Dopo il successo, inaspettato, di Benzina, in quel lontanissimo 1998 – porco mondo, son già passati 23 anni! – il nome di Elena Stancanelli è diventato, nel piccolo e avvitato ombelico italico, una presenza costante: in libreria, sui giornali, ai Festival, al cinema. Insomma, difficile non imbattersi nella sua scrittura. Nella sua firma.
Quello che mancava, però, era una vera e propria escursione nel suo mondo, creativo e, soprattutto, personale. Ero a conoscenza della sua ritrosia a parlare, ad apparire, a raccontare qualcosa di sé, a tirar fuori ricordi, esperienze, dolori e, perché no?, sciocchezze dette e fatte.
Da diversi anni la seguivo con una certa curiosità; mi aveva colpito in modo particolare una fotografia – sarà stato il 2016, se non erro – in cui la si vedeva con le gambe distese su una sedia, fottendosene della forma ossequiosa e degli stupidi cerimoniali di cui la Società è piena. E mentre tutti puntavano l’indice contro questo gesto scostumato e arrogante, io, in realtà, lo trovavo assolutamente delizioso e provocatorio. Finalmente – mi sono detto – qualcuno in grado di manifestarsi senza maschere.
La foto, eloquente, simbolica, per nulla scontata, era assolutamente sintomatica. Quando l’ho chiamata, dopo una brevissima presentazione di rito, sono arrivato subito a quello che volevo: incontrarla e provare a capire chi fosse veramente questa anomala fiorentina dai capelli biondi e dal viso perennemente imbronciato.
La casa della Stanka era, ma non so dirvi il perché, come me l’aspettavo: bianca, luminosa, razionale, spartana. Nessuna voglia di barocco. Pochi orpelli, se non quelli necessari al buon vivere domestico. Dal suo balcone, si poteva dominare la bellissima Piazza Vittorio, rumorosa e caotica proprio come un suk arabo. La giornata era uggiosa, più inglese che levantina. Dalle finestre, distogliendo lo sguardo dal suo, si vedevano volare colorate foglie novembrine, come fossero preda di chissà quale tempesta.
Nella lunga chiacchierata, il suo umore alternava sorrisi luminosi a repentine oscurità. Ogni tanto, un bellissimo setter inglese, di nome Jo, voglioso di attenzioni, entrava in scena come un navigato attore di teatro. Si distendeva sul divano, e, porgendo il suo splendido musetto, aspettava che le mani della Stanka – ornate di anelli – lo accarezzassero. Starete anche parlando – si sarà detto Jo – ma io, di certo, non sono qui a fare la comparsa.
Quello che mi è parso nitido, provando a decifrare i suoi occhi, nascosti dietro una spessa montatura nera, è quanto Elena Stancanelli sia donna libera e difficile. Silenziosa quando vive e rumorosa quando scrive. Ciò che racconta spesso urta, dà fastidio, può non piacere, ma i suoi lettori sanno che in quella penna, intrisa d’inchiostro, c’è la sua rabbia, il suo coraggio, la sua libertà, le sue manie. Sono Elena, sono una spostata, e, per dirla con Pirandello, così è, se vi pare…
francesco.melchionda@tiscali.it
Elena Stancanelli, lei nasce a Firenze. Questa Confessione mi piacerebbe partisse dai suoi sogni; era una bambina sognante, fantasiosa?
Ero una bambina grassa, così grassa che la pediatra disse a mia madre che avrei dovuto mettermi a dieta. Mia madre, per fortuna, non le diede retta e mi mandò a fare ginnastica artistica. Non mi ricordo sognatrice né fantasiosa, ma placida e molto, molto bionda. Questo mi garantiva la benevolenza che si accorda ai bambini biondi. Ma i miei capelli, che tenevo lunghissimi, attiravano l’attenzione. Tutti volevano accarezzarli e pizzicare le mie guance paffute, due cose che detestavo profondamente. Ancora adesso se qualcuno mi accarezza i capelli mi irrigidisco. O se qualcuno vuole pizzicarmi le guance, ma questo avviene più raramente.
Ha accennato a sua madre: che rapporto aveva con lei?
