L’istinto cadaverico dell’editoria italiana s’è messo all’opera: tutti si sono gettati, liberi i diritti, a martoriare, liberamente, con lecita fame, il corpo e il corpus di George Orwell. Così, non c’è editore che non abbia in catalogo – o in cantiere – il proprio Orwell, una proliferazione di spettri che a me pare rivoltante. Il 2021 è l’anno di Orwell – mica quello di Dante – per marchingegno subdolo del mercato. Solo di 1984 – versioni ristampate o rivedute o ritradotte dallo scrittore con le piume di pavone in capo – ho contato l’edizione Mondadori, Bompiani, Einaudi, Sellerio, Fanucci, Garzanti, Newton Compton, Feltrinelli, Bur, Chiarelettere… Che dedizione imbarazzante, che ipocrita amore per la letteratura. Al posto di scoprire l’ignoto – nel caso specifico, cioè, letteratura inglese dei primi decenni del Novecento, i primi nomi che mi vengono in mente: Wyndham Lewis, Ford Madox Ford, Cecil Day Lewis, Stephen Spender, David Gascoyne, Hugh MacDiarmid, Roy Campbell… – riproponiamo il noto, in favore delle masse dormienti e degli editori che vogliono fare due soldi, facili. Fosse vivo Orwell, s’incazzerebbe. D’altronde, quando Boris Pasternak si lamentava che il regime editoriale di Stalin divulgasse Majakovskij “con la forza, come le patate al tempo di Caterina”, aveva capito che non c’è modo migliore di annientare un genio: propagarlo a palate. “Questa fu la sua seconda morte. Di essa egli è innocente”, chiude Pasternak. Come Majakovskij allora, Orwell ora: è il megafono delle nostre frustrazioni, il visionario della porta accanto; facendone un idolo, ne abbiamo deriso la forza, screanzata.
Voglio dire: dobbiamo dire come stanno, formalmente, le cose. George Orwell è uno scrittore modesto. I suoi romanzi, semplicemente, sono brutti, sono noiosi. 1984 è irrisolto, involuto: ha alcune pagine felici – ad esempio, sulla forza eversiva della scrittura – a fronte di molte, troppe ripetitive, fumose, dispari. George Orwell sognava di essere Jonathan Swift, non ne aveva la stoffa linguistica: quanto a romanzo ‘profetico’ (o ‘sociale’) Il Signore delle Mosche di William Golding è narrativamente più risolto di 1984; quanto al resto, Anthony Burgess (del tutto negletto, a parte Arancia meccanica, frainteso, in questo paese di inetti editoriali) è scrittore più potente. Di 1984, piuttosto, affascina il contesto, radicale: lo scrittore che si ritira a Jura, alle Ebridi, con il figlio adottato, Richard, di due anni, fuori dal tempo, per scrivere di “The Last Man in Europe” (così il titolo primitivo di 1984) è emblema della scrittura, della sua audacia, della sua intrinseca avaria nella solitudine.
Voglio dire: bisogna difendere Orwell, l’estroso, irritante, geniale giornalista, dal romanziere. La semplificazione editoriale – becera, scaltrissima, complice – anela a disinnescare la furia profonda, proficua di Orwell, quello che in Spagna capisce che gli antifascisti usano metodi fascisti, che si scaglia contro i papaveri dell’intelletto, gli impegnati dalla torre d’avorio, i comunisti dandy, “Io non sono uno dei vostri finocchietti alla moda come Auden e Spender”, scrive a “New Statesman”, specificando che “il fascismo viene imposto ai lavoratori spagnoli con il pretesto della resistenza al fascismo”. Dobbiamo salvaguardare Orwell che nel 1940 legge e recensisce il Mein Kampf di Hitler perché comprende, al netto del perbenismo democratico, che nonostante “buona parte del pensiero occidentale ha dato tacitamente per scontato che l’uomo non desideri altro che una vita comoda, sicura, al riparo dal dolore”, l’uomo, “almeno di tanto in tanto, vuole anche la lotta e l’abnegazione”, ed è questo – chiamatelo principio di morte o volontà di potenza o come vi pare – che fa paura, il fatto che l’uomo non sia un divano ma una sfida perpetua.
