OGGETTO: La peggior era di governo dal dopoguerra
DATA: 18 Luglio 2024
SEZIONE: Politica
AREA: Europa
L'insediamento di Keir Starmer a Downing Street è stato il "Portillo moment" che tutti si aspettavano. I tories chiudono una stagione di fallimenti e ora sono chiamati a scegliere la loro nuova guida: al momento papabili sono Kemi Badenoch, James Cleverly e Tom Tugendhat. Dall'altra parte i ringalluzziti labours hanno visto con così largo anticipo il successo che hanno evitato di essere programmaticamente dettagliati durante la campagna elettorale. Ma ora è il momento di decidere, possibilmente evitando di proseguire quella che lo storico Sir Anthony Seldon ha indicato essere il punto più basso (cominciato nel 2010) della leadership anglosassone dal 1945 ad oggi.
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È giunta ormai l’aurora, si spengono i fanali, riverberano i rumori, si riaccende l’insegna di quell’ultimo pub; le strade si ridestano, il Tamigi scorre lento mentre, solo, va un tory in frac; sul papillon di seta blu si impigliano i versi di una canzone, da Baker Street, dedicata a lui… Light in your head and dead on your feet, Well another crazy day, You’ll drink the night away, And forget about everything, This city desert makes you feel so cold. Dimenticare, cosa difficile: in meno di 6 settimane la Gran Bretagna ha posto la parola fine all’ultima era conservatrice, ridotta ad un parodistico feuilleton; è arrivato il Labour, mentre a Downing Street irrompe Sir Keir Starmer, il jedi capace di controllare.

Le forze dell’opposizione e di lottare con il lato oscuro degli estremismi a là Corbyn, non a caso apprezzato dal transalpino Mélenchon; al Sunak in frac, a nulla è servito indire elezioni anticipate, volte a contenere l’effetto delle umilianti forche caudine da lacrime e sangue del bilancio settembrino. Negli ultimi anni il debito pubblico è lievitato, dal 75% del PIL nel 2010, primo anno tory dopo i labour Blair e Brown, al 101% del 2023, con un deficit fuori controllo specialmente dopo il disastro del mini budget Truss del 2022. Il giudizio elettorale è stato inappellabile, con l