Ho una madre, perché è viva. Ho un rapporto con lei, diciamo “virile”. Mettiamola così: mia madre non ha mai avuto uno spiccato senso materno. Dote che io ho ereditato. Ma non vale la pena parlarne
Ha difficoltà a parlarne male solo perché viva?
Mi imbarazzano le persone che dopo una certa età continuano a dare la colpa dei loro difetti ai genitori. Mi sembra un po’ ridicolo.
Chi erano i suoi genitori? Erano dei letterati?
Mio padre è un avvocato siciliano, molto austero, silenzioso. Lasciò Palermo per studiare giurisprudenza a Firenze. Era, tra le altre cose, allievo di Giorgio La Pira, storico sindaco di Firenze nonché professore di Diritto Romano. L’accoglienza che Firenze gli riservò – così mi raccontò – fu vagamente ostile: pur essendo benestante e colto, i fiorentini lo trattarono come noi, oggi, trattiamo gli immigrati africani. Parlavano un’altra lingua, vestivano in modo diverso, lo prendevano in giro. Erano gli anni Sessanta, non molto tempo fa. Mia madre, invece, figlia di una donna molto eccentrica e bohémienne e un insegnante elementare, non hai mai lavorato.
Cosa ha preso dai suoi genitori?
Da mio padre, l’amore per la bellezza in senso lato e la difficoltà a mediare, da mia madre la capacità e la forza di stare tanto tempo sola.
Ha scritto un libro: Firenze da Piccola; ecco, com’era la sua città? Già molto provinciale?
Firenze da Piccola è la storia di mio padre, emigrato di lusso, che lascia l’isola per il Continente, come si diceva all’epoca. E della Firenze che io ho vissuto fino ai miei vent’anni circa: una città cosmopolita, strepitosa. La Firenze di Un week end postmoderno di Tondelli, di Pitti e la Moda, dei Litfiba e dei Diaframma, dei club, delle fanzine. Una città molto viva, internazionale, queer. Ma dopo gli anni Ottanta si richiuse, tornando al suo provincialismo. Firenze soffre la sua bellezza e la sua intangibilità per questo è difficile da raccontare. Sono anni che non produce un bel romanzo, e lo trovo veramente incredibile.
Ci torna ancora volentieri?
Capita che io vada a Firenze per pranzo, per poi tornarmene a Roma la sera. I miei amici, ormai, sono tutti nella Capitale, e i miei genitori, dopo qualche ora, si stufano della mia presenza.
Non vorrebbe morire nella sua città?
In realtà non vorrei proprio morire.
Le peserebbe morire?
Sì, molto.
Perché?
Perché penso che le cose migliori debbano ancora arrivare.
È un’illusione, la sua. Lo sa?
Certo, ma che differenza fa? Ho sempre vissuto come se avessi trent’anni, anche prima di compierli. Anzi, mi definirei proprio così: una tipa di trent’anni.
Chi era, in quegli anni, Elena Stancanelli? Irrequieta? Solitaria? Sensuale?
Ero senz’altro irrequieta, sensuale, abbastanza bella. Facevo teatro con altri sciamannati come me, e, quando uscivo o andavo in bicicletta, nonostante il freddo, ero sempre mezza nuda. E scrivevo in maniera ossessiva lettere ad amici. Ecco: gli amici sono stati la mia vera famiglia.
A che età ebbe il suo primo, vero rapporto sessuale?
A quindici anni, direi.
Le piacque? Se lo ricorda ancora?
Certo che me lo ricordo.
Fu scioccante?
No, per niente. Fu, come spesso accade, impacciato e un po’ doloroso.
Quanto è stata influente Firenze nella sua formazione?
Ogni tanto ci penso, e, prima o poi, ne scriverò. Se sei fiorentino, per esempio, sei geneticamente anti-retorico. È proprio una cosa che abbiamo nel Dna. E poi c’è questa confidenza col bello e la vergogna verso l’ignoranza. Una delle prime cose che mi colpirono, quando sono venuta a Roma, è che la gente non prova imbarazzo per l’ignoranza.
Ad un certo punto, però, lascia la sua città e raggiunge Roma, iscrivendosi, se non erro, all’Accademia di Arte Drammatica. Lo fa per scappare dalla sua famiglia, da una città che le sta ormai stretta, o per frustrazione?
