La figura di Matteotti è una delle figure più affascinanti e fraintese di quelle che hanno composto il panorama dell’antifascismo italiano. Su di lui, infatti, grava la confusione tra mito ed esempio, martirio e vita, militanza e testimonianza. Due estremi che sembrano alternarsi nel nostro dibattito pubblico e storico in maniera troppo (capziosamente) apologetica e troppo (selettivamente) evocata. Una mancanza che emerge soprattutto nella ricostruzione che ne fa una certa tradizione storiografica, che più che guardare alla sua azione politica ha cercato di riscrivere il significato della sua morte dimenticando molti aspetti della sua vita. Oscillando tra oblio e trasfigurazione.
Certamente Matteotti fu vittima di una morte barbara, che ha mostrato la violenza e l’illegalità del fascismo mussoliniano già nei suoi primi momenti, ma la sua parabola non si esaurisce in quel cupo destino. Un esito finale che è certamente un monito attualissimo di fronte all’emergere dei totalitarismi e alle loro azioni criminali. Ma allo stesso tempo la vita del deputato socialista non è meno densa di “lezioni” rispetto alla sua morte. Contenendo aspetti apparentemente meno evidenti, però non per questo meno significativi. È opportuno, quindi, guardare ad un altro volto di Giacomo Matteotti, detto Tempesta, meno indagato e meno affrontato, ovvero la sua attività di politico pionieristico, riformatore, europeo e moderno che si fece alfiere di una compiuta e concreta visione ed azione riformista troppo spesso sminuita o fraintesa dalla vulgata comunista, gobettiana e clericale. Un altro Matteotti: non mitico, non lirico, non stereotipato, e proprio per questo veramente esemplare e necessario perché concreto, prosaico e vitale. Un Matteotti inascoltato e dimenticato che è stato però straordinariamente distillato da un civil servant e intellettuale come Antonio Funiciello nel suo “Tempesta. La vita (e la non morte) di Giacomo Matteotti” (Rizzoli).
Un profilo in cui l’ex capo di gabinetto del presidente Draghi regala una interpretazione riformista e originale dello statista veneto che alla vigilia del centenario dalla morte (e dunque del celebre discorso del bivacco di manipoli) pone argomentazioni e interrogativi che andrebbero colti per conoscere veramente la vita di uno dei dimenticati protagonisti del riformismo italiano. Una vita non facile, ma che ci dà lo spaccato di un’Italia, divisa e ricca di asimmetrie. Matteotti crebbe, infatti, in un clima di miseria e difficoltà sociale proveniente da quel Polesine, Sud minore del Nord industriale, composto da “tane e topaie” dove “si piange la vacca morta e ci si rassegna per la moglie perduta”. Figlio di una famiglia trentina trasferitasi a Fratta nel Polesine, crebbe bevendo il buon latte della migliore tradizione socialista riformista (specie tramite l’esempio del suo mentore-fratello Matteo), che vedeva nell’istruzione, nel lavoro e nella cultura l’unico strumento per emancipare le masse popolari. Esponente di una area gradualista ed antibolscevica Matteotti per tutta la sua vita fu una personalità scomoda, tanto osteggiata dal mondo fascista, con gli esiti che conosciamo, tanto invisa ad una sinistra pesante osservatrice del comunismo sovietico (e non) verso cui è sempre stata antagonista, come ci ricordano i sprezzanti giudizi su di lui di Antonio Gramsci anche a ridosso della sua morte.
Astro nascente del socialismo italiano, nella sua traiettoria politica troviamo il meglio di quella tradizione politica di minoranza che incarnò un antifascismo democratico, legalitario e operativo, che tentò di opporsi al fascismo senza seguire le seduzioni di un totalitarismo non certo migliore o una vaga retorica priva di concrete proposte di rinnovamento. Proponendo una scelta di laicità, libertà e democrazia che gli portarono l’odio dei fascisti, dei comunisti e di certa stampa cattolica che lo attaccava come figlio di un usuraio.
Un oppositore intelligente e irriducibile che vide prima di altri la natura violenta e l’intenzione totalitaria del fascismo, capendo che quella mussoliniana non sarebbe stata una parentesi, ma che sarebbe diventata la lunga equazione di un destino fallimentare e roboante. Nel suo libro più significativo -“Un anno di dominazione fascista”- Matteotti dimostra, del resto, in modo esemplare una determinazione feroce e lucida nel denunciare, in modo tanto puntiglioso quanto coraggioso, le violenze fasciste che si stavano intensificando e l’efferatezza predatoria mussoliniani nei confronti della cosa e della finanza pubblica. Con una attenzione alla politica dei contenuti che lo inserisce in quel filone che incarna il meglio di una certa cultura laica (pensiamo a Amendola, La Malfa e Spadolini) fatta di problemismo e concretismo.
