Antonio Funiciello, intellettuale, consigliere e civil servant, con i suoi saggi ha mostrato di saper portare il lettore nei veri laboratori del potere. Dove si disvelano pratiche e regole degli arcana imperii, non col taglio dell’agiografo o dell’evangelista delle élite, ma con lo sguardo aguzzo e prosastico di chi ha visto il vero volto del Palazzo. Delineando una vera e propria enciclopedia del Deep State e dell’agire politico di cui i capitoli più significativi sono opere come “Il metodo Machiavelli. Il leader e i suoi consiglieri: come servire il potere e salvarsi l’anima” (Rizzoli 2019) e “Leader per forza. Storie di leadership che attraversano i deserti” (Rizzoli). Testi in cui il legame tra esperienza politica e riflessione, deep state e cultural estate, militanza e sapere tecnico è indissolubile.
Funiciello, infatti, nel suo lungo percorso, oltre ad essere studioso degli ingranaggi istituzionali è stato consulente politico di figure di spicco (come Luigi Zanda e Walter Veltroni), responsabile Cultura del Pd nella segreteria di transizione di Guglielmo Epifani e capo di gabinetto e uomo chiave del Governo Gentiloni, prima, e del Governo Draghi, poi. Ruoli da cui ha estratto gli spunti e i temi che hanno formato i suoi personalissimi specula princeps della scena e del retroscena politico, mischiando il Belfagor machiavellico e la Great Society, cavourismo e riformismo, la frequentazione delle cancellerie occidentali e il confronto con i maestri del pensiero. Funiciello, amante della poesia, affabile conversatore, esperto di politica americana e prudente osservatore, attualmente è Identity manager di Eni ma non ha dismesso il suo impegno culturale e i suoi studi sul pensiero liberal, riformista e realista, di cui una testimonianza significativa è il suo testo su Giacomo Matteotti: “Tempesta” (Rizzoli 2024), un elogio della politica come vocazione e professione in tutta la sua eroica prosasticità. Per meglio conoscerne il pensiero e la visione di Antonio Funiciello lo abbiamo raggiunto nel suo ufficio Eni cercando di meglio comprenderne tanto il percorso professionale, quanto l’itinerario umano che gli ha permesso di servire (e conoscere) il potere salvandosi l’anima.
-Capo di gabinetto e intellettuale, uomo chiave di grandi aziende, ma anche figura centrale dei pubblici poteri in vari governi. Dottor Funiciello in uno scenario in cui sembra sempre più netto un divorzio tra politica e cultura, o tra competenza e politicità, come concilia queste sue due anime?
La sua domanda coglie in un certo senso lo spirito del nostro tempo, perché fino agli anni Novanta un quesito del genere non avrebbe avuto cittadinanza in un confronto di questo tipo. Sarebbe stato impensabile, infatti, pensare una attività tecnico-politica scissa da un orizzonte culturale di riferimento. Una scissione che per me, sul piano soggettivo, è ancora oggi impossibile. Anche perché non riuscirei in nessun modo a svolgere una attività istituzionale senza una connessione sentimentale e intellettuale con una visione culturale della realtà presente. Tuttavia, riconosco che in questi ultimi trent’anni c’è stata una terribile scissione tra cultura e politica. Dovuta in parte anche all’illusione di un superamento della politica e della cultura politica che sarebbe stato una conseguenza della fine della storia. Oggi la classe politico-istituzionale tendenzialmente opera svincolata da una visione strategico-culturale definita storicamente. Una caratteristica ben più evidente in Italia rispetto agli altri paesi… In questa ricostruzione, io mi sento, invece, un figlio della cultura novecentesca. Anche perché credo sia inscindibile quel legame tra la politica come professione e la politica come vocazione (per citare male Max Weber) che genera proprio dal rapporto tra cultura e politica.
-E quali sono state le esperienze e gli studi che hanno animato la sua vocazione (il suo “beruf”)?