Lo faccio un po’ per caso e un po’ su pressione di una mia amica. Dopo qualche resistenza – l’Accademia agli occhi dei miei vent’anni rappresentava il male, l’arte frivola e borghese contro cui ci contrapponevamo noi, nipotini di Eugenio Barba, Grotowski, Kantor… – decido di fare il provino, e mi prendono. La verità è che volevo andare via da Firenze e sognavo di vivere a Roma. A vent’anni per me Roma era come New York. Ero stregata dall’accento romano – ascoltavo le canzoni di De Gregori e mi incantavo – e dall’idea di una città che mi lasciasse vivere in pace. Firenze è piccola, e, quindi, in un certo senso esercita un controllo sulla tua vita. Sognavo Roma, la capitale dello sti cazzi.
Quale fu l’impatto nella Capitale?
I primi tre anni vissi poco o niente la città. Ero totalmente immersa nella vita che si faceva in Accademia. Dalla mattina alla sera eravamo in aula e, una volta usciti di lì, ci fiondavamo in qualche teatro. Vivevamo in poche case ammassati l’uno sull’altro, una sorta di grande comune. Pur nella sua durezza – si studiava tanto – mi divertii tantissimo.
Come campava? La mantenevano ancora i suoi genitori?
Mi campava la mia famiglia. Se non avessi avuto il loro sostegno, non avrei fatto quello che, poi, sono riuscita fare.
Questa casa dove vive è frutto, quindi, del sacrificio dei suoi genitori?
Assolutamente sì.
Che ricordi ha degli anni in Accademia? Non la trovava inutile, noiosa? Non pensa che la strada insegni molto di più di un’aula…?
Si sbaglia! Io credo fortemente nell’insegnamento. L’Accademia mi ha insegnato la disciplina, la disciplina del corpo, a cantare, a usare la voce, a stare tra le persone, e a camminare. Chi dice che le scuole di teatro non servono, non le conosce. Aver fatto l’Accademia è stato, inoltre, anche un apprendistato creativo alla scrittura.
Si è mai sentita veramente accolta a Roma?
Sì, tantissimo. Passati i primi tre anni in cui eravamo veramente reclusi, Roma, pur essendo mignotta e lurida, mi ha abbracciata. Chiunque tu sia, questa città non ti respinge e non ti chiede niente.
Non ne sono così convinto… Chi è stato il suo nume tutelare? Chi è che, insomma, le ha spalancato le porte del bel mondo?
Eravamo quasi alla fine dei nostri studi accademici, e, con alcuni amici dell’epoca, decidiamo di fare uno spettacolo teatrale, con la regia di Davide Iodice. Portiamo in scena il libro di Marco Lodoli, Grande Circo Invalido. Bene: contattiamo Lodoli, dicendogli che abbiamo intenzione di rappresentare un suo libro. Marco si mostra subito entusiasta; decide di passare del tempo con noi, era una pigra estate romana, ci segue, ci consiglia. Insomma: un gran punto di riferimento per noi. Alla fine dello spettacolo, forse per via del mio impaccio come attrice (ero imbranatissima a correre, e nello spettacolo dovevo sempre correre), Marco mi fa: ma sei sicura che vuoi veramente fare l’attrice? Secondo me sei una scrittrice. Scrivo subito un racconto, glielo faccio leggere, e lui mi dice: adesso scrivi un romanzo. E ho scritto Benzina. Marco è stata la persona che mi ha dato il coraggio necessario per fare quello che volevo fare davvero.
Di solito la scrittura, per come la vedo io, nasce da un bisogno, spesso materiale. Balzac e Dostoevskij scrivevamo capolavori perché inseguiti dai creditori. La sua, di scrittura, da dove spunta? Da quale esigenza?
Beh, se per questo, ci sono scrittori che hanno scritto capolavori – Flaubert, Proust, tanto per fare degli esempi – ed erano ricchissimi. Credo che scrivere sia una specie di effetto collaterale della mia inattitudine all’esistenza. Sono una persona mediamente intelligente, ma non ho quel gene che ti consente di fare le scelte giuste nella vita. Combino solo pasticci, mi faccio detestare, non so stare semplicemente nella vita. La scrittura, invece, è un campo nel quale riesco a mettere ordine, a dominare il caos. Ecco: la scrittura è uno spazio nel quale non mi sento fregata dalle regole degli altri.
