OGGETTO: Bologna '77: vogliamo tutto
DATA: 04 Dicembre 2019
Giorni convulsi nelle strade e nelle aule occupate all'università: la rabbia giovane, espressa in prima battuta dalla creatività degli indiani metropolitani, ora esplode nella lotta armata. Dopo l'omicidio del militante Francesco Lorusso, per un colpo esploso da un carabiniere di leva, nulla è stato più come prima.
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Fuori la pioggia batte forte il selciato della grande piazza addormentata. La condensa, è una notte da lupi quella di questo febbraio, appanna le piccole finestre della stanza piena di fumo: tra le sigarette e la stufa a gasolio l’aria può tranquillamente dirsi mefitica, troppo calda, opprimente. Dal muro scrostato sorride sornione quel gran barbone di Carlo Marx, affiancato dal prisma nero di The dark side e da una copia ingiallita di Rosso.

Di fronte al letto, un giradischi Technics, regalo di maturità di Marco, gira pigramente a trentatré giri e un terzo un disco. La testina legge i microsolchi, li trasforma in impulsi e li invia all’amplificatore; da questi, il suono giunge ai diffusori piazzati ai lati dell’impianto. E’ un giro di sax, avvolgente come le braccia di Anna, che sale lento.

Sono i vent’anni di Anna e Marco, spesi al freddo di una stanza in affitto a equo canone. E’ la giovinezza che riscalda le ossa e le fa fremere di voglia a letto e di rabbia in piazza. Vivere per condividere, un amplesso come una canna o un corteo il sabato pomeriggio. Ma nell’aria qualcosa è cambiato.

Bologna si agita. Bologna non dorme. Bologna la grassa freme le sue larghe trippe. Il calendario è da poco appeso al muro: febbraio, d’accordo, ma 1977. Un altro anno di piombo, ormai l’Italia s’è abituata, cosa vuoi che sia: attentato a Roma, rivendicazione dei Nuclei armati proletari, crisi economica, i-sacrifici-dei-lavoratori, l’unità nazionale, il presidente-Andreotti-e-l’-onorevole-Berlinguer.

Sono ormai otto anni che la rabbia giovanile e le rivendicazioni operaie si rincorrono. La generazione del Sessantotto ha ora trent’anni, la stanchezza di una rivoluzione sempre prossima e mai realizzata pesa come una cappa sui mille gruppuscoli della marea rossa. Molti sono in carcere, altri al caldo in banca. Le occhiaie hanno dato il cambio al sorriso. Nel frattempo, gli ultimi bagliori del miracolo economico sono stati oscurati dalla crisi petrolifera, dalla fine del trentennio glorioso: la classe operaia italiana è probabilmente la più forte del mondo occidentale, ma intuisce che la crisi di cui tanto parla la tv rappresenta il cavallo di Troia per la fine delle lotte. Occorre produrre, e gli aumenti? Poi si vedrà.

D’altronde, all’operaio-massa immigrato dalle campagne del Mezzogiorno e ossessionato dall’ideologia del consumismo si è piano piano affiancato un tipo diverso, spesso con una laurea in tasca e tanta frustrazione nell’anima. A chi esce dalle scuole e dalle università spesso non basta più lavorare: si pretende la vita.

Hanno in mente i propri padri, spesso piegati da una vita di fabbrica e di alienazione. Sono figli dell’espansione edilizia, dell’Italia piccolo borghese che sogna la piena occupazione e vive di nero e pensioni generosamente concesse, della violenza di strada, dell’ubriacatura ideologica. Anna e Marco sono come loro, sono loro.

Iscritti all’università, i primi della loro famiglia a poter appendere un giorno il pezzo di carta al muro, sono entrambi consapevoli di volersi tenere fuori dalle dinamiche borghesi: una laurea che non servirà, un lavoro mediocre e alienante, una casa modesta e una vita ridotta ad attesa perenne, oscillazione continua tra difficoltà e depressione. Non ci stanno. E come loro altri, migliaia di altri studenti all’ombra delle torri sentono l’ansia del domani, la cappa del sistema stringersi addosso e succhiar via ogni goccia di vita, di autonomia.

Autonomia: s.f., in senso ampio, capacità e facoltà di governarsi e reggersi da sé, con leggi proprie, come carattere proprio di uno stato sovrano rispetto ad altri stati.

