A poco meno di due anni dagli attentati terroristici del 7 ottobre 2023, perpetrati da Hamas nei confronti di Israele e fautori di un’escalation di violenza e di attività belliche che hanno coinvolto tutto il Medio Oriente, lo Stato Ebraico si trova a dover fare i conti con le conseguenze economiche delle proprie scelte politiche e militari che ne hanno riscritto finanze, priorità commerciali e investimenti pubblici e privati.
Sin dal giorno successivo agli attentati, infatti, l’avvio dell’offensiva su Gaza e la chiamata alle armi di circa 360mila riservisti per l’imminente invasione della Striscia, hanno provocato una recessione improvvisa, seppur momentanea, dell’economia israeliana, contratta bruscamente del 5,2%, spingendo il paese in una recessione tecnica in cui la crescita annua per il 2023 si è attestata a circa +2%, oltre quattro punti al di sotto del +6,5% previsto prima della crisi. Secondo il Ministero delle Finanze israeliano, entro la fine del 2025 Israele avrà speso tra 55 e 67 miliardi di dollari in spese straordinarie per il conflitto, circa il 12% del PIL nazionale.
Ciò è dovuto principalmente al fatto che molti tra i civili mobilitati sono operativi in settorieconomicamente nevralgici come tecnologia, costruzioni e trasporti. A questi si aggiungono oltre 100.000 sfollati interni, costretti a lasciare le zone limitrofe alle operazioni militari. Di essi, il Ministero dell’Economia di Tel Aviv ha stimato che oltre il 20% ha perso il lavoro e che solo il 39% è rientrato in attività dopo i primi sei mesi dall’inizio del conflitto.
A questo fattore, si aggiunge la continua esposizione militare di Israele in teatri molteplici comeGaza, Libano, Siria, Iran e Yemen, instaurando un clima di incertezza costante, specialmente per settori come quello turistico e immobiliare.
Il settore turistico, ad esempio, già messo a dura prova durante la pandemia di Covid19, ha subito un vero e proprio tracollo, con un calo dell’80%. Basti pensare che nel gennaio 2024 appena 60.000 visitatori stranieri hanno fatto ingresso nello Stato Ebraico, contro i 260.000 di gennaio 2023.
Il settore immobiliare, invece, ha scontato problematiche di stampo politico e securitario in quanto fortemente dipendente dalla manodopera palestinese. A ottobre 2023, infatti, ai circa 140.000 lavoratori palestinesi impiegati nei cantieri israeliani sono stati sospesi i visti lavorativi per ragioni di sicurezza, causando il blocco immediato di centinaia di progetti immobiliari.
In questo contesto, però, è il settore dell’hi tech e dell’innovazione a fare da eccezione: settore di punta dell’economia israeliana, tanto da far valere ad Israele il soprannome di “Start-up Nation”,esso vale il 20% della sua economia e oltre il 50 % delle sue esportazioni nazionali, pari a circa 73,5 miliardi di dollari. Con oltre 7000 Start-Up attive, infatti, Israele ha il primato di maggior numero di “Unicorni”, ovvero Start-up con una valutazione di almeno un miliardo di dollari, per milione di abitanti (5,6).
Ciò è dovuto in parte ad una cultura imprenditoriale dinamica e caratterizzata da un approccio al rischio e alla gestione dell’errore consolidati, come anche ai massicci investimenti in Ricerca e Sviluppo, tra i più alti al mondo (6,3 % del PIL nel 2023), oltre che sulla presenza di centri di ricerca all’avanguardia nella cosiddetta Silicon Wadi, un ecosistema di cluster innovativi tra Start-up e Scale-up con epicentro nelle città di Tel Aviv, Haifa e Beersheba.
Sebbene proprio le Start-up abbiano perso molti talenti mobilitati per la guerra, d’altro canto le aziende legate al comparto cyber, all’AI militare e ai sistemi senza pilota hanno ricevuto finanziamenti record, sia pubblici che privati. La guerra, infatti, ha dato impulso al mercato bellico, spingendo molte imprese a convertirsi verso applicazioni dual-use, quando non puramente militari.
L’innovazione in ambito militare è sempre stato uno dei fiori all’occhiello dello Stato, sviluppatosi secondo le esigenze di una nazione che combatte per la sua esistenza sin dalla sua fondazione e che ha visto nella superiorità tecnologica e militare l’unico vero strumento in grado di garantirla. Ogni innovazione israeliana, infatti, è una risposta strategica camuffata da progresso, estranea ai garage e più a suo agio nei bunker e nei centri di comando.