Quali sono le regole che subisce? Chi è che la vuole fregare?
È come se l’esistenza avesse delle tappe e io le avessi sbagliate tutte. Sa, come le gare dei cani che devono saltare gli ostacoli e correre nei tubi. Io sugli ostacoli sono inciampata sempre.
Per chi scrive Elena Stancanelli? Se l’è mai posta questa domanda?
Scrivo per insegnare l’indulgenza. A chi mi legge vorrei sempre dire sii paziente con la tua inettitudine, che è la stessa mia e quella di tutti. Non esistono quelli bravi, fidati.
Nel 1998 scrive ed esordisce con Benzina, e fa il botto. Si è sentita subito una scrittrice affermata o, piuttosto, un caso editoriale semplicemente fortunato?
Mi sono sempre sentita una disperata, prima dopo, sempre. Né immaginavo che qualcuno mi avrebbe pubblicato. C’è stato solo un momento in cui ho sentito che avevo fatto qualcosa di buono, anche più del giudizio dell’Einaudi – la casa editrice che poi pubblicò il libro: quando Emma Dante, mia compagna di Accademia, amica coinquilina…, che per prima lesse il manoscritto, mi disse: quello che hai scritto è molto bello. Ecco. In quel momento ho pensato che potevo fare questo mestiere. E ho sbagliato.
Perché ha sbagliato?
Ho sbagliato perché ho scritto subito un secondo libro, Le attrici, che non ha piaciuto a nessuno. E forse avevano ragione. Era il libro di una che pensava di poter fare la scrittrice, che è davvero un punto di vista scemo. Con questi due libri, ho costruito il ring esistenziale dentro la quale vivo da sempre. Ci riesco/non ci riesco.
Come nacque Benzina? Ce lo racconti…
Nasce da un distributore di benzina, e dal rapporto complicato con mia madre.
Si torna sempre alle origini, Elena…
Le famiglie servono a qualcosa!
Cosa ha rappresentato, per lei, l’amicizia con Emma Dante?
Tanto, tantissimo. Mi ha insegnato a essere selvaggia. Io arrivavo da Firenze, ero una borghese un po’ rigidina. Lei, siciliana, forte, intelligente mi ha insegnato a usare il corpo per pensare e a non avere paura.
Quando si mette davanti al computer, si sente più scrittrice, artista o, molto più semplicemente, una che scrive storie, a volte belle, decenti, altre noiose?
Mi sento un cucciolo di cane che cerca affetto.
Ha mai desiderato che alcune delle sue pagine si trasformassero in vita vera? Se sì, cosa?
La sua domanda un po’ mi spiazza. Diciamo che tutto quello che scrivo è già vita vera. La scrittura è l’unica metafisica alla quale sono disposto a credere. I libri sono una specie di stringa di spazio e tempo che si muove parallela alla mia esistenza. Sopra e sotto, io sono l’hamburgher di questo bizzarro panino. Quello che accade lì è vero e reale come quello che accade nei miei giorni.
Qual è il libro più brutto che ha scritto in tutti questi anni?
Probabilmente Le attrici, come le dicevo. Il libro attraverso il quale ho capito che sapere scrivere non significa niente. Probabilmente perché l’ho scritto troppo presto. La giusta prossemica, come più volte mi ha detto il mio amico Emanuele Trevi, è uno dei segreti per scrivere un buon libro. Se lo scrivi troppo presto o troppo tardi non funziona.
Era ancora ubriaca del successo di Benzina?
Avrei dovuto aspettare: i tempi non erano ancora maturi. Ma come tutti i libri sfortunati, ci sono lettori che lo considerano un capolavoro.
Perché considera la scrittura un mestiere, e non un’arte?
Perché tra le due cose non c’è alcuna differenza
Le capita di rosicare dinanzi ad un successo letterario altrui, in primis di un amico? Dica la verità, Elena!
Io non rosico, ma vorrei essere tutti. Vorrei essere giovane, ricca, avere successo, scrivere un capolavoro, vincere il Nobel, l’Oscar, essere amata, amare… vorrei tutto!
