La storia d’Italia, non solo quella contemporanea, merita di essere affrontata con una duplice chiave di lettura: il rigore della storiografia da un lato attraverso la ricerca, l’uso ed il confronto delle fonti mediante un procedimento di tipo razionale e scientifico, una visione della realtà lucida e sospesa che suggerisce e prefigura la presenza di una realtà invisibile. Ristabilire l’esatta consistenza e relazione o corrispondenza fra fatti e parole è la vera difficoltà del processo di revisione o di ermeneutica della storia patria. E la strage di Ustica non è che un lucido esempio della difficoltosa analisi della realtà, in cui ci si muove tra fatti reali e ricostruzioni abnormi o devianti.
Il dinamismo tra illusione e realtà sembra essere arrivato ad un punto di svolta, o meglio di esaurimento, grazie agli ultimi approdi provvidenziali che hanno squarciato ogni filo d’ombra sulla verità di quella notte del 27 giugno 1980. Una tesi, quella del missile francese che abbatté il DC9, che però, ad oggi, non è mai diventata verità processuale. Ma che Giuliano Amato ha rilanciato, appunto, in una recente intervista a Repubblica, affermando chiaramente: «Perché continuare a nascondere la verità? È arrivato il momento di gettare luce su un terribile segreto di Stato. Potrebbe farlo il presidente Macron, anche anagraficamente molto lontano da quella tragedia. E potrebbe farlo la Nato, che in tutti questi anni ha tenacemente occultato ciò che accadde nei cieli italiani».
Parole forti, quasi definitive, quelle dell’ex premier, che nel 1986, in qualità di Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel governo Craxi, si batté molto per far emergere la verità, e che anticipano una ricostruzione chiara: «La versione più credibile è quella della responsabilità dell’aeronautica francese, con la complicità degli americani. Si voleva fare la pelle a Gheddafi, in volo su un Mig della sua aviazione. Il piano prevedeva di simulare una esercitazione della Nato, una messa in scena che avrebbe permesso di spacciare l’attentato come incidente involontario».
Gheddafi però su avvisato da Bettino Craxi, il leader socialista che era venuto a conoscenza del piano, e non si imbarcò sul Mig. Che però volò lo stesso e, per paura di essere colpito, probabilmente si “nascose” utilizzando come scudo il Dc-9.
La sera del 27 Giugno 1980, il volo IH870 Itavia da Bologna con destinazione Palermo Punta Raisi parte in ritardo alle 20.08 con a bordo 81 persone. Il viaggio lungo l’aerovia Ambra 13 è privo di ostacoli tranne che per due piccole anomalie. La prima è che alle 20.26 il radar di Roma Ciampino perde per un attimo il suo segnale, tanto da pensare a uno spostamento dalla rotta, subito smentito dal pilota Itavia Domenico Gatti. Il secondo è che, dall’altezza di Firenze, tutti i radiofari risultano insolitamente spenti.
Alle 20.56 il capitano Gatti comunica di essere in prossimità di Palermo, preparandosi ad atterrare. Da quel momento, l’aereo scompare. Al mattino, lungo le coste dell’isola di Ustica, iniziano ad affiorare corpi, parti dell’aereo e altri componenti non appartenenti al velivolo.
La prima commissione di inchiesta indica la causa della disgrazia nel cedimento strutturale. Poi prende piede l’ipotesi di una bomba. Poche le certezze: i resti si trovano nelle profondità del Tirreno. Solo nel 1987 e nel 1991 si procederà al loro recupero.
A distanza di anni, dopo molte commissioni di inchiesta e perizie, il quadro appare tristemente più chiaro. Quella sera, nei cieli italiani è in atto una vera e propria guerra. Sono presenti dei caccia appartenenti agli Stati Uniti, alla Francia, due Mig-23 libici e due caccia italiani. I due Mig, provenienti dall’ex Jugoslavia per la loro manutenzione e rifornimento, tornano a Tripoli sfruttando l’ombra radar dell’Itavia per non essere tracciati.
Un missile francese avrebbe accidentalmente abbattuto il velivolo italiano, nel tentativo di colpire il Mig-23 libico. Ancora più convincente è l’ipotesi della destrutturazione per interferenza al passaggio di un aereo militare o collisione con lo stesso. Il Mig avrebbe compiuto una brusca manovra di evasione, toccando l’ala dell’aereo civile e provocandone la frattura in aria.
Negli ultimi giorni, la tesi del missile francese sganciato dai caccia francesi responsabili dell’attentato ai danni del DC9 decollati dalla base di Solenzara, è stata ribadita da un ex 007 che rivela: «Lo stato maggiore italiano mi ha chiesto di chiedere allo stato maggiore francese il rilevamento radar di quella notte – afferma durante l’intervista a Giletti per lo speciale Ustica: una breccia nel muro -. Il colonello francese mi disse di riferire che dal momento che la base di Solenzara era chiusa il radar era in manutenzione».
La tesi non viene confermata, tanto che un ex militare dell’aeronautica militare che era in servizio la sera della strage, rivela che la base corsa era funzionante ed attiva, utilizzata dalla Nato per operazioni militari.
Eppure, nonostante le conferme e le rivelazioni che accreditano questa tesi come la più realistica, subito sono arrivate le reazioni di chi, nella politica e fuori, sposa l’altra ricostruzione dei fatti: quella dell’esplosione di una bomba a bordo del Dc-9, che sarebbe stata posta dai palestinesi su ordine di Yasser Arafat come rappresaglia per l’arresto di Abu Saleh, il referente per l’Italia del fronte di liberazione della Palestina.
Ciò che dopo 44 anni la storia di Ustica insegna è che non solo le famiglie delle vittime aspettano ancora la verità, quella storica e reale, non propinata o segretata, ma, benché si continui a sostenere che la Guerra Fredda sia stata liquidata, con l’avvento della globalizzazione, in realtà le relazioni tra Stati, anche alleati, non sono mai state chiare e limpide, nascondendo torbidità e prismatiche ricostruzioni. Avrà, forse, ragione l’ex Presidente del Consiglio italiano Giuliano Amato quando afferma che la Francia, solo aprendo il proprio archivio e liberandosi di tale segreto, potrà lavare la propria onta che come coltre di pece copre il sangue di vittime innocenti che gridano libertà.