. Noi possiamo chiosare correggendo Gramsci, perché talvolta il nuovo non può nascere perché il vecchio non vuol morire.
È questo che sta accadendo nel centrodestra in Italia, dove è tornata al potere la stessa maggioranza a tre teste dei governi Berlusconi. Ma non sono più governi Berlusconi. Chi era piccolo è diventato grande e chi era grande è diventato piccolo. E non ci sta. Anche un fedelissimo, riporta il Corsera, sostiene che Berlusconi «non sopporta nessuno sopra di lui». E non accetta il ruolo di defilato «padre nobile» del centrodestra. Chi è abituato a dare le carte non si siede al tavolo verde da giocatore. Mai si era visto un leader di partito prestare agli obiettivi dei fotoreporter carta intestata Villa San Martino – la roba – con giudizi pesantissimi sulla propria alleata: «supponente, prepotente, arrogante e offensiva», oltre al depennato «ridicola». Ha sbagliato chi ha ritenuto che quel foglio fosse un attacco a Meloni. Era invece un riflettore solare, uno di quei pannelli argentati che le signore un tempo usavano poggiare sul petto per abbronzarsi il viso. Quei giudizi erano lo strumento per riflettere la luce, per mostrare di essere ancora il mazziere.
Ma Berlusconi ha fatto male i suoi calcoli. Se lo sgarbo è stato pesante, la risposta di Meloni è stata inaudita: «A quell’elenco mancava un punto, che non sono ricattabile». Con una semplice frase, Meloni ci ha ributtati indietro di una quindicina di anni. D’un tratto ci ha fatto tornare in mente Arcore, i conflitti di interesse, i bunga bunga, il contratto con gli italiani e tutta quell’ipertrofia controversa che Berlusconi ha cercato di cancellare in duri anni di moderazione, europeismo e centrismo. E che tutti noi, complice la sua docilità indotta dall’anzianità, avevamo dimenticato o preferito dimenticare. E se all’epoca bastò un «che fai, mi cacci?» Rivolto da un Fini in platea a un Berlusconi sul palco (chi sta sotto e chi sopra) per sancire la rottura tra Forza Italia e Alleanza Nazionale, oggi neppure una dichiarazione che allora avrebbe estromesso all’istante dal centrodestra chi l’avesse pronunciata ha smosso granché. Al contrario, proprio Berlusconi ha dovuto portarsi dalla Meloni per sotterrare, almeno in apparenza, l’ascia di guerra.
Ma dall’inizio della legislatura Forza Italia, a cominciare dal suo leader, ha contrastato Meloni in pensieri, parole, opere e omissioni, come recita il confiteor cattolico. Già alle elezioni dei presidenti delle Camere e alle nomine dei ministri, Berlusconi ha dovuto fare i conti con pesanti sconfitte. Nessun presidente di Camera e solo tre ministri con portafoglio su quindici. E nessun posto per la persona che più di tutte ha cercato di piazzare, Licia Ronzulli soprannominata «la fedelissima». Colei che prese il posto di Mariarosaria Rossi, detta dai più perfidi «la badante», nel ruolo di assistente del Cavaliere. Da allora Berlusconi e i suoi hanno fatto il controcanto alla Meloni su qualunque tema: edilizia, decreto anti-rave, contante, immigrazione e legge finanziaria.
Il rischio dunque è che il governo diventi un Cerbero impietrito, che non riesce a muoversi perché ognuna delle sue tre teste spinge in una direzione. A quel punto tutto potrebbe succedere, che il governo vivacchi oppure che si rompa l’alleanza, e ogni scenario di fantapolitica da sogno diventerebbe solida realtà, come diceva una pubblicità. In ogni caso, il problema è lui, il convitato di pietra del governo, un piede fuori e uno dentro il Consiglio dei ministri, che suona il suo spartito da solista. Riportano le cronache che due forzisti di governo si siano confrontati con Meloni sul problema. Se uno ha detto che «Silvio non darebbe mai una spallata a un governo di centrodestra», l’altro ha risposto «vero, ma da quando è in campo non c’è mai stato un governo di centrodestra non guidato da lui».
Allora più che la guerra in Ucraina, il caro bollette e i conti pubblici, ciò che davvero può minare il governo è il Berlusconi ringalluzzito dal ritorno in Senato e in maggioranza. Tutto desidera meno che la Meloni riesca a federare il centro-destra senza di lui, e già affila le armi per le Europee del 2024. Gioca di sponda con Salvini, che ha la stessa preoccupazione, oltre a quella di gestire un partito che rumoreggia. Ma Salvini sa di non potersi fidare del tutto e non ha dimenticato gli affronti subiti quando toccò a lui di vestire i panni di Capitano del centrodestra. L’immagine di Salvini che legge il comunicato al Quirinale, durante le consultazioni del 2018, mentre Berlusconi si prende la scena prima elencando i punti con le dita, a far capire che Salvini legge ma chi scrive è lui, e infine brandendo il microfono per inveire contro il M5s, non può essere dimenticata. Come Salvini non avrà dimenticato i colpi subiti per aver scelto di governare con i grillini, passando per traditore di un centrodestra disunito e senza numeri.
Berlusconi sembra aver rovesciato la massima gattopardesca. Sperava di poter lasciare tutto com’era affinché tutto cambiasse. Credeva di tornare a fare e disfare il centrodestra a modo suo, ad amministrare il potere, a decidere i ministri, le nomine nelle aziende pubbliche, i punti salienti del programma di governo. Il tutto continuando a fare il Berlusconi, il capo del partito-azienda, senza eredi legittimari, che lancia gli stessi slogan di ventotto anni fa. Perché Berlusconi questo sa fare, e una volta vinceva così. Ma gli anni passano, il mondo cambia e con esso l’uomo. L’anzianità si sente e la perdita di lucidità anche. Le leve del potere, una volta chiuse nel suo pugno, oggi gli scivolano via.
Insegna Seneca che chi vive per il presente, cioè per l’ambizione, il potere e la ricchezza, non conosce il tempo e dissipa la propria vita. Giunge alla vecchiaia impreparato a essa, impossibilitato ad accettarla come momento di utile distacco dalle passioni. Allora c’è da chiedersi come Berlusconi reagirà quando si renderà conto delle sue condizioni personali e politiche. Perché se reagirà come Mazzarò, a rimetterci sarà ben più di qualche anatra o tacchino.