Che rapporto ha con i lettori?
Di fortissimo imbarazzo, quasi mi vergogno. Quando mi fanno i complimenti abbasso la testa. Ringrazio e cerco di scappare.
Quanto ha dovuto trafficare, adulare, conformarsi, per entrare nelle grazie degli editori?
Zero. Sono stata fortunata. Benzina, tanto per citare il mio esordio letterario, l’ho mandato, con il sostegno di Lodoli, a Einaudi, gli è piaciuto e l’hanno pubblicato.
Guadagna con i libri?
Non tantissimo, però si guadagna con quello che c’è intorno: i film e le collaborazioni con i giornali…
Nel leggere La Femmina Nuda, ho come avuto la sensazione, direi netta, che in quelle pagine ci sia tanto di autobiografico. Mi sbaglio?
È una domanda molto strana. I libri passano sempre attraverso i corpi degli scrittori.
Pensa che la sua scrittura eserciti un ascendente sugli uomini?
No, assolutamente. Mi piacerebbe, però, accadesse. Il potere seduttivo delle donne in quanto scrittrici, è zero, al contrario degli uomini. Ho amici scrittori, anche non necessariamente avvenenti, che hanno le fans sotto il palco. A me non è mai successo.
Barbara Alberti, una volta, mi ha detto che, dinanzi alla pagina bianca, non si dispera. Fa altro, tipo lavare i piatti, fare le pulizie… Lei ha la frustrazione della pagina bianca?
Per niente. Se ho la pagina bianca davanti agli occhi ci scrivo sopra delle cose a caso e poi le cestino. Sono un’ossessiva, e la considero la mia più grande dote
Come mai, nel corso di questi anni, ha cambiato diversi editori? Insoddisfazione, o non la volevano più?
Sostanzialmente, sono andata via da Einaudi. Altri miei libri, pubblicati da diverse case editrici, mi erano stati chiesti, o erano progetti particolari. Sono andata via da Einaudi perché non mi trovavo più bene. Le case editrici sono un po’ come i matrimoni: dopo un po’ il legame si affievolisce, fino a spegnersi. Gli scrittori poi, essendo sempre un po’ inquieti, pensano sempre di non essere considerati dai propri editori. Lo pensavo anche io.
Il passaggio a La Nave di Teseo è stato un cambio cruciale nella sua vita; coincide con uno dei momenti più difficili della sua vita: giusto?
Devo molto Elisabetta Sgarbi che in quei giorni andava via da Bompiani e fondava la sua casa editrice. E mi volle con sé. Lesse il mio libro e se ne innamorò. Lo ha coccolato, seguito e ha deciso di portarlo allo Strega. Comunque sì, ha ragione: non stavo vivendo un periodo semplice, tutt’altro. Stavo chiudendo l’ennesima relazione d’amore. Due anni di dolore, uno strazio infinito…
È stata più vittima o carnefice in amore?
Più carnefice. Ho avuto, come gran parte delle donne, anni in cui avevo i superpoteri. Quando quel dono ti abbandona, quando non accade più che entri in una stanza e gli uomini si girano a guardarti, devi farci i conti. E lì rischi di diventare vittima, soprattutto della tua nuova debolezza.
Da quanti anni è in analisi, Elena?
Mai fatto analisi in vita mia.
E come si è risollevata?
Ho attraversato e affrontato il dolore, senza risparmiarmi.
Tipo?
Solito. Mi ubriacavo, fumavo, non mangiavo, non tornavo la sera a casa perché non volevo stare sola, dormivo dove capitava, chiedevo aiuto agli amici…
Ha fatto uso di droghe?
Poco. Non mi appassionano.
La sua intemerata contro il ragazzino di una periferia romana, incapace di esprimersi in un italiano decente, è stata vista come una manifestazione di disprezzo intellettuale verso il popolo. Ripensandoci, lo rifarebbe?
Certo che lo rifarei! Probabilmente, non userei un tweet, perché la brevità del mezzo ha generato confusione nelle persone… Credo ancora profondamente che l’incapacità ad usare la parola in maniera decente faccia di te uno schiavo. Se una persona non sa parlare, rimarrà sempre uno schiavo. Alcuni possono esprimersi attraverso il rap, la danza, o lo sport… ma gli altri? Non me ne frega un cazzo se qualcuno non ha saputo interpretare al meglio quello che era il mio pensiero.
