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Il sogno proibito di una proxy war

Il Covid-19 ha fatto riemergere la frattura tra Settentrione e Meridione, e c'è chi oggi vorrebbe far diventare l'Italia del Nord una “tigre europea”, al pari di Taiwan, Hong Kong, e Singapore per l’Asia.
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In epoca pre-risorgimentale, secondo la “logica della scacchiera”, l’Italia unita faceva comodo alle cosiddette “potenze di mare”, in primis l’Inghilterra, per fare da contraltare alla Francia, suo nemico storico del Vecchio Continente e possibile concorrente nel Mediterraneo. Non è un caso che la storiografia ufficiale, attraverso gli scritti di Eugenio Di Rienzo, si interessò profondamente al ruolo che assunse il governo di Londra nella destabilizzazione del Regno delle due Sicilie, e nel suo impegno politico finalizzato all’unificazione. Non mancarono infatti segnali verbali e simbolici ma anche strettamente logistici, il più importante fra tutti forse fu il dispiegamento di di due navi inglesi nel porto di Marsala durante lo sbarco dei Mille per proteggere l’operazione di Giuseppe Garibaldi. L’espressione anglofona molto in voga oggi tra gli addetti alla materia quale proxy war potrebbe in fondo essere applicata a quel preciso momento storico. 

La definizione odierna è la seguente: un conflitto internazionale tra due o più potenze straniere, combattuto sul suolo di un Paese terzo, mascherato da conflitto su una questione interna, che usa o sfrutta la manodopera, le risorse e il territorio del Paese per realizzare innanzitutto obiettivi e strategie del Paese straniero. L’Italia, del resto, per via della sua dimensione geografica, ha da sempre giocato un ruolo, fino ad essere terreno di scontro, all’interno delle meccaniche globali. Vale per il passato come per il presente. Per ultimo, in ordine cronologico, e seppur non bellica, rientra la questione legata alla crisi sanitaria del Covid-19 che ha visto una “corsa agli aiuti” tra Cina, Russia e Stati Uniti, in una logica strettamente di soft power. In realtà dietro questo interventismo esiste un grande gioco in corso tra le macro-potenze che si stanno riorganizzando per governare quello che Henry Kissinger ha definito “il passaggio dal mondo attuale all’ordine post-coronavirus”. E ancora una volta, le geometrie globali, passano per il controllo dell’Europa, e l’Italia in questo teorema è un tassello fondamentale.

La battaglia culturale e commerciale in corso si combatte principalmente tra le “potenze del capitalismo” (Aresu): Stati Uniti e Cina. Non è mancata infatti la risposta di Washington a quella che alcuni hanno definito la “cinesizzazione” della Farnesina, tanto da aver mobilitato una campagna mediatica con dosi massicce e progressive di faziosità contro Pechino e il suo leader Xi Jinping. In questo senso è emblematico il caso di «Repubblica», oggi diretta da Maurizio Molinari che ha affossato la vecchia linea liberal-progressista per trasformarsi in un quotidiano ancor più integrato in questa proxy war tra Oriente e Occidente. Non mancano dal 23 aprile, giorno in cui è subentrato il nuovo direttore, attacchi concentrici verso la Cina con articoli, commenti e reportage sia sul fronte del Covid-19 che su quello della guerra commerciale, sommato ad un silenzio strategico sull’agenda di Donald Trump, il quale a volte viene anche difeso indirettamente. Abbastanza incredibile per chi non ha la memoria troppo corta. Basta consultare l’archivio del giornale fondato da Eugenio Scalfari e ripercorrere la linea editoriale durante la campagna elettorale del 2016 e dopo l’elezione del tycoon americano, per rendersene conto.

Allo stesso tempo si rinnovano anche le dottrine politiche e strategiche. Se la Cina gioca di sponda con il Movimento 5 Stelle in Italia, con l’obiettivo di slegare il Paese dall’Europa, gli Stati Uniti invece mirano ad usare l’Italia per indebolire l’Unione (anche in funzione anti-tedesca). Quando ancora i populismi europei potevano conquistare terreno, la Casa Bianca faceva leva sui movimenti più o meno anti-establishment (dalla Brexit alla protesta dei Gilets Jaunes, passando per il governo giallo-verde) per accerchiare l’asse franco-tedesco, l’unico in grado di costruire un progetto continentale “alter-americano”. Oggi questa dottrina è ampiamente superata, e il Covid-19, la frattura tra Italia Settentrionale e Italia Meridionale, avvelenato da inchieste sul sistema sanitario lombardo e l’esaltazione (anche giusta) dell’attitudine di governatori come Luca Zaia in Veneto e Vincenzo De Luca in Campania, ha aperto nuovi scenari nella proxy war in corso. Leggere tra le righe dell’intervista di Giancarlo Giorgetti, garante della Lega del rapporto atlantico ma anche del posizionamento italiano in Europa, prima al «Wall Street Journal», poi a «La Stampa», dove traspare la volontà di archiviare la linea nazional-populista di Matteo Salvini, che ha portato il partito dal 4 al 34 per cento, e tornare ad un nordismo moderato e cripto-secessionista.  Non a caso senza contestare pubblicamente l’attuale segretario, nel suo momento più difficile, è evidente che all’interno del Carroccio stia nascendo una corrente, che annovera i governatori di Veneto e Friuli Venezia Giulia e spinge per convincerlo ad aprire un dialogo con il governo, e riprendere in mano la via del federalismo integrale, facendo leva sull’orgoglio del Sud emerso in questi mesi visti i numeri bassissimi di contagio. Chissà allora se tra qualche anno, il Nord, e ha tutte le carte per diventarlo (produzione industriale e hub finanziario) non possa diventare una “tigre europea”, al pari di Taiwan, Hong Kong, e Singapore per l’Asia.

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