I morti muoiono continuamente. E chiedono giustizia, non giustizieri. Questo è quanto. Nessuna vendetta risarcisce la vittima; il perdono è un grigio lenitivo; la polpa della colpa, l’urlo muto delle tombe, è sempre lì, rinnovato, potente. L’arresto dei sette terroristi in Francia – a cui si sono aggiunti un paio di costituiti – è parsa un’operazione ‘da film’ fin dal titolo: “Ombre rosse”. Infine, i terribili spettri risorti dagli anni Settanta sono tornati in semilibertà, in attesa – tra due o tre anni – di finire lì da dov’erano scappati, nelle mani della giustizia italiana. Tutto qui? I cadaveri, disseppelliti alla bisogna, per l’enorme spot politico, tornano a urlare. Muti. La mutevole stampa patria ha dato rilievo alle parole pie del Ministro Marta Cartabia (alla “sete di vendetta” contrappone la “reale possibilità di riconciliazione”: quale?); Gemma Calabresi, la moglie del Commissario Luigi Calabresi, ucciso il 17 maggio del 1972 da Ovidio Bompressi e Leonardo Marino su istigazione di Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri, ha detto al figlio Mario, in un dialogo pubblicato su “la Repubblica”, che “Sarebbe il momento giusto per restituire un po’ di verità… Io ho fatto il mio cammino e li ho perdonati e sono in pace. Adesso sarebbe il loro turno”. Nell’effluvio di commenti – spesso tribali, spesso autobiografici (dov’ero & cosa facevo durante gli Anni di Piombo, screanzata gioventù…), dunque parziali, distorti – segnalo quello di Giuliano Ferrara sul “Foglio” (“Non partecipo al clima di giubilo per gli arresti in Francia…”) e quello di Alessandro Gnocchi sul “Giornale” (“Gli arresti, purtroppo, non concludono un bel niente, sono un atto di giustizia, per quanto tardivo, ma non possono essere sufficienti per archiviare un intero periodo. Al di là dei singoli casi, ci sono numerosi punti da chiarire”). Come era da attendersi, è bastato un Fedez il primo maggio per ridurre l’arresto alla dissidenza dei nonni, i pensionati degli Anni di Piombo.
Guido Viale, classe 1943, è stato uno dei leader del Sessantotto e, insieme a Sofri, Pietrostefani, Rostagno, Alexander Langer, tra gli alti dirigenti di Lotta Continua. Dagli anni Novanta si occupa di Civiltà dei rifiuti (così il sottotitolo di un libro edito da Feltrinelli nel 1994, Un mondo usa e getta), di culto dell’ambiente, di cultura del lavoro. Ha un blog, dove ricorda che ha “militato nel gruppo Lotta Continua fino al 1976”. L’ultimo libro, Dal lavoro alla cura, è pubblico da qualche settimana per Edizioni Interno4. Guido Viale è innocentista e certamente mi ritiene un figlio del rancore, dalla visione corta, distorta. Quando gli telefono, non ha voglia di parlare. “Cosa le devo dire che non abbia già detto la stampa?”. Insisto. Insomma, lei era lì, in quegli anni, con Pietrostefani e Sofri. “Vuole che le dica dell’arresto? È un modo con cui il governo tenta di proteggersi dalla pressione delle destre. Così possono dire: noi siamo quelli che ristabiliscono l’ordine”.
A suo dire, invece, vince lo spirito di vendetta o la riparazione?
Non c’è nulla di tutto questo, ma solo la continuità nel riproporre un’idea della storia di cui i rappresentanti del Governo si sentono eredi.
…e quale sarebbe questa storia?
Che lo Stato, in merito a ciò che è accaduto dalla fine degli anni Sessanta, è completamente innocente e che la causa del caos è tutta di chi allo Stato si è opposto.
Mi pare una tesi estrema.
Guardi, questo non è che l’ennesimo modo con cui lo Stato rinfresca la propria teoria sugli Anni di Piombo, per far scomparire quel periodo nella nebbia.
Nel 1997, in seguito alla sentenza della Corte di Cassazione che condanna Bompressi e Marino come esecutori dell’assassinio di Luigi Calabresi e Pietrostefani e Sofri per concorso morale in omicidio, lei ha firmato, insieme ad altri ex militanti di Lotta Continua, una lettera in cui si legge, tra l’altro, che “La posizione assunta da Lotta continua davanti all’uccisione del commissario Calabresi e l’aver accostato quel fatto a una forma di giustizia, obbliga ciascuno di noi a riconoscere una grave responsabilità politica e morale”.
Non mi riconosco in quella lettera, ma non ho potuto dissociarmi.
In un acceso scambio di lettere con Marco Travaglio, pubblicato su “Micromega” nel 2006, lei riconosce tuttavia che la campagna contro Calabresi fu attuata da Lotta Continua “con un linguaggio che non ha giustificazione”. Oggi immagino che stia con Sofri…
Cosa dice, in sostanza, Sofri? E ora, cosa ve ne fate di questi? Se ne fanno che per qualche giorno si riempiranno le pagine dei giornali. Poi tutto si spegnerà di nuovo.
