OGGETTO: La vera sovversione
DATA: 07 Aprile 2021
Viviamo tutti sotto controllo: i profili Facebook sono saccheggiati, i dati sanitari svenduti, i giornalisti intercettati. La vera sovversione? Scrivere una lettera, a mano
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Non è una sorpresa: viviamo sotto vigilanza, sotto controllo, dalla culla alla tomba. I nostri dati, i dettagli – sempre più patetici, patinati, di icastica vacuità – della nostra opaca esistenza sono frodati, organizzati, impacchettati, venduti. Perché? Perché siamo carne da allevamento, cervelli in batteria, portafogli in belvedere, maiali al trogolo del supermarket. Esistiamo in quanto compratori, utenti, paganti, che scoperta. La sorveglianza agisce nel macro come nel micro: l’ultima ci dice – ricalco da “Prima Comunicazione” – che sono stati “rubati i dati di 533 milioni di profili” da Facebook, di cui “35 milioni sono italiani”. Nel piccolo, invece, è la vicenda – imbarazzante, insidiosa, oscena – raccontata da Nancy Porsia (la sua voce si legge sul “Domani” del 6 aprile 2021), intercettata per sei mesi dalla procura di Trapani “che indagava sulle Ong che fanno ricerca e soccorso in mare al largo della Libia”, “eppure io non ero né indiziata né indagata”. Le intercettazioni, tra l’altro, non sono finite “nell’informativa finale depositata lo scorso febbraio dalla procura di Trapani”, dunque si sono rivelate inutili. Oltre a Nancy Porsia, anche altri giornalisti, non indagati, sono stati intercettati – Francesca Mannocchi, Sergio Scandurra, Antonio Massari, Fausto Biloslavo, Claudia Di Pasquale –, compromettendo le ‘fonti’ e la vita professionale di ciascuno di loro. Il ruolo del giornalista, in diagonale al potere costituito, a ogni potere, così, si dissolve in una azione pressoché compilatoria.

La prendo larga per fermarmi su ciò che si sa: i dispositivi telematici ci fanno indifesi, in piena vista, soggetti agli occhi, rapaci, di tutti. La messa a sistema del dominio tecnologico ha come scopo laterale proprio questo: controllarci. Non si tratta soltanto di profilare un’identità ‘commerciale’ di ciascuno di noi – cosa voglio, cosa mi piace, cosa potrei comprare – ma di smerciare, a caro prezzo, dati sanitari, bancari, psicologici. Sapere chi frequenti, quali sono le tue abitudini, i tuoi pensieri indicibili, i tuoi sogni. Modellare i sogni, le attese, l’avvenire, infine, è il desiderio recondito di ogni potere. Disinnescare, cioè, la più intima autonomia, sradicare l’uomo dalla natura ferina: e renderci felici, con sorriso soporifero, inebetito istinto, sesso vigorosamente virtuale, dentro un mondo da favola, in pixel.

Johannes Vermeer, Donna che legge una lettera, 1662-1663

Per uscire da questa asfissia – tutti, fieri e spuntati, credono di ‘dominare’ il mondo, essendone schiavi, ricchi di liofilizzato cinismo – bisogna compiere piccoli gesti di diserzione, minime sovversioni, perfino ingenue, dacché nessuno, tra i furbi, va a investigare l’ingenuità. Scrivere una lettera, oggi, è forse il gesto più sovversivo possibile. Scrivere una lettera – a mano. Scrivere una lettera, a mano, significa uscire dai codici di riferimento, evadere dal dominio del video, sfuggire dal cono del controllo, garantirsi un’isola.