La sua accusa al PNF è fondata, infatti, sui contenuti, su uno studio matto e disperato, su un impegno rigoroso e concreto. Tanto che alcuni compagni di partito diranno che «passava ore e ore nella biblioteca della Camera a sfogliare libri, relazioni, statistiche, da cui attingeva i dati che gli occorrevano per lottare con la parola e con la penna, badando a restare sempre fondato sulle cose». Un ritratto che le pagine del libro di Funiciello rafforzano e corroborano donando al lettore il profilo di un Matteotti che non fu lirico arcangelo di una causa bella e apodittica, ma (seguendo la definizione di Carlo Rosselli) di «un eroe tutto prosa». Un eroe, cioè, che mise al di sopra di ogni altra cosa il pensiero pratico, lo studio concreto della realtà, dei numeri e dei documenti che la descrivevano. Delineando un approccio antidogmatico e antidottrinario, realista e concreto che però non scisse mai il legame tra politica e cultura, tra contenuti e azione politica.
Distante da ogni forma di massimalismo e di astrattezza, convinto della necessità di un lavoro di organizzazione sociale che partisse dal basso, Giacomo Matteotti era un riformista concreto, che credeva in un graduale e progressivo allargamento della cittadinanza politica e sociale e per questo lavorava con un rigore inflessibile, senza pause e senza compiacimenti. Oltre le demagogie, i particolarismi e i totalitarismi che tanto infiammavano l’Italia mutilata dalla guerra, vedeva invece un orizzonte nella concretezza, nel pragmatismo, nei cambiamenti dal basso come primo motore di una vera forza riformatrice.
In quell’epoca infiammata dalla violenza rossa e nera Matteotti, infatti, fu un antibolscevico che non credette nell’illusione della rivoluzione e che invece lavorò perché vi fossero più scuole, più case, più ospedali per alleviare dolore e povertà del proletariato. Mantenne salda la sua fede nella democrazia del Parlamento insieme ai Turati e ai Treves, mostrandosi come un vero e proprio eretico del socialismo italiano di allora (sostanzialmente massimalista), oltre che come un riformista inviso a destra e a sinistra. E forse in questo il suo itinerario politico riassume il destino di un certo riformismo italiano schiacciato dagli estremi e da vaghi e fatali sogni palingenetici. Un carattere imperdonabile che spiega perché egli non trovasse, a lungo, cittadinanza in nessuno dei grandi pantheon, dei grandi sinassari della cultura politica italiana, se non sostanzialmente in maniera fraintesa ed ipocrita (anche se questo centenario sembra mostrare una apertura e un riconoscimento verso la sua figura che arriva sia da destra che da sinistra). E forse, leggendo il “Tempesta” di Funiciello, capiamo anche le ragioni meschine di questo oblio:
“Detesta demagoghi e populisti, esecra camaleonti e voltagabbana (…), mentre ama tutti quelli che, per dirla con Viktor Šklovskij, tutti i giorni si impegnano a scrivere la loro personale biografia, più che a fare la storia”. Un ritratto rivelatore sia della natura concreta e realista del suo antifascismo che del suo anticomunismo, tanto da farne, per dirla con Massimo Teodori, un vero ‘antitotalitario d’Italia’”.
Matteotti fu, infatti, anticomunista proprio perché riformista e pro-democrazia. La stessa fragile, controversa e embrionale democrazia che i comunisti minacciavano e che il mussolinismo (aiutato da una certa miopia tattica di pur grandi e preparati liberali e conservatori) finì per seppellire. Tanto che fu tra i pochi a vedere nella legge Acerbo il suicidio della classe dirigente liberale e del parlamentarismo. In questo senso nelle pagine del saggio funicielliano troviamo la più lucida descrizione del vero e proprio selfkilling dell’Italia liberale compiuto dai suoi protagonisti, evidenziando l’errore compiuto da Orlando, Giolitti e Salandra, oltre che dagli altri uomini della vecchia Italia, nel ratificare quella riforma. In questo quadro Matteotti oltre che tatticamente guardingo verso le derive di quella sponda politica si rivela strategicamente legato ad un sentiero più britannico che sovietico, guardando con attenzione all’ascesa dei laburisti britannici di Ramsay MacDonald.