Pensa di far parte di un’élite?
No, non penso.
Elena, lei scrive libri, sui giornali, financo sceneggiature… Cosa lei piace di più? È una tuttologa della scrittura?
Mi piace imparare, sperimentare. Ho grande stima e ammirazione per Emma Dante e Giorgio Vasta, con cui ho scritto due film, non mi considero una sceneggiatrice ma una privilegiata.
Cosa le viene meglio?
Non sono io a doverlo dire. Ma dal momento che ho ancora trent’anni ho tempo per fare la cosa migliore della mia vita, no?
Quanto è importante, per lei, il denaro?
Molto, ma non tanto per soddisfare capricci particolari, quanto per essere indipendente da tutto e da tutti. È uno dei primi insegnamenti che ho appreso dalla mia famiglia.
Ama più il lusso o la lussuria?
Bella domanda: diciamo entrambi!
Le capita spesso, rileggendosi, di non piacersi come scrittrice?
Quando consegno un libro, vuol dire che sono giunta al livello più alto al quale posso arrivare. E questo mi deve bastare.
Dopo aver terminato un libro, le è mai capitata di dirsi: e ora, cosa invento? Cosa scriverò?
Al contrario: è quando scrivo un libro che devo tenere a cuccia gli altri che ho già in mente di scrivere.
Quali autori le hanno indicato la via da seguire?
Vede, a me piacciono le spostate…
Forse perché un po’ si riconosce in loro…
Eh si! Anna Maria Ortese, Cristina Campo, i Diari e le Lettere di Marina Cvetaeva… Sono attratta dalle scrittrici scombinate. Lo stesso vale con la musica, da Bjork in poi. Sia, per esempio, quella che andava in giro con la parrucca bianca che le copriva il volto. Adesso sono fissata con una che si chiama Arca, è venezuelana. Tornando alla letteratura, diciamo almeno i russi, Cime tempestose, il libro della mia giovinezza, ma anche il Novecento italiano, Gadda, Parise, Morante… che domanda difficile! Amo molto la letteratura parallela, quella di non-fiction. In particolare gli epistolari. Ne cito due, che ho avuto sulla scrivania per anni: le Lettere di Flaubert e I fuorilegge della parola l’epistolario tra Henry Miller e Lawrence Durrell. Diciamo che le donne spostate, però, hanno lasciato un segno indelebile nella mia vita.
Le sarebbe piaciuto, in quanto candidata, vincere il premio Strega? O, alla maniera di Mughini, anche lei disprezza i premi, frutto, spesso, di traffici che poco hanno a che fare con la qualità dei libri?
Come le ho già detto io vorrei vincere tutto, anche la Coppa Davis.
Se potesse scegliere, in quale epoca vivrebbe?
Questa, assolutamente, proprio perché ho bisogno di vivere in un periodo in cui da donna nessuno mi rompe i coglioni.
Si sente veramente libera?
Sì, senza dubbio.
Quanto è stata schiava, nei suoi rapporti sentimentali, degli uomini?
No, schiava, mai. Ma nell’ultima storia mi sono messa in gabbia da sola, perché la persona con cui stavo era un tossico di cocaina. Per tentare di venirne a capo usavo gli strumenti di una persona lucida, razionale. Ma i suoi comportamenti, ovviamente, sfuggivano alla mia comprensione. E più lui era sfuggente, e più io cercavo di razionalizzare quello che stava accadendo. Ero dentro una gabbia governata dall’irrazionale… Sono andata fuori di testa per un tempo molto lungo perché non ero e non sono abituata alla diffidenza. Io credo a tutto quello che mi viene detto, anche per pigrizia. E lui diceva solo bugie.
Cosa vi legava? Il sesso?