Ecco l’autonomia operaia. Il nuovo universo rosso del movimento, lontano anni luce dalla burocratizzazione in salsa leninista di Lotta Continua o Potere Operaio: ogni città, ogni quartiere possiede la propria versione della vera Autonomia. Né capi né padroni né struttura: è un’anarchia rossa, violentissima, che teorizza la lotta armata allo Stato borghese e il rifiuto assoluto di ogni compromesso con i riformisti – ossia i traditori del proletariato – della sinistra tradizionale e dei sindacati. Il foglio principale, Rosso, è un distillato di odio di classe e di istigazione alla rivoluzione. Passamontagna e p38, gli autonomi piombano nelle strade sfasciando e sparando, colpendo con peso crescente le istituzioni di uno stato corrotto e corruttore: il loro obiettivo è l’estinzione del Potere.

Marco è un autonomo. Legge Rosso e spesso collabora a redigere i manifesti murali che occupano ogni centimetro della facoltà di Lettere. L’università è occupata permanentemente, e guai a chi osa ribellarsi al movimento. Nelle aule autogestite, le radio portatili diffondono il cazzeggio di Radio Alice. L’etere libero è malto che fermenta, benzina nelle bottiglie incendiarie.

Musica, dibattito, parole parole parole in libertà. Un mezzo di comunicazione di giovani diretto ai giovani, senza alcun controllo dell’autorità e di mamma RAI. Radio Alice è la colonna sonora delle giornate del movimento, espressione dell’altra ala del fenomeno, quella creativa e surreale che in gran parte confluisce negli indiani metropolitani, i pellerossa del capitalismo decadente.

Anna ne conosce un bel po’, di quelli strani e simpatici che si tingono la faccia di bianco e vanno in giro, alla testa dei cortei, insieme alla banda a cantare e ballare. Il colore e la musica si fondono con il grigiore militare dei bastoni e delle tre dita a mo’ di pistola degli autonomi. Il mix è incomprensibile, sfuggente a ogni categorizzazione ideologica: per il PCI sono provocatori fascisti, per la DC terroristi, per la gente comune degli sfaticati. Nessuno li capisce, ma tutti li temono: nessuno è più pericoloso del bambino che indica la nudità del potere.

Febbraio, il mese del carnevale, va così avanti: un piatto di tortellini, l’osteria, le interminabili assemblee fumose, il sesso, l’amicizia, l’amore. Vent’anni che bruciano e incendiano.

A Roma è sempre febbraio, il 17 per la precisione. Alla Sapienza occupata va in scena Luciano Lama, segretario della CGIL, scortato da un immenso servizio d’ordine. Dovrebbe parlare in favore della calma, della conciliazione tra studenti e lavoratori in nome della pace sociale e della democrazia. Utopia. Il comizio viene sbeffeggiato, preso a pernacchie e poi a salve di sanpietrini, mentre i duri e puri incappucciati puntano al palco seminando pugni e bastonate alla scorta. Lama ha paura, Lama scappa. Il rappresentante ufficiale dei lavoratori fugge davanti agli studenti. Il rettore consegna l’ateneo alla polizia di Cossiga: è il primo morso dello Stato al movimento.

La cacciata di Luciano Lama dalla Sapienza (1977)

Sale la tensione. Da Bologna si guarda con ammirazione e sgomento ai fatti di Roma: qual è la nostra forza? si chiedono i compagni per strada. Quanto può durare un movimento che del rifiuto del lavoro salariato fa il suo più grande obiettivo? Poco, per i padroni e per i loro lacchè. Non si tratta più di rivendicare dentro il sistema: si parla di uscire dallo stesso, rifiutando il suo diabolico legante, quel denaro che vergognosamente si erge a giustificare lo spreco della vita di ciascuno. Abolizione del lavoro, restituzione dell’esistenza.

Questo messaggio non può passare, non deve.

Si intensificano le assemblee, aumenta la tensione. L’11 marzo Comunione e Liberazione si riunisce all’istituto di Anatomia dell’ateneo. Subito accorrono diversi compagni per contestare i partecipanti, i quali si chiudono dentro chiedendo l’intervento della forza pubblica. Arriva la celere, caricando i contestatori con le modalità previste in questi casi: lacrimogeni, manganelli, calci e pugni.

La rabbia non fa che aumentare. Con altri militanti compaiono le molotov, presto in volo verso le camionette e i blindati della polizia. Si iniziano a udire colpi di arma da fuoco. Una colonna di carabinieri viene intercettata da uno stormo di bottiglie incendiarie: più mezzi prendono fuoco. L’autista di uno di questi, preso dal panico, scende dal mezzo e inizia a scaricare la propria pistola sulla massa di incappucciati che incalza: pum-pum-pum-pum-pum-pum.