Un recente rapporto della Relatrice Speciale Francesca Albanese presentato al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite denuncia infatti il ruolo centrale dell’industria militare israeliana nell’alimentare quella che viene definita “un’economia del genocidio”.
Secondo il documento, al centro di questa economia vi sarebbero le due principali aziende israeliane di armamenti: Elbit Systems e Israel Aerospace Industries (IAI). Entrambe, in quanto principali fornitrici di armamenti del governo israeliano, hanno beneficiato di una crescita vertiginosa dei profitti: soltanto nel 2024, la spesa militare di Israele è aumentata del 65%, toccando i 46,5 miliardi di dollari, tra le cifre pro capite più alte al mondo.
I tanti fronti bellici di Israele, evidentemente, sono il campo di prova perfetto per la sperimentazione ed il collaudo di nuovi sistemi d’arma: nella Striscia di Gaza, ad esempio, i droni militari di Elbit e IAI, alcuni dei quali dotati di intelligenza artificiale e persino in grado di operare in sciame, hanno sorvolato e colpito obiettivi con precisione chirurgica, rendendo il territorio una sorta di fiera della guerra, in cui le armi sono testate sul campo e poi vendute come “battle-proven”sul mercato globale.
Occorre specificare come tali attività non comportino un ritorno economico per il solo Israele, quanto anche per i partner industriali dei paesi occidentali di cui è alleato. Ad esempio, Israele è anche il primo paese ad aver impiegato il jet F-35 dell’americana Lockheed Martin nella cosiddetta“beast mode”, ovvero equipaggiato con bombe eccezionali da 2.000 libbre. Il jet è un degno esempio dell’integrazione tra industria bellica israeliana e occidentale: oltre 1.600 aziende di 8 paesi diversi contribuiscono alla sua produzione, tra cui anche l’italiana Leonardo.
Non solo, bisogna considerare la collaborazione anche con aziende che partecipano alla catena di produzione e logistica, come la giapponese FANUC, che fornisce ad Israele la robotica per le catene di assemblaggio delle armi, o la danese Maersk, principale società di trasporto di armamenti e componenti dagli Stati Uniti ad Israele dopo il 7 ottobre.
La militarizzazione dell’economia israeliana, però, non si limita agli armamenti, coinvolgendo anche tecnologie di sorveglianza, di cloud e Intelligenza Artificiale. Vi sono, ad esempio, progetti come il Nimbus, valutato 1,2 miliardi di dollari, che ha in Amazon, Google e Microsoft i fornitori di piattaforme cloud per l’apparato statale israeliano, tra cui in primis il Ministero della Difesa, con lo scopo di gestire i dati raccolti tramite droni, telecamere e database biometrici. Un’altro progetto significativo in tal senso è il controverso Lavender, basato sull’IA ed in grado di generare intere liste di bersagli umani in tempo reale, contribuendo, secondo Human Rights Watch, ad attacchi indiscriminati su Gaza, in quanto sistema automatizzato e mancante di un’effettiva supervisione umana.
Il rapporto ONU, infine, conclude affermando che l’industria bellica occidentale non si limiterebbealla fornitura di armamenti, ma sarebbe persino coinvolta direttamente nella pianificazione e nellagestione operativa di essi, rendendone dunque anche alcuni dirigenti penalmente responsabili dicrimini internazionali.
Un caso emblematico è quello dell’azienda americana Palantir, che ha rafforzato la cooperazione con l’esercito israeliano durante l’offensiva su Gaza, fornendo tecnologie predittive e strumenti di comando automatizzato. Alla domanda su un possibile coinvolgimento di Palantir nella morte di civili palestinesi, il CEO Alex Karp ha risposto: “Soprattutto terroristi, sì” – incrementando il sospetto sulla eventuale consapevolezza dei vertici aziendali dei massacri indiscriminati in corso.
Israele, dunque, perseguendo con la guerra i propri obbiettivi politici, prova anche a trarne ogni possibile vantaggio economico collaterale, essendo l’ottavo esportatore mondiale di armi, con vendite che nel 2024 hanno toccato i 14,8 miliardi di dollari.
Nonostante il trauma iniziale, infatti, il mercato azionario israeliano, dopo un calo del 5% nella settimana successiva al 7 ottobre, a fine giugno 2025 ha registrato un incremento medio del 80%, spinto proprio dall’ottimismo degli investitori internazionali nel settore difesa e tecnologia. Al livello valutario, inoltre, sebbene il nuovo shekel (ILS) abbia subito un indebolimento, è stato stabilizzato grazie agli interventi della Banca d’Israele e ad un pacchetto di aiuti miliardario da parte degli Stati Uniti.