Me lo sono chiesto molte volte anche io. Era un meccanico, dislessico e quasi analfabeta, ma molto bello. In una relazione del genere, ho subito proiettato qualcosa di molto letterario: io scrittrice e lui che non sapeva leggere. Era diventato, ai miei occhi, una sorta di uomo ideale, di terreno vergine, e, per una persona come me, abituata ad usare la parola, era il massimo disponibile sul mercato. E, passati i primi tre anni, belli, intensi, anni in cui stavamo sempre insieme, gli ultimi due sono stati un inferno. A pensarci ora, il fatto che ne sia uscita viva, è già un grande risultato.
Anche lei è attratta dagli uomini molto più giovani?
Forse per un capriccio; ma in generale preferisco quelli della mia generazione, o giù di lì…
Ha mai usato gli uomini per trarne mero piacere?
Certo!
Si sente una donna bella?
Ora che la bellezza sta alle mie spalle, mi dico: ma che scema, forse ero bella!
Ha detto di essere barocca nella vita sentimentale: cosa voleva dire?
Che sono pasticciona, accumulo, aggiungo e poi mi cade tutto dalle mani.
Il sesso quindi ha giocato un ruolo importante?
Molto, sì. Il sesso non mi ha fatto mai paura e mi ci sono molto divertita.
Quanto è stata infedele?
Molto.
Si è mai pentita?
Mai.
Che rapporto ha con il suo corpo? Si piace?
Penso sempre la stessa cosa: vorrei avere un bellissimo sorriso. Una di quelle bocche grandi, con le labbra carnose e i denti bianchi, lucidi.
Cosa pensi di aver suscitato negli uomini: più passione o tenerezza?
Tenerezza non credo. Passione forse sì. Ma sa che c’è? Io sono in grado di riconoscere negli altri solo sentimenti che conosco.
La dittatura del pene l’hai subita anche tu?
Che espressione orribile! Non capisco neanche cosa significhi. Mi chiede se mi sono resa conto di vivere in un mondo in cui le leve del potere sono tutte in mano agli uomini? Beh, sarei un’idiota se non lo avessi capito.
Ha influito nella sua carriera?
Pochissimo. Io non ho una carriera, non ho mai ambito a ruoli di comando. Cosa avrebbe potuto farmi questa dittatura? Strapparmi i fogli sotto la penna? Rompermi il computer in testa? Di tutto il resto mi importa poco.
E gli uomini, nella loro schiavitù, che è l’erezione, ti hanno mai fatto pena?
Beh, la ricompensa per questa “schiavitù”, è stata il governo del mondo. Mi pare che ci possano stare, no?
Tra i tanti difetti che ha, quali sono quelli peggiori, più irritanti?
Umorale, arrogante, violenta, poco cedevole, dura. Meglio non continuare…
Quante amicizie, per il suo carattere, ha mandato in frantumi?
Una sola. Pochi mesi fa. Almeno: questa persona, una donna, dice che è stato il mio carattere. Ma vede, io ho un brutto carattere ma sono leale e non mollo mai. Per me un’amica che ti dice non ti voglio più sentire e tu non capisci neanche perché, commette un peccato gravissimo. L’unico che non posso perdonare. Come lasciare qualcuno a dissanguarsi sulla strada.
Una volta ha scritto di essere una donna molto solitaria. Come mai? Non sopporta sé stessa, forse?
Non ho molta simpatia per me, è vero. Ma detesto quelli che ti spiegano che dovresti volerti bene. Perché? Non è meglio se voglio bene a qualcun altro? Comunque sì, sono solitaria, è una condizione, a volte è facile e a volte no. L’unica cosa che non ho mai imparato a fare da sola è mangiare al ristorante.
Ricorda il suo più grande rimpianto?
Non ne ho, mi creda. Ho fatto tutto quello che desideravo.
Le sarebbe piaciuto avere dei figli?
No, per niente. Non ne avevo voglia.
Osservandola da vicino, in questo tempo trascorso insieme, ho scorto, nei suoi occhi, un profondo velo di tristezza. Ha mai conosciuto un barlume di felicità o serenità?
Certo! Ma non sono una persona felice, questo no.
Qual è il più grande specchio rotto della sua vita che si è lasciata alle spalle?
La morte della mia più cara amica. Avevamo quindici anni, e in pochi mesi un tumore l’ha uccisa. Credo che lì sia cambiato tutto. Non bisognerebbe conoscere la morte così da vicino e così presto.