Per farsi grande, Orwell si architettò, come tutti, un nemico. Pensò di guastare la fama di Rudyard Kipling, eroe della sua infanzia, paladino dell’Impero britannico, giovanissimo Nobel per la letteratura, massone, sponsor di ogni efferatezza imperiale. Il 23 gennaio del 1936, sul “New English Weekly”, Orwell firma un velenoso ‘coccodrillo’. Kipling era morto la settimana prima, Orwell aveva pubblicato libri di modesto successo, bruttini, La figlia del reverendo e Fiorirà l’aspidistra. Il pezzo è sagace, obliquo, cauto, in reverenza al caro estinto. Ne traduco dei pezzi:
“Rudyard Kipling era una specie di dio domestico… Per parte mia, ho adorato Kipling a 13 anni, lo ho detestato a 17, lo disprezzavo a 25. Ora lo ammiro di nuovo. La sola cosa che non è possibile, dopo averlo letto, è dimenticarlo. […] Ciò che è disgustoso in Kipling, piuttosto, è l’imperialismo a cui ha scelto di prestare il suo genio. Il meglio che possiamo dire è che la scelta che ha compiuto è più perdonabile allora di quanto lo sarebbe ora. L’imperialismo degli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento era sentimentale, ignorante, pericoloso, ma non del tutto spregevole… Era, insomma, ancora possibile essere un imperialista e un gentiluomo… Se non fosse stato influenzato dall’imperialismo, Kipling sarebbe stato uno scrittore migliore, più amabile. Nel ruolo che ha scelto, dobbiamo pensare a lui come a un nemico, un uomo dal genio alieno e pervertito. Ma ora è morto, non posso che offrire un tributo – con schioppo di pistola, se possibile – al narratore che ha forgiato la mia infanzia”.
Nel 1941, in un lungo saggio pubblicato da “Horizon”, Orwell, ormai intellettuale di successo – nel 1938 ha pubblicato Omaggio alla Catalogna, la sua attività pubblicistica è sempre più arguta e riconosciuta, nel 1940 licenzia Inside the Whale and Other Essays – parte da un saggio di Thomas. S. Eliot – che introduce A Choice of Kipling’s Verse –, per attaccare violentemente Kipling e ciò che rappresenta (e ciò che rappresenta, invero, anche l’anglocattolico conservatore Eliot).
“Mr. Eliot, nel rispondere all’accusa superficiale e consueta che Kipling è un ‘Fascista’, cade nel difetto opposto, difendendo l’indifendibile. È inutile fingere che la visione della vita di Kipling, nel suo insieme, non possa essere né accettata né tanto meno perdonata da qualsiasi persona civile. Quando Kipling descrive un soldato britannico che picchia un ‘negro’ con una scopa per ricavarne del denaro, si comporta come un mero giornalista che non approva necessariamente ciò che descrive. Non c’è il minimo passo in alcuna parte dell’opera di Kipling, in realtà, in cui l’autore disapprovi quel tipo di condotta; al contrario, c’è in lui una certa tensione al sadismo, al di là dell’istinto brutale proprio di uno scrittore di quel tipo. Kipling è un imperialista fanatico, un uomo moralmente insensibile ed esteticamente disgustoso”.
In cinque anni, è cambiato tutto. Ciò che era accettabile nel 1936, è deprecabile nel 1941, nel gorgo del conflitto mondiale. Eppure, l’eroico Winston Churchill – sui rapporti tra Churchill and Orwell. The Fight for Freedom, ha compilato uno studio Thomas E. Ricks per Penguin – era lo stesso che lavorava per la crudele Albione imperialista, decenni prima. D’altra parte, il terribile Kipling di The White Man’s Burden (“Il fardello dell’uomo bianco raccogliete…/ Mandate lontani i giovani migliori…/ Legate all’esilio i vostri figli/ Per mettervi al servizio dei nostri prigionieri/ A mantenere in alta uniforme/ L’ordine tra i selvaggi…/ Popoli ostili, da poco assoggettati,/ Per metà demoni e per metà bambini”), è il medesimo che canteranno i guru dell’armonia planetaria, alternando Imagine a If… (la tiritera: “Se riesci a non perdere la testa, quando tutti intorno/ La perdono e se la prendono con te;/ Se riesci a non dubitare di te stesso, quando tutti ne dubitano,/ Ma anche a cogliere in modo costruttivo i loro dubbi…”).
Sfangate le volgarità politiche – ormai UK non è più una potenza imperiale, con colonie in mezzo mondo – ci restano le opere. E, beh, Rudyard Kipling è uno scrittore geniale, tanto quanto Orwell è un romanziere modesto. Provate a scavare nelle opere laterali, tra la piramide dei racconti, spesso enigmatici, oscuri, crudeli, autentici diamanti (li stampa Adelphi, sono mirabili quelli raccolti in “Loro” e I figli dello Zodiaco). Soprattutto, i grandi libri di Kipling, oggi, appaiono più eversivi delle distopie edificate da Orwell. Mowgli che cavalca la pantera e sopravvive, con intelligenza e ferocia, in un mondo ostile; Kim che parla con santoni e straccioni, con colonnelli e scimmie, sapiente nella mistica arte della dissimulazione, sono molto più attuali del grigio Winston Smith, l’ennesima variazione dell’inetto. Di Mowgli e di Kim abbiamo bisogno, per fertilizzare i nostri sogni e ulcerare la Storia, più che di Winston Smith. Tra l’altro, se il Grande Fratello è ormai un apodittico cliché – ci divora da decenni – torna in auge, in disfatta pandemica globale, il Grande Gioco – teatro di strategie segrete in cui si divincola, con barbara bellezza, Kim. Il temibile Kipling, ma guarda, è più prossimo a noi – ne sento l’alito – del caro, vecchio Orwell.