Nonostante le difficoltà, infatti, l’economia israeliana gode di diversi punti di forza strutturali, come un sistema bancario solido, forti riserve valutarie ed un ecosistema tecnologico tra i più avanzati al mondo, oltre al sostegno economico e militare apparentemente incondizionato degli USA, unica superpotenza mondiale, tanto da far prevedere addirittura un rimbalzo del PIL israeliano al 4% nel 2025.
Gli Stati Uniti, del resto, forniscono ogni anno circa 3,8 miliardi di dollari a Israele sotto forma di assistenza militare diretta (Foreign Military Financing – FMF), parte integrante del Memorandum of Understanding del 2016 che prevede un impegno totale di 38 miliardi di dollari dal 2019 al 2028,di cui circa 500 milioni ogni anno destinati specificamente alla difesa missilistica.
Dal 7 ottobre 2023 in poi, gli Stati Uniti hanno destinato almeno 17,9 miliardi di dollari in assistenza militare straordinaria per sostenere Israele nelle operazioni in Gaza, Libano e sul fronte iraniano. Questa cifra include: 6,8 miliardi per l’FMF (oltre il regolare annuale), 5,7 miliardi per programmi sperimentali di difesa missilistica come Iron Beam, 1 miliardo di dollari per armamenti pesanti e 4,4 miliardi per il ripristino delle scorte dagli stock americani.
Nonostante il supporto economico americano sia di grande aiuto per Israele, non basterebbe per far fronte all’attuale emergenza, tanto che il governo Netanyahu ha introdotto nuove misure fiscali, come gli aumenti dell’IVA e delle accise, ed emissioni straordinarie di titoli di Stato, spesso acquistati da investitori stranieri anche grazie alla nota solidità finanziaria dello Stato Ebraico.
Nonostante i punti di forza, infatti, permangono lo stesso alcuni rischi significativi: l’inflazione, ad esempio, si attesta al 4%, gonfiata dai rincari del costo dell’energia e dall’incertezza sulle catene di approvvigionamento. I tassi d’interesse, già elevati, sono stati momentaneamente stabilizzati per evitare un’eventuale recessione. Le agenzie di rating hanno mantenuto un outlook “negativo”: Moody’s ha confermato la valutazione “Baa1”, ma ha avvertito che una prosecuzione dei conflitti potrebbe costringere Israele a nuove revisioni fiscali e tagli strutturali.
Basti pensare che per le sole operazioni di intercettazione missilistica, nei momenti più intensi del conflitto con Hamas ed Ezbollah, Israele ha speso circa 285 milioni di dollari al giorno. Il sistema Iron Dome, ad esempio, sebbene sia il più economico tra quelli impiegati, ha un costo per unità intorno ai 50.000 dollari; le piattaforme più avanzate, invece, come David’s Sling e Arrow 2/3 arrivano rispettivamente fino a 1 e 4 milioni di dollari per ogni intercettazione.
L’intera rete antimissile ha affrontato poi una pressione senza precedenti durante le diverse fasi di scontro con l’Iran. In sole 48 ore di intercettazioni, la spesa ha superato il mezzo miliardo di dollari.
Parallelamente, Israele ha dovuto stanziare ingenti risorse per ricostituire le scorte esaurite: nel budget 2025, oltre ai circa 32 miliardi di dollari di spesa militare complessiva, tra cui andrebbero considerati anche i costi pertinenti al munizionamento utilizzato nelle azioni offensive, sia a terra che in aria (carburante, manutenzione, perdite), sono previsti 12 miliardi aggiuntivi proprio per rinnovare lo stock di difesa missilistica.
Del resto, gli effetti della prosecuzione dei conflitti su più fronti, seppur a fasi alterne, mette a dura prova la tenuta sociale interna dello Stato Ebraico. Proteste contro la riforma giudiziaria, tensioni di natura etnica e religiosa oltre alle diseguaglianze sociali crescenti stanno erodendo il consenso verso il governo.
Questo dovrebbe generare in Tel Aviv una riflessione politica sullo stato di salute della propria economia, la quale non potrà essere mantenuta solo dalla spinta del settore militare e dell’hi-tech, così come dagli aiuti americani ed europei. Occorre infatti un ripensamento delle priorità nazionali, al fine di evitare che l’economia israeliana si tramuti irreversibilmente in un’economia di guerra.