Un detto abbastanza diffuso in America recita “Sei non sei seduto al tavolo, allora sei sul menù”. Donald Trump pare abbia colto appieno il messaggio e nei primi giorni di maggio il tavolo ha deciso di costruirselo da solo. Così dopo essere stato bannato dai social network, ha lanciato la sua piattaforma sul web: From the Desk of Donald Trump. Al momento definire il prodotto trumpiano, un vero competitor di Twitter o di Facebook sarebbe irrealistico: le interazioni sono molto limitate e la nuova scrivania dell’ex presidente si configura più come un megafono digitale. La bagarre fra Trump ed i guru dei social network va avanti da tempo: infuocatasi durante le elezioni, il punto di rottura avvenne con i fatti di Capital Hill, quando i sostenitori dell’ex presidente riuscirono ad introdursi nel Campidoglio. La platea internazionale aveva in parte applaudito la decisione di oscurarlo non considerando però le reali motivazioni che hanno portato a questa scelta, nonostante durante tutto il suo mandato, l’account di The Donald non abbia mai subito censure o limitazioni, in virtù della libertà di espressione e di informazione, come dichiarato per esempio da Twitter. Fa specie come sia proprio l’inventore dei cinguettii, Jack Dorsey, ad essere ora il fautore della linea più intransigente nei confronti dell’ex-presidente.
Il ban dunque risulta quindi ambiguo, considerando le innumerevoli esternazioni lanciate dal presidente e dei suoi seguaci che non hanno mai differito nel tenore da quelle che hanno portato a provvedimenti così drastici. La transizione di potere, la sconfitta elettorale e soprattutto il colpo di mano dei suoi sostenitori si sono rivelate però contingenze troppo ghiotte al fine risolvere la contesa. In poche parole: nel momento in cui The Donald ha dovuto abbandonare il tavolo, seppur tentando di rimanervi aggrappato con le unghie e con i denti, la tentazione di metterlo sul menù – e proporlo cucinato in tutte le salse- è stata troppo forte. Dario Fabbri, analista di Limes e fra gli esperti più autorevoli sul tema degli Stati Uniti, già nei giorni subito successivi all’annuncio del Ban aveva richiamato gli osservatori meno attenti ad individuare il vero mandante dell’oscuramento dell’ex-presidente. Tutte le piattaforme social, spiegava Fabbri, sono in verità incentrate su una tecnologia della quale non sono proprietarie: internet. È il Pentagono, dove la rete ha visto i suoi primi sviluppi, nonché simbolo per antonomasia del cosiddetto Deep State, ad avere il controllo della tecnologia fondamentale sulla quale Facebook e Twitter – fra i tanti- hanno costruito le proprie fortune. Sulla carta formidabili, queste aziende della Silicon Valley nascondono in verità una debolezza intrinseca, basando le loro attività su una tecnologia che per quanto avveniristica, con buona probabilità risulterà transitoria ed il rischio di essere tagliati fuori da nuove infrastrutture digitali non è percorribile. Il rapporto di sudditanza di quest’ultime verso gli apparati americani risulta quindi palese, nonostante spesso si tenda, in maniera molto superficiale, ad indicare addirittura il contrario. Insomma lo Stato Profondo americano, forte del suo potere, non ha perso tempo per operare, in pieno spirito imperiale, la damnatio memoriae di Donald Trump, costringendo le piattaforme social ad andare contro i loro stessi interessi.
E nonostante le possibili distensioni nei confronti dell’ex presidente, in particolare esternate da Facebook, la commissione etica convocata da Mark Zuckerberg, proprio nei giorni in cui Trump lanciava la sua nuova piattaforma, ha nuovamente negato la sua riabilitazione digitale. Allo stesso modo Jack Dorsey col suo Twitter ha mantenuto la propria rigidità, dichiarandosi pronto a nuovi provvedimenti nel caso la nuova piattaforma si riveli un semplice escamotage per inondare nuovamente il social di propaganda trumpiana, attraverso il meccanismo delle condivisioni. Allo stato attuale il tycoon rimane orfano di qualsiasi sistema di comunicazione, a parte quello fondato da lui, che pure presenta spunti di riflessioni interessanti sulla postura che vuole assumere verso l’opinione pubblica. Lo sviluppo della piattaforma è stato affidato all’azienda di Brad Parscale, collaboratore di lunga data di Trump e responsabile delle campagne digitali di The Donald in entrambe le tornate elettorali. La collaborazione fra l’ex presidente e Parscale aveva subito alcune battute di arresto nell’estate del 2020, quando attraverso il social TikTok una schiera di giovani attivisti anti-trumpiani avevano lanciato una campagna d’acquisto di massa di biglietti per un comizio elettorale di Trump in Oklahoma, costringendo l’allora presidente in corsa per il secondo mandato, a tenere un evento mezzo vuoto. From the desk of Donald Trump segna però un nuovo inizio della sinergia fra il tycoon ed il suo guru digitale, che addirittura aveva tentato il suicidio nel settembre del 2020.
La battaglia dell’ex presidente in definitiva non ha virato verso un tentativo di rottura totale con le istituzioni americane, come molti immaginavano. Cadute nel vuoto le previsioni che volevano la nascita a stretto giro di un nuovo Patriot Party: la strategia comunicativa continua ad insistere sull’idea che Trump sia ancora la vera Istituzione, il Presidente legittimo, spodestato dal Deep State in collusione con i Democratici. La copertina della piattaforma vede infatti Donald Trump seduto ad una scrivania, intento a firmare un faldone: una postura che ricorda molto le classiche foto dei presidenti nella stanza ovale intenti a promulgare le nuove leggi. Si atteggia ancora come un presidente insomma. Anche il video di lancio di From the Desk of Donald Trump del resto non restituisce l’idea di un tentativo separatista, bensì della restituzione di uno “faro di verità”, come recita l’ex presidente nel video, “un luogo in cui parlare liberamente e in sicurezza. Direttamente dalla scrivania di Donald Trump”.
D’altronde ha capito che un’operazione di rottura istituzionale potrebbe non essere la mossa migliore, soprattutto dopo un’attenta rivalutazione della propria posizione all’interno del panorama politico repubblicano. Di nuovi cavalli di razza, dalle parti dei conservatori, non se ne vedono e molti dei membri del GOP, seppur silenti, rimangono particolarmente affini al trumpismo. Le condizioni per leggere nuovamente il cognome Trump, che sia Donald o un altro membro della sua famiglia, alle prossime elezioni presidenziali sembrano esserci ancora tutte. Proprio per questo, probabilmente, l’ex presidente ha messo nel cassetto l’idea di intestarsi una nuova are politico-culturale di rottura, ma si è limitato a costruire una nuova stanza ovale online, nelle vesti più o meno istituzionali, in attesa di tentare un nuovo assalto alla Casa Bianca, atteggiandosi ancora da presidente e soprattutto con la speranza di rioccupare la sedia di quel tavolo ufficiale per evitare di rimanere passivamente sul menù dei suoi detrattori.
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