«Quello che mi colpì in quell’occasione era la quantità di penne e matite che Cuccia teneva nel taschino della sua giacca». Così Ferruccio de Bortoli, allora nominando direttore del Corriere della Sera, ricorda il suo primo incontro con lo storico direttore di Mediobanca, Enrico Cuccia, in occasione dell’ufficializzazione della sua elezione alla redazione di Via Solferino. Il fatto di approvare e convocare i direttori del Corriere è già eloquente sul potere del banchiere siculo, milanese d’adozione. Ancora più icastica è però l’osservazione di de Bortoli sulla varietà della cancelleria da tasca. Già molto si tramanda sulla proverbiale comunicazione non verbale del finanziere: famoso per essere riservato, essenziale e spesso aforistico nella parola. Egli forse era davvero capace di esprimere un messaggio per i collaboratori più stretti non solo con l’Italiano, ma anche con il tratto, il colore e il carattere del testo. Una lingua comprensibile ai soli iniziati, ovviamente. Ebbene proprio il carattere inziatico, quasi settario, si addice a descrivere la Mediobanca dell’era Cuccia. Era il “salotto buono del capitalismo italiano”, con il punzecchiante uso delle metafore dei giornalisti; il “capitalismo di relazione” per i più pseudoaccademici.
Da quell’evo aureo, molto è cambiato. Oggi una Mediobanca che ha perso quell’identità è ormai preda di un tentativo di scalata ordito dal Monte dei Paschi di Siena. Quest’ultima una banca di provincia (sebbene dalla storia antichissima) monopolizzata per decenni dalla sinistra toscana, ingranditasi frettolosamente e quasi fallita prima di essere salvata dallo Stato. L’unica banca a maggioranza relativa pubblica. Siena, su mandato non scritto del governo, ha ormai rastrellato oltre il 62% delle azioni della banca d’affari milanese e ne prenderà presto il controllo. Per Cuccia, abituato ad arbitrare le scalate sulle imprese altrui, sarebbe stata un’umiliazione terribile diventare lo scalato.
Prima di giungere a riflettere sull’oggi, è però fondamentale capire cosa fu Mediobanca. Essa è infatti un tassello irrinunciabile al fine di ricostruire quel sistema che reggeva la Prima Repubblica. Non era infatti un operatore privato, ma una vera e propria istituzione di quell’Italia.
Ideata tra il 1944 e il 1946 come un’operazione di politica bancaria dalla tecnocrazia economica italiana in vista della ricostruzione post bellica; si dimostrò ben presto uno strumento ben più singolare e potente nelle mani del giovane esponente di questa “comunità sottile”, Enrico Cuccia, direttore generale dal 1946 al 1985, ma influente anche dopo, da presidente onorario. Unica banca d’affari italiana, finché la legge imponeva una separazione netta dalle banche commerciali. Cerniera perciò tra queste (che erano pubbliche) e l’oligarchia delle grandi famiglie del capitalismo italiano, in quanto fondata dalle prime, ma progressivamente sempre più legata alle seconde. Stretta collaboratrice del governo e delle istituzioni, mai assorbita dalla partitocrazia come fu l’IRI. Canale credibile di collegamento con banche e grandi capitali stranieri, ma avversa alla facile cessione delle leve decisionali fuori dal Bel Paese. Intermediario nel senso più profondo del termine, seppe così ritagliarsi in molteplici occasioni un ruolo da arbitro dell’economia, sfoggiando un equilibrismo tra poteri e relazioni che ben riassume un certo spirito italiano. Questo era il capitalismo di relazione: basato su partecipazioni incrociate con le imprese amiche e patti di sindacato per puntellare le nomine degli organi aziendali e tanti favori reciproci. Perciò, nei consigli di amministrazione salivano gli uomini approvati da Mediobanca. Nelle quotazioni in borsa e nelle collocazioni di strumenti finanziari, venivano premiati gli operatori graditi a Mediobanca. Tutto ciò significava dirigere pesantemente l’economia italiana, ovvero fare a tutti gli effetti politica industriale. Perché bisogna riconoscere che personaggi come Cuccia, non orientavano il proprio agire al mero ritorno dell’investimento, bensì a una visione politica di Italia economicista, elitista, laica, ordinata e conservatrice.
Cuccia fu infatti oppositore della nuova classe di arricchiti e spesso spregiudicati che si affermava nel mondo dell’impresa, a partire dall’emblematico nemico giurato Michele Sindona. Così come si oppose alle scalate ostili straniere sul nocciolo duro delle grandi società italiane. L’eccesso opposto fu però quello di perpetuare gli assetti di potere storici, anche quando inefficienti e incancreniti. Fu diffidente, a ragione, perfino nei confronti dei grandi cambiamenti della fine della guerra fredda, che però il salotto buono cavalcò con il proprio potere mediatico, per liberarsi dell’ingombrante partitocrazia e della costosa socialdemocrazia. Il cambio di regime all’italiana del 1992, infatti, pur spingendo il nuovo paradigma liberista ed europeista che comportava la privatizzazione dell’impresa pubblica, aprendo grandi opportunità per una banca d’affari con ottimi legami nei paesi che contavano, ruppe quel delicato equilibrio e quelle regole del sistema grazie alle quali Mediobanca si qualificava come una vera e propria istituzione, degradandola così progressivamente al ruolo di semplice banca, soggetta a crescente concorrenza. In parallelo anche l’oligarchia industriale italiana, nonostante uscisse vincitrice dal 1992, si sarebbe avviata alla decadenza: non certo dei patrimoni, beninteso, ma del proprio potere, presenza pubblica e centralità nei gangli dell’economia. Di riflesso, basti guardare alla parabola discendente degli imperi industriali Fiat, Pirelli, Ferruzzi, Italcementi: le storiche imprese delle famiglie che costituirono la crema del salotto buono, ma che progressivamente li hanno dismessi all’estero.
Oggi allora non rimane più nulla di quella storia tutta italiana che fu Mediobanca? Forse sì. Forse quei barbari che si stanno accomodando nel fu salotto buono, non sono proprio dei Vandali. Certo, non possono vantare il lignaggio dei gentili di una volta, ma, almeno, sembrano più degli Ostrogoti nell’approccio al conquistato. Se vogliamo infatti scorgere nel presente il piglio e lo stile del capitalismo di relazione, basato su una visione economico-politica per l’Italia (ma nemmeno senza troppo rigore ideologico) dobbiamo guardare proprio nelle operazioni sponsorizzate dal governo con partecipate pubbliche e cordate di imprenditori alleati (leggasi Monte Paschi, Del Vecchio, Caltagirone, BPM). Bloccare l’avventuriero Orcel nella scalata a BPM; cacciare il francese Donnet dalle Generali. Addirittura Report, ha denunciato una collocazione a dir poco “selettiva” delle azioni di MPS da parte del gruppo BPM: una vera operazione in stile Cuccia.
Solo i prossimi anni, la stabilità del governo e la tenacia della politica rispetto agli interessi dei suoi cobelligeranti e alle pressioni esterne (tallone d’Achille di questo paese) sapranno dirci se tornerà una stagione dirigista (almeno simbolicamente) anche per Mediobanca. Soprattutto, chissà cosa direbbe oggi Enrico Cuccia.