Negli anni della mia formazione ho sempre cercato di far coincidere “ragion pura” e “ragion pratica”, la riflessione teoretica e filosofica con l’analisi politica. Puntando ad uno studio individuale capace di coniugare pensiero e azione; due dimensioni che si sono sviluppate in me simultaneamente. Mi sono laureato, infatti, in filosofia con una tesi in Estetica all’università di Napoli, studiando soprattutto materie non strettamente collegate al percorso istituzionale al quale poi sarei stato destinato, ma allo stesso tempo ho svolto una lunga attività di militanza nel mondo politico giovanile. Prima più a sinistra (ho avuto anche simpatie trockiste) e poi dopo la laurea nella sinistra di governo. Sono stato un giovanissimo segretario di sezione di Democratici di sinistra del mio paese, con un legame stretto con la componente più riformista che guardava a Giorgio Napolitano. Ho fatto molta politica di territorio, come si dice oggi un po’ enfaticamente. Ho, insomma, cercato di sviluppare contemporaneamente ed in maniera complementare queste due dimensioni, quella contemplativa e quella attiva. Anche se tra queste due strade non sempre c’è stato dialogo…
-Quali furono i suoi maestri in quella fase?
In realtà non ho avuto in quegli anni veri maestri politici (sarebbero arrivati più tardi), né un maestro nei miei studi universitari. Un aspetto che mi ha fatto molto soffrire perché allora ne sentivo davvero la necessità. Alla mia formazione scolastica e accademica si è quindi subito intrecciata, affiancata e sovrapposta una formazione da autodidatta. Una formazione mossa da una profonda curiosità, ma anche molto pasticciata e caotica nel suo sviluppo… Ad esempio, per me furono un luogo cruciale le bancarelle di Port’Alba a Napoli, dove si potevano acquistare a prezzi vantaggiosi libri di ogni genere. Per me, che non avevo grandi mezzi economici, quelle bancarelle furono una miniera di letture e di incontri con testi che sarebbero stati poi essenziali, quanto quelli che incontrai durante gli studi accademici (anche se in modo diverso ovviamente…). Ricordo infatti che durante un’estate di tanti anni fa comprai e lessi contemporaneamente due libri che apparentemente non c’entrano nulla l’uno con l’altro, ma che a tanti anni di distanza riconosco che furono decisivi nella mia formazione.
-Quali?
“I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia” di Eduard Bernstein e “La democrazia in America” di Alexis Tocqueville. Una lettura simultanea che oggi non consiglierei ad un giovane lettore, ma che per me allora fu fondamentale e definitiva.
-Come si sono conciliati nella sua formazione questi due testi apparentemente così diversi?
Si sono coniugati alla luce dalla loro comune appartenenza, pur su prospettive differenti, alla scuola del realismo politico, che è, infatti, la mia scuola di pensiero. Una scuola che iniziai a frequentare leggendo i grandi classici, Tucidide anzitutto, ma che soprattutto mi immerse nello studio dell’opera di Machiavelli e che poi si fortificò anche alla luce di due realisti come Tocqueville e Bernstein. Il realismo è stato certamente il vero collante della mia vocazione intellettuale e culturale con la professione politica e istituzionale. Una visione che mi ha portato ad approfondire l’economia, la sociologia, il diritto amministrativo, e che mi ha permesso di acquisire quelle competenze tecniche che sono alla base del mio percorso istituzionale. Da elaboratore di contenuti e speech writer a capo di gabinetto.
-A proposito del segretario fiorentino, nel suo “Il metodo Machiavelli” delinea una fenomenologia del ruolo del consigliere politico. Quali devono essere le vere caratteristiche del consigliere di un grande leader?
Per risponderle potrei citarle il politologo Louis Brownlow, ispiratore della più importante riforma dell’Executive Office della Casa Bianca, quella che ha dato alla West Wing i contorni e le funzioni che oggi grosso modo possiede. Nel suo omonimo rapporto – scritto ai tempi dell’amministrazione Roosevelt – Brownlow elencò le principali caratteristiche che deve avere un bravo consigliere; scriveva, infatti, che gli uomini del Presidente devono possedere tre qualità: alta competenza, grande tenuta fisica e passione per l’anonimato. Queste sono a mio avviso le caratteristiche che deve avere un vero uomo di staff, qualsiasi sia la sua attribuzione.