Sei colpi. Uno di questi colpisce alla schiena un ragazzo, Francesco Lorusso, mentre corre via dagli scontri. La morte lo attende pochi istanti dopo. Francesco aveva poco più di vent’anni.
Il movimento perde la propria innocenza nel momento in cui la palla attraversa la carne di Lorusso. Alla leggerezza degli indiani metropolitani non può che sostituirsi la rabbia armata dell’ala militante dell’Autonomia. Tutti in piazza! Tutti per il compagno Lorusso!

Bologna la grassa trema. Dai colli si vedono i fumi degli scontri alzarsi lenti, come fili grigi di sigarette da donna, mentre le vetrine esplodono, i borghesi tremano e i poliziotti bestemmiano per la paura. Il pomeriggio dell’11 marzo Bologna è una città in stato d’assedio, paralizzata dalla rabbia e dallo sconforto. L’etere freme. A Roma, a Torino, a Milano, la notizia lacera il pomeriggio ancora freddo: per l’indomani Lotta Continua aveva organizzato una grande manifestazione nella Capitale. Il sangue di Lorusso cola dal selciato e scende, lentamente, verso l’Urbe.

12 marzo, ore 17. Centomila – cento volte mille – autonomi si trovano a Roma. Anna e Marco sono con loro. E’ un corteo gigantesco, le p38 brillano cupe riflettendo le nuvole mentre si diffondo passamontagna e bottiglie incendiarie. Anna ha paura, Marco no. Marco è incazzato, non ce la fa più. Noia, disillusione, schifo sono emersi all’improvviso, e non solo in lui. Sono giorni che valgono anni, come dice Rosso.

Anna ha portato una Leica.

Click 1: il gigantesco serpentone scende dalla stazione Termini lungo via Cavour, verso il centro. In primo piano il servizio d’ordine cela i connotati e alza al cielo le pistole.

Click 2: all’imbocco di Piazza Venezia inizia la festa. Salve di lacrimogeni imbiancano il rullino. Anna trema, e la foto viene un po’ mossa. La pellicola è in bianco e nero, ma coglie lo stesso il sangue sul panno dei carramba.

Click 3: all’altezza di Ponte Sisto, verso Via Giulia, viene assaltata un’armeria. Qualcuno ricorda Manzoni, altri più prosaici corrono dentro e arraffano. Non pane, ma armi. Le portano in trionfo, in una bolgia che chiama la Bastiglia e ricorda una curva da stadio.

 

Anna non scatta più. Marco è nell’ultima foto, con un passamontagna e un fucile da caccia tra le mani. La forza pubblica reagisce, la sera avvinghia ciò che resta del pomeriggio. Si scappa, si bestemmia, si spara. Si doveva vendicare Lorusso, s’è celebrato il primo rito funebre del Movimento. Compagni arrestati, negozi distrutti, auto incendiate e sbirri feriti. Solita storia, solita scena. Il vagone culla il rientro verso Bologna, ma non c’è sonno a consolare la notte. Anna è stanca di tutto, della violenza e di una rivoluzione che non verrà mai. Marco no, come dicono molti in giro vuole fare il salto di qualità. Il confine con i compagni delle BR è sottile, le reclute si affollano e i contatti girano nel sottobosco dei servizi d’ordine: la lotta armata chiede braccia.

Bologna centrale, dice il cartello illuminato da un neon ronzante. E’ notte fonda. Anna e Marco escono sul piazzale, non dicono nulla. Lui s’accende una sigaretta, lei gli si stringe per l’ultima volta. Piange. Marco vorrebbe urlare, invece sbuffa un po’ di fumo, si stacca dall’abbraccio e corre via, verso il buio. Anna resta con il biglietto in mano e un fiore di carta compratole da Marco prima del viaggio d’andata. Di fronte, lungo un muretto sbrecciato e sporco, un tossico prepara la siringa per il buco. Guarda Anna e sorride. Sopra di lui qualcuno ha scritto Decretiamo lo stato di felicità permanente.

NdA. I funerali di Francesco Lorusso si terranno il 14 febbraio nella periferia di Bologna, perché le autorità negheranno qualsiasi spazio ufficiale per paura degli scontri. Il fratello di Francesco leggerà un messaggio, scritto per lui, in cui Bologna veniva chiamata a scegliere tra le vetrine e la vita.

Il movimento del ’77 si trascinerà lungo l’estate e avrà il suo vero funerale in settembre, dove tutto era iniziato, a Bologna. Il convegno contro la repressione, una tre giorni di follia ordinata tra Sartre e gli indiani metropolitani, mostrerà l’impossibile tentativo di organizzare politicamente l’eterogeneo universo del ’77. Molti, tra cui Marco, sceglieranno a quel punto definitivamente la strada della lotta armata, e si culminerà nella fase più cupa e più misteriosa degli anni di piombo: quella del delitto Moro.

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