In questo senso è interessante notare come Funiciello mostri come ben prima delle divisioni di Yalta, Matteotti e una parte (estremamente limitata) del socialismo italiano abbiano cercato di realizzare una sorta prototipo di svolta alla Bad Godesberg ante litteram con il loro PSU. Un partito che già nel 1924 aveva tolto falce e martello dal proprio simbolo (cosa che il Psi italiano del dopoguerra faticherà a fare fino alla svolta craxiana). Matteotti è, infatti, tra i principali fautori di questa evoluzione simbolica che cerca di essere un preludio verso una inedita evoluzione programmatica e ideologica. Una visione che lo rende estremamente lontano e alieno dalla visione di Gramsci. Anche perché mentre il polesano (sbeffeggiato fino all’ultimo dai gramsciani) lotta per la democrazia, il sardo e occhiuto teorizzatore di un sedicente comunismo nazionalpopolare ha favorito l’ascesa dei suoi nemici mettendo sullo stesso piano il fascismo di Farinacci con il cosiddetto (incomprensibile) semifascismo di Amendola, Sturzo e Turati. Una parificazione che fu naturalmente dogmatica e miope… L’eredità di Matteotti come dice Funiciello è, invece, ben altra:
“L’eredità perduta di Giacomo Matteotti è quella del suo socialismo riformista. Se la sua grande vittoria è l’affermazione dell’antifascismo costituzionale, la sua grande sconfitta è l’annichilimento della sua proposta politica. Dopo la Seconda guerra mondiale, chi volle interpretarne il lascito fu senz’altro il Partito socialdemocratico di Giuseppe Saragat che, rifiutando la logica del Fronte popolare tra comunisti e socialisti, scelse di presentarsi alle elezioni del ’48 su una linea di continuità con i socialisti unitari di Matteotti. Matteotti è quindi un riformista perché incontentabile è la sua fame di riforme”.
La ricostruzione di Funiciello però – in ossequio alla sua formazione realista tra Tocqueville e Bernstein – non vuole essere un panegirico, ma una indagine concreta e netta mostrando tanto i meriti quanto gli errori…
“Anche Matteotti nel Biennio rosso compirà errori, sottovalutando il terrore prodotto dalle pratiche violente di lotta politica adottate a sinistra”, ricorda Funiciello, mostrando la grave occasione perduta in quegli anni in cui le belle intenzioni rivoluzionarie sfociarono in violenze e in crimini che non fecero altro che chiamare altre violenze ed altri crimini.
Emerge quindi che il testo di Funiciello è (anche) il racconto di un formidabile disvelamento nei confronti di interpretazioni distorsive quali quelle di Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti e Piero Gobetti. Delle interpretazioni che pregiudicheranno la figura di Matteotti nel secondo dopoguerra a causa delle ipoteche dell’azionismo e del comunismo italiano.
I titoli di alcuni capitoli del libro di Funiciello su ciò sono abbastanza eloquenti. Soprattutto due: “L’anticomunista” e “Contro il Matteotti di Piero Gobetti”. Il battagliero e giovane editore torinese, infatti, distorse notevolmente il ritratto di Matteotti diffondendo un ricordo tanto fortunato quanto fittizio e fantasioso. Gobetti ha contribuito, infatti, a raccontare Matteotti come un uomo solo, altero e disdegnoso, antipopolare e incompreso. Tutti caratteri che sembrano più che documentate evidenze, velate trasposizioni e bizzarri autobiografismi. Quando, invece, “il suo riformismo – spiega Funiciello – risponde e si flette alle necessità del governo locale e della lotta sindacale bracciantile: obiettivi che richiedono, anzi pretendono, concretezza (…) Tutto ciò si lega a un’idea machiavelliana di politica, dunque profondamente realista, alla ricerca continua di un compromesso accettabile tra il realismo del metodo e le esigenze della lotta di classe, con la bussola della prospettiva socialista sott’occhio, bussola che Matteotti non perse mai di vista”. Un’immagine assai distante dagli stereotipi di un certo masochista azionismo torinese… Andando avanti nel testo non si può non soffermarsi sul capitolo relativo ai rapporti tra massoneria e socialismo che è in potenza un libro a parte che affronta le vere dinamiche interne al campo socialista nei rapporti con la massoneria a cavallo tra i due secoli e che meriterebbe un ulteriore approfondimento. Come non è meno interessante la rassegna degli “scolari” della scuola matteottiana, dal PSDI di Saragat (sfociato nel tempo in un moderatismo da partito obbligato a governare) all’autonomismo craxiano, che in parte segue quel sentiero (anche se le differenze e divergenze stilistiche, culturali e antropologiche tra Craxi e Matteotti sono evidentissime a tutti). Evidenziando però come nel tempo questa lezione sia andata sbiadendo e scomparendo purtroppo…
Leggendo Tempesta ci troviamo di fronte al ritratto di un riformista, di un eretico, di un realista, di un vero professionista politico, la cui eredità di concretezza e passione civile è un monito e un esempio per il presente. Un saggio che in sé cela, inoltre, un sostanziale “elogio della politica” nel suo significato migliore, eroico, realistico e prosastico che in questa nostra epoca di “tecnici e attivisti”, di missionari e dilettanti, è tanto più attuale quanto più necessaria. Lanciando uno spunto che travalica la mera appartenenza politica e dovrebbe appartenere a tutti coloro vogliano essere parte di una “classe politica” (da destra a sinistra) nell’interesse del Paese.