-Nel suo “Leader per forza” alla ricostruzione delle leadership che hanno cambiato la storia di alternano aneddoti che raccontano l’essenza del Potere e dei suoi protagonisti. Tra cui spicca quello degli orologi di Palazzo Chigi…
Si tratta di un aneddoto che riguarda la fase iniziale della mia attività di capo di gabinetto chigiano del governo Draghi. Erano i primi giorni del febbraio del 2021 e l’emergenza pandemica assorbiva interamente le nostre energie, oltre che il nostro tempo. A metà della prima settimana, al termine di una giornata piuttosto stancante, stavo lasciando lo studio del presidente Draghi dopo aver parlato con lui del contenuto di un articolo scientifico, che avrebbe potuto influenzare la campagna vaccinale. Con gli occhi ancora fissi sulla rivista, mi richiamò, fermandomi sull’uscio. Pensavo volesse dirmi altro in proposito. Sentendomi chiamare, mi ero voltato subito all’indietro ed ero fermo sull’ingresso che divide lo studio presidenziale dal salotto giallo (la stanza dove il premier italiano riceve i colleghi stranieri). Fu allora che mi fece una domanda spiazzante…
-Cosa le disse?
Mi chiese: “Lei ha notato che Palazzo Chigi è pieno di orologi?”. Ammetto che quella era l’ultima domanda che in quel momento mi sarei aspettato di ricevere, il che è la prova di quanto poco, allora, lo conoscessi. Esitai. Gli dissi: “Si, presidente, è una collezione di orologi francesi, credo settecenteschi, di grande valore collezionistico e…”. M’interruppe: “Si, va bene… ma sono tutti rotti”. Mi impietrì. Me lo disse guardandomi in quel modo in cui mi avrebbe guardato mille altre volte, tra il disappunto di non aver, io, afferrato immediatamente il nocciolo della questione e il divertissement per lo scambio dialettico, per il quale il presidente Draghi ha letteralmente un debole. “Eh…” mi limitai a dire. “Eh… – concluse lui – ripariamoli”.
-Che cosa rivela questo aneddoto?
Alcuni tratti tipici della leadership. In primo luogo, che i leader hanno un campo visivo più sviluppato di noi follower. La mostruosità della leadership comincia da qui: da questi occhi giganteschi e deformi, assai simili a quelli delle mosche nel rapporto col resto del cranio, con un campo visivo eccezionalmente esteso. Alla maniera di questi insetti, i leader sono in grado di percepire il tempo in modo rallentato e dilatato, scorgere dettagli e pericoli che noi follower nemmeno possiamo immaginare. È una dote certamente innata, ma che per maturare in talento, necessita di una lunga pratica. Nei giorni dell’insediamento al governo, il presidente Draghi riuscì a calarsi nel ruolo e ad ambientarsi a Palazzo, anche grazie a una capacità di osservazione addestrata negli anni di leadership che aveva alle spalle.
Un altro aspetto che emerge da questo episodio poi è che il potere esecutivo, ben più di quello giudiziario e di quello legislativo, è molto più attento al tempo, proprio perché a differenza di questi ultimi, ne ha una riserva drammaticamente ridotta. Il tempo è infatti il bene più prezioso della leadership proprio perché è la dote più impegnativa da gestire, organizzare e selezionare. Il tempo non basta mai. Ogni vero leader è braccato dal tempo e il suo principale obiettivo è saper decidere e scegliere senza essere sopraffatto dalle scadenze né paralizzato dagli imprevisti.
-Non pensa sia proprio però, a proposito degli orologi, il tempo la variabile che mette in difficoltà le leadership democratiche rispetto a quelle orientali?