Vengo a temi che forse la interessano di più. Cultura dell’ambiente. La Missione 2 del Piano Nazionale varato da Draghi prevede la tanto decantata “Rivoluzione verde”, con oltre 59 miliardi di euro a disposizione. Come la giudica?
Vedo solo – in considerazione delle mani in cui finiranno quei soldi, e in mancanza di voci contrarie in grado di farsi sentire a livello istituzionale – un danno aggiuntivo per la maggioranza della popolazione: maggior debito da ripagare, o da far ripagare a figli e nipoti; maggiore spreco di risorse in grandi opere fatte passare in modo palesemente truffaldino come ecologiche, come il Tav (Torno-Lione, ma anche tutti gli altri in progetto), la Tap, le autostrade, gli incentivi per sostituire auto a combustione con auto elettriche (come se non inquinassero e non creassero congestione anche loro) e addirittura sovvenzioni all’industria delle armi sotto lo schermo del “dual use”. Questa classe dirigente non è in grado di progettare un futuro diverso perché non ci ha mai pensato e continua a pensare che non ci siano alternative a ciò che hanno sempre fatto e al modo in cui lo hanno sempre fatto. Invece le alternative ci sono: la conversione ecologica, che contrappone al lavoro finalizzato alla produzione di nuovi disastri la cura delle relazioni con la comunità, il territorio, il vivente tutto. Ma un passaggio del genere richiede la destituzione della stragrande maggioranza delle persone che sono al comando oggi, in Italia e nel mondo, e la sua sostituzione con una nuova classe dirigente, che può formarsi solo nei movimenti animati dalle nuove generazioni, come Fridays for future, che mettono al centro della loro azione la consapevolezza che non c’è più tempo e che bisogna cambiar rotta di 180 gradi. Come ripete Papa Francesco, unico tra i “Grandi della Terra”.
Come mai il Sessantotto è passato dal fare l’amore alla lotta armata? Che cosa è successo?
Il cosiddetto Sessantotto non è mai stato un fatto unitario se non nella ricostruzione dei suoi denigratori. È stato un insieme di movimenti con orientamenti diversi e delle ragioni comuni, di cui certamente la voglia di fare l’amore è stata una componente importante. Non è neanche stato il sentire di un’intera generazione, ma solo di una sua parte consistente e, allora, sicuramente egemone. Quelli che ne sono rimasti esclusi, perché hanno scelto di restarne fuori, oggi rimpiangono di averlo fatto e sfogano quel loro rimpianto represso con ricostruzioni e accuse rancorose. È un atteggiamento che coinvolge anche alcune delle generazioni immediatamente successive – non quelle più recenti – perché anche loro sono state escluse da quella temperie: non per una loro scelta, ma perché intorno ad essa era stato elevato un muro di repressione e di conformismo. Non è vero però che tutto il Sessantotto è passato armi e bagagli alla lotta armata: questa tesi è soltanto la manifestazione più diffusa e consolidata di quel rancore, anche se i pochi (percentualmente: qualche migliaio di adepti tra i milioni di giovani che avevano partecipato ad alcuni dei movimenti di quegli anni) che hanno maturato la scelta della lotta armata lo hanno fatto all’interno o sotto l’influenza della cultura di opposizione allora egemone. Di tutti gli altri, che non hanno imboccato la lotta armata, si citano solo i pochi che si sono conquistati, per capacità o per asservimento, un posto “al sole”; mentre ci sono decine di migliaia di donne (soprattutto) e di uomini che hanno continuato a lavorare nell’anonimato per portare un tocco di umanità, di libertà e di intelligenza nei luoghi del loro impegno: la scuola, la ricerca scientifica, la pubblica amministrazione, i sindacati, i circoli culturali, la sanità, ecc. Senza di loro che cosa ne sarebbe oggi della società se non ci fosse niente oltre al governo di chi è al potere?
Nel suo ultimo libro afferma che la crisi sanitaria, sociale, ha modificato la nostra comune idea di lavoro: in che modo?