Intanto, scrivere una lettera, a mano, sovverte il sistema tecnologico vigente. Obbliga a confrontarsi con la banchisa bianca di un foglio, e non con l’onniveggente iride dello schermo. Scrivere a mano chiede una fatica artigiana, contadina: non diverso è intagliare un legno, arare un campo. Scrivere una lettera a mano è come costruire un tavolo, come seminare una terra: le parole, in effetti, sono semi infuocati; che fioritura avranno in chi le legge? Una lettera sa produrre boschi negli occhi di chi la legge. Si fa fatica a scrivere a mano: disabituato, il polso crolla, le dita dovrebbero armare la penna come un coltello, il braccio oscilla. Non abbiamo la fermezza dei duellanti né dei seduttori del Settecento, consapevoli che una lettera può far capitolare una donna e un casato, può innescare una guerra tra nazioni. La fatica, tuttavia, lima il pensiero, lo rende più profondo, esatto: una micidiale scansione di basiliche. Scrivere sul foglio di un computer – bieca imitazione del foglio di carta – facilita i pensieri superficiali, la velocità ha come metro di misura l’ovvio: è facile cancellare, emendare, rifare. Il foglio digitale impone il pensare standard, rapido da produrre e da capire – degradabile, nato già degradato. Le lettere, poi, sono tutte uguali – la scelta dei font è mera moda, smoking liso dall’uso –, non esiste differenza calligrafica tra ciò che scrive X e ciò che scrive Y: la scrittura digitale relega tutti all’uniforme, nell’informe del già visto, del già letto. Scrivere a mano, invece, implica l’investigare noi stessi: di scriverci, prima di scrivere ad altri, di inscriverci nel cerchio chiodato di un destino. Già: la scrittura è l’elettrocardiogramma della nostra anima – o delle nostre viscerali ispirazioni, se preferite. Ciascuno ha in dote una scrittura: quella è la nostra identità, l’impronta interiore, l’enigma ulteriore, come la cartografia di un viso o le linee sulla mano. Un’epoca che dimentica la scrittura a mano ha perso ogni rapporto non solo con la sacralità dell’individuo, ma anche con l’elevazione individuale, foss’anche un’elezione agli inferi. La scrittura ci scruta, cambia insieme a noi: ho una mole di quaderni che spesso fatico a decifrare; tra poco ciò che ho scritto mi sarà del tutto oscuro, come un documento geroglifico. A quel punto, credo, avrò realizzato i miei scritti.

Franz Kafka imbusta per Felice Bauer

Una lettera scritta a mano è una richiesta, nuda, inflessibile: diamo al destinatario una traccia di noi, come se gli donassimo una treccia di capelli. Dalla scrittura, l’altro può divinare il nostro carattere – si legge una scrittura come si scrutano i caratteri sul fondo di una tazza –, forse perfino orientarlo. Scrivere una lettera è sempre un pericolo, è sempre il dito mignolo in una busta. Appunto, il destinatario. Per quanto articolati, i messaggi su WhatsApp, su Telegram o su altri supporti sono replicabili, copiaincollabili, cancellabili. Arrivano rapidamente, e pretendono, di solito, pronta risposta. Sono supporti d’uso comune, per comunicazioni comuni, da usurai del verbo. Certo, possiamo essere degli esteti del messaggino, shakespeariani digitali, eppure l’assenza della scrittura a mano rende tiepida la passione, bianco il sangue, opaco lo scritto. Ancor di più: siamo abituati a una comunicazione social, ci rivolgiamo a una platea, sperando nel riconoscimento pubblico. D’altronde, perché sprecare energie dedicandosi a uno che, quasi certamente, ci deluderà? La lettera scritta a mano sovverte il canone dei social perché è un lascito, una eredità donata a quel solo, l’unico. Si sceglie un destinatario, e a lui, e solo a lui, si destina la fatica della lettera. Destino dispari della lettera: quando giunge a colui per cui è scritta è sempre troppo tardi. Noi siamo diversi da ciò che eravamo due giorni fa, ormai quella lettera è esaurita: scriviamo, d’altra parte, per bruciare quel particolare concetto, o sentimento, per incenerirlo (i camaleonti della scrittura elaborano, inconsciamente, una particolare calligrafia per quel tipico destinatario). Che l’altro sappia che ciò che legge è fuoco pietrificato. La lettera è come la luce di una stella morta: ci abbaglia per anni, con lo splendore definitivo di ciò che è defunto. In un rapporto epistolare questa cronologia disfatta, irragionevole, sinistra e sibillina va considerata con accuratezza. Le lettere si scrivono perché saranno fraintese, sempre: ma è nei golfi del fraintendimento che possono nascere le grandi avventure del pensiero, i grandi amori. Non si ama se non nella disparità, fronteggiando l’impossibile: un amore nato in forma telematica è definito dalla domanda-e-risposta, sistema binario dell’amare, sotto egida di menzogna (se non vedo come scrivi, non so chi sei).

Si scrive una lettera, a mano, infine, perché qualcuno ci conservi in un astuccio e faccia risorgere il nostro corpo ad ogni lettura. La scrittura a mano, propria, in effetti, ha costole, ginocchia e mani. Ha occhi. Ha labbra. Dovremo essere letti da uno sconosciuto, una volta morti, per l’estrema rivelazione. La forma più pura di sovversione è scrivere, a mano, una lettera al morto.

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Elena Stancanelli

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