Certamente. Nel nuovo secolo le leadership dell’Est sono riuscite a lasciare il loro segno con maggiore efficacia rispetto a quelle dell’Ovest. Ci riescono anche perché restano in carica un numero di anni sufficiente a lasciare traccia di sé. Che ottengano questo tempo per mezzo di metodi illiberali, propri di autocrazie e dittature, è una circostanza deplorevole, ma che non giustifica le debolezze della leadership occidentale. Avere tempo, certo, non basta, ma non averne rende praticamente impossibile combinare qualcosa di buono. Basti pensare alle differenze, almeno negli ultimi 15 anni, delle leadership in Gran Bretagna e in Turchia, o tra Stati Uniti e Cina, e tutto apparirà più evidente. Senza continuità imprimere il cambiamento è infatti molto più complesso e difficile.
-A distanza di due anni dalla fine del governo Draghi che bilancio tra da quella esperienza?
Il presidente Draghi ha lasciato Palazzo Chigi in una atmosfera di consenso generale nazionale, di tipo interclassista e interpartitica. Il governo Draghi si era presentato alle Camere come il governo della Repubblica e ha mantenuto fede a questo impegno assunto in Parlamento. Il bilancio primario di questa esperienza la dà, quindi, proprio questo giudizio positivo complessivo e trasversale che rileva dall’enorme consenso personale di cui il presidente ancora gode. Devo aggiungere però che un ulteriore elemento di valutazione è data dal fatto che il governo Draghi è stato (anche se il presidente nelle nostre conversazioni più recenti mi ha contestato questa definizione) “il governo delle crisi”. La crisi pandemica, anzitutto, e l’organizzazione della più estesa vaccinazione di massa della storia d’Italia. Quindi la crisi economica e la costruzione della strategia di ripresa attraverso il lancio del PNRR. Infine, la guerra e la crisi internazionale seguita all’invasione criminale dell’Ucraina voluta da Vladinir Putin. Il presidente Draghi ha lasciato una legacy assolutamente positiva rispetto a queste emergenze storiche, che ha saputo affrontare e governare con efficienza e competenza. Riportando l’Italia ad una credibilità europea all’interno degli equilibri comunitari culminata nel ruolo italiano nel viaggio in Ucraina con il cancelliere Scholz e il presidente Macron.
-Che tipo di leader è stato Draghi?
Draghi è uno statista, un costruttore di soluzioni politiche, abituato ad arrivare molto preparato al momento in cui il processo decisionale entra nel vivo e produce la scelta di governo. Pur non essendo un politico di professione, ha una vocazione decisamente politica nell’arte della costruzione delle policy più adatte ad affrontare, in un certo momento, un dato problema. Esercita questa vocazione senza narcisismi, generando influenze positive, preferendo giocare di sponda, senza velleitari protagonismi. In questo senso nel libro “Leader per forza” l’ho paragonato a Cavour. Ma potrebbe reggere anche il confronto con De Gasperi. In quanto costruttore di soluzioni politiche, è senz’altro un leader trasformatore.
-Cosa intende per leader trasformatore?
È un tipo di leadership capace di determinare evoluzioni trasformative della realtà, profonde al punto tali che non è più possibile successivamente tornare indietro. I trasformatori sono leader che producono un avanzamento della loro comunità, la conducono da un punto A a un punto B; per questo sono i leader, cioè le guide, più efficaci. Si distinguono dai capi trasformisti che invece non fanno altro che muoversi su se stessi, cambiare mille volte opinioni, al solo scopo di salvaguardare la personale rendita di potere. Il trasformatore in quel movimento di cui parlavo poc’anzi, mette in gioco tutto se stesso, anche la propria posizione di potere.
-Draghi può essere considerato un leader che ha ripreso un certo cavourismo internazionale? E quanto c’è bisogno di recuperare questa prassi nella nostra politica estera?
Tutti i veri leader italiani sono cavouriani per definizione. Draghi lo fu, per esempio, nella questione ucraina. Noi eravamo – e siamo – player internazionali meno forti di Germania e Francia, per mille ragioni evidenti. Draghi riuscì a muoversi con più agilità tra le megalomanie francesi e le incertezze tedesche. Giocando di sponda, portò tutta l’Europa ad accettare lo status dell’Ucraina di candidato membro dell’UE, scelta che inizialmente Parigi e Berlino non condividevano.
L’Italia di oggi e di domani è legata all’immagine del piccolo Piemonte cavouriano, che cerca di inserire la propria questione nazionale dentro il grande scacchiere internazionale. Roma è forte perché è più agile di altri, può sfruttare gli spazi stretti e giocare di sponda. Per riuscirci deve però far valere le proprie alleanze storiche. Cavour aveva fatto della piccolezza del Piemonte non un handicap, ma un’occasione di agilità politica, che gli permise di fare l’unità d’Italia non per mezzo di una prova di forza, ma giocando di sponda, attraverso trame di alleanze, iscrivendo in un certo ordine internazionale la vicenda italiana.
-In questa ottica auspica un ritorno ad una dimensione prosastica e non mitologica, più pragmatica e meno lirica del potere e del dibattito politico istituzionale?
Sicuramente. Ed anzi per tale scopo è cruciale l’esempio e la lezione di Giacomo Matteotti, a cui ho dedicato il mio ultimo libro “Tempesta”. Un uomo politico che fu appunto definito da Carlo Rosselli come “un eroe tutta prosa” e che si presenta oggi come un modello da imitare, più che come un mito da ammirare. Noi abbiamo, infatti, bisogno di concretezza, di un approccio più empirico e fattuale. Abbiamo bisogno di un ritorno ai contenuti, ad un nuovo “Risorgimento dei fatti”. E pure se amo molto la “poesia” e la “mitologia”, credo che sia necessario portare finalmente nel dibattito pubblico ragionevolezza, verificabilità, pragmatismo.
Leggendo i discorsi di Matteotti, che sono un capolavoro di efficacia retorica ed eloquenza politica, si nota però che la bellezza della forma cede sempre il suo primato alla sostanza del discorso e degli obiettivi di governo. Pure essendo stato, Matteotti, tutta la vita all’opposizione. Non c’è intervento parlamentare che non muova dai dati, dai conti, dai fatti, come punto di partenza per cogliere, analizzare e affrontare i problemi generali e profondi del Paese. Un primato dell’empiria che ha molto da insegnarci e che mi sembra estremamente attuale.
-Kissinger diceva che il nostro mondo è in grado di generare solo attivisti e tecnocrati. Quale potrebbe essere quindi il valore aggiunto della politica?
Questa distinzione che lei ha evocato è frutto di un fraintendimento di fondo nato negli anni Novanta. Ovvero con la nascita dell’idea che, con la fine della guerra fredda, la politica e la sua fallace creatività sarebbe diventata obsoleta. La democrazia aveva vinto e si trattava solo di applicare buoni schemi. Un’illusione che anche un leader come Bill Clinton aveva abbracciato pensando, per esempio, che con l’entrata della Cina nel WTO e l’irruzione di internet essa si sarebbe democratizzata. Un’idea che si è rivelata profondamente errata… Le società democratiche devono capire che è fondamentale investire e puntare sulla formazione della classe dirigente. Perché solo un’élite consapevole e concreta può indirizzare il cambiamento e trasformare le società verso un progresso comune. Da ciò deve nascere la consapevolezza che siamo in ritardo su questo compito e che non possiamo più perdere altro tempo nell’affrontare questa sfida.
-Secondo lei cos’è il potere?
Il potere è lo strumento principale della azione politica che trasforma la scienza del governo in una tecnica operativa. Esso è uno strumento, ma anche un ambiente. La politica difatti si muove in un contesto di poteri: i poteri economici, quelli sociali, i poteri militari, quelli culturali. Il potere, se vogliamo offrire una piena definizione funzionalistica, è quindi un contesto oltre che un mezzo. Ma se nelle aziende è più facile misurare e verificare i propri obiettivi, nell’ambito politico è tutto più complesso. Il potere, quindi, è ambiguo per definizione. Esso può istituire e abolire la schiavitù, può creare o risolvere ingiustizie, può assolvere e vendicare i crimini. Per tale ragione il potere è una creazione che ha una connotazione quasi diabolica.
-In esso si cela quindi una sorta di patto mefistofelico?