Ovviamente è solo un auspicio, certamente fondato. Non ho fatto nessuna indagine in proposito. Ma è evidente che in una situazione come quella in cui ci siamo ritrovati, e forse continueremo a ritrovarci a fase alterne, salta agli occhi l’indispensabilità di molte attività e professioni ai fini della nostra sopravvivenza e del nostro benessere – da quelle sanitarie a quelle legate alla filiera dell’alimentazione; dalla logistica ad esse connessa alla manutenzione-riparazione di impianti e attrezzature indispensabili; dall’istruzione a tutte le attività cultuali: la chiusura delle scuole ce lo ha dimostrato. Sono quasi tutte attività sottodimensionate rispetto alle esigenze fatte emergere dalla pandemia, che hanno comportato, per chi vi era addetto, grandi rischi e spirito di sacrificio; ma che certamente hanno rafforzato la consapevolezza, e la soddisfazione, di svolgere una attività a beneficio del prossimo. Viceversa ci sono molte altre attività produttive la cui continuità è stata garantita imponendo ai lavoratori di esporsi a inutili rischi per poter mantenere il posto di lavoro, ma che certo avrebbero potuto essere sospese con beneficio di tutti se ai loro addetti fosse stata garantita la continuità di un reddito: in diversi casi abbiamo avuto anche degli scioperi di lavoratori che si sono rifiutati di garantire la produzione in periodo di lockdown, a rischio e pericolo della propria incolumità e di quella delle loro famiglie. In molti casi si tratta di produzioni nocive per chi vi è addetto, per il territorio in cui vengono svolte, o anche per le caratteristiche del prodotto che viene messo in circolazione: pensiamo all’industria delle armi a cui i successivi governi hanno attribuito un assoluto carattere di priorità per non perdere le commesse. Ma certo, non solo a quella: tutta la produzione dei beni di lusso va a beneficio di una parte privilegiata della popolazione e sottrae risorse a tutti gli altri. L’emergenza ha messo in chiaro che da quelle attività non dipendeva alcun beneficio per la popolazione. Naturalmente la linea di confine tra questi due tipi di lavori non è fissa, non è immediatamente visibile, dipende da valutazioni soggettive, che però potrebbero consolidarsi se e quando saranno oggetto di un confronto pubblico.
Il lavoro come cura… o la cura attraverso il lavoro. Mi pare che infine lei rimoduli l’idea stessa di lavoro, nella contrapposizione tra Cura a Profitto: in che modo, verso quale mondo?
Ho scritto che lavoro è un concetto ambiguo: da un lato è considerato una “risorsa” produttiva, un fattore della produzione, come lo sono, per l’economia classica, la terra (oggi, più complessivamente, l’ambiente tutto) e il capitale; e come lo è oggi anche l’informazione. Un fattore produttivo essenziale, in parte incorporato nel capitale, in parte nel lavoro, ma che comunque ha anch’esso un costo. L’errore più macroscopico è quello di aver escluso dal “mondo del lavoro” il cosiddetto lavoro di riproduzione, che non è solo “lavoro domestico”, cura della casa e della famiglia, ma è cura delle relazioni, della comunità, del territorio, della vivibilità: un insieme di attività che se venissero valutate in termini monetari surclasserebbero il PIL di tutti gli Stati del mondo. Dall’altro lato, con il termine lavoro si è finito per indicare i lavoratori e le lavoratrici salariate o comunque addette ad attività che forniscono un reddito, donne e uomini che, prima di essere fattore produttivo, sono persone: con la loro storia, le loro esigenze, i loro interessi e i loro affetti. Che cosa significa allora “promuovere il lavoro”? Accrescere il suo contributo alla produzione, quale che ne siano le finalità e il costo? O sostenere interessi e aspettative di chi lo svolge? Possono le due cose coincidere? Possono essere la stessa cosa? Possono esserlo solo se e quando l’attività si traduce in un miglioramento della propria condizione, di quella della comunità in cui vivono, del territorio a cui appartengono. Ma tutto il resto del lavoro che viene erogato per promuovere la crescita e lo “sviluppo”, non è indifferente, non è “neutro”, non è sostenibile: consuma risorse e produce inquinanti che la Terra, la nostra “Casa comune”, non è più in grado di mettere a disposizione e di assorbire senza quegli squilibri che ci hanno ormai portato sull’orlo della catastrofe climatica e ambientale. Per questo non può nemmeno essere fonte di soddisfazione per chi è costretto a svolgerlo per procurarsi un reddito.
In sostanza: cos’è diventato il lavoro in questa “Repubblica fondata sul lavoro”?
Lavoro è diventato un termine equivoco, come sostanzialmente, anche se non esplicitamente, lo era già nella formulazione dell’art. 1 della nostra Costituzione quando è stata varata. Che cosa significa “fondata sul lavoro”? Fondata sui lavoratori? E gli altri, quelli che non hanno un lavoro retribuito, quelli in tutto o in parte impegnati in lavori non retribuiti connessi alla riproduzione della vita e della convivenza, o quelli che vivono sfruttando gli altri, non sono anch’essi cittadini, con diritti e doveri da rispettare? Oppure fondata sull’attività erogata o estorta da chi è costretto a lavorare per vivere, cioè sul terzo dei fattori della produzione, da moltiplicare perché si produca sempre di più? Escludendo, va da sé, tutte le attività connesse alla riproduzione, che non vengono mai considerate quando si parla di lavoro in termini economici, politici o sindacali. Ormai è chiaro che ci si deve fermare, che si deve lavorare di meno per produrre di meno, e distribuire quello che c’è da fare tra tutti. E da fare c’è ancora tanto, e sempre di più: ma è “lavoro di cura”, attività per riparare i guasti che sono stati inferti al territorio, alla convivenza, alla Casa comune.