In parte sì, perché il potere e i suoi strumenti, per la loro natura di realizzare qualcosa ed anche il suo contrario, generano da un abisso della coscienza e dell’intelligenza che li rendono inquietanti e, perché no, “demoniaci”. O forse solo molto umani, troppo umani… Anche per tale ragione è fondamentale che il potere venga amministrato da persone adeguate, lucide e lungimiranti.
-Nelle pagine finali de “Il metodo Machiavelli” dice che ai tempi del governo Gentiloni nel suo ufficio aveva il poster della campagna elettorale di Lyndon Johnson. Perché proprio lui?
Si trattava di un poster che recava lo slogan “LBJ for the Usa” della campagna del 1964. Una figura a cui sono molto legato. Anche se Johnson è il presidente del Vietnam, e quello che ha fatto più errori in quello sciagurato conflitto, esso al tempo stesso è però anche il presidente che con il “Civil rights act” e il “Voting rights act” mise fine a quel sistema di discriminazioni che aveva creato una sorta di Apartheid negli Stati Uniti. LBJ è anche il presidente che ha inaugurato e avviato le più importanti e significative riforme sociali della storia statunitense con la Great Society. Inoltre, come me, lui era un uomo del sud, e a me piacciono gli uomini e le donne dei sud del mondo. Come il texano Lyndon Johnson, il georgiano Martin Luther King, il missouriano Harry Truman.
-A proposito di leader statunitensi una volta ha detto “Anche l’eccezionalità di Trump mi ha molto impressionato e continuo a pensare che siano molti i fili che legano la sua America a quella del suo predecessore”. Può spiegarsi meglio?
Io credo che l’isolazionismo di Trump sia in realtà la prosecuzione di una prassi, di una volontà politica, di una visione strategica che affonda le sue radici nell’amministrazione Obama. Nonostante sui temi dei diritti civili, sui servizi sociali, sulla sanità, sulle diverse radici culturali essi siano diversissimi, entrambi però hanno portato ad un disimpegno internazionale degli Stati Uniti del mondo. L’isolazionismo di Trump è la prosecuzione, con altri mezzi culturali, delle scelte isolazioniste e protezioniste che ha iniziato proprio Obama. Ed è sorprendente che sia stato un democratico a inaugurare nel nuovo secolo una nuova forma di desolante isolazionismo. Biden è ritornato su tante posizioni di Obama-Trump e le ha corrette.
-Perché in più occasioni ha definito la leadership di Angela Merkel irrisolta?
Perché ha lasciato la Germania, e l’Europa, in una condizione di estrema difficoltà e incertezza, a differenza di Helmut Kohl che non lasciò solo una Germania più forte di quella che aveva trovato, ma anche un’Europa più solida. Merkel è stata, infatti, la più importante leader dell’Occidente nella prima parte di secolo e non c’è dubbio che la Germania si sia rafforzata in questi anni. Ma con Kohl, che unifica la Germania e inaugura un periodo di forte espansione e miglioramento sociale, la crescita della Bundesrepublik coincide con una complessiva espansione democratica e diffusione dei valori democratici e con un rilancio del processo d’integrazione europeo. Con Merkel avviene il contrario.
Il simbolo dell’incompiutezza della leadership di Merkel è la sua politica di appeasement verso Putin e verso la sua ideologia panrussista. Lo schema di Merkel era concedere a Putin tutto quello che pretendeva di avere con la forza delle sue cattive ragioni, in cambio di risorse energetiche a buon mercato – possibilmente costruendo un nuovo gasdotto che scavalcasse completamente l’Europa. Contro ogni strategia europea di gestione del problema Putin. Il risultato di questa miopia di visione è purtroppo oggi sotto gli occhi di tutti.
-Cosa sta leggendo?
Il libro di un amico, “War Room” di Luigi de Gregorio; parallelamente sto leggendo “1960 LBJ vs JFK vs Nixon. The Epic campaign that forged three presidences” sulle campagne elettorali che hanno cambiato la storia americana negli anni 60 e che consiglio anche in vista delle elezioni presidenziali. E poi sto leggendo un romanzo bellissimo: “Ritorno in Puglia” di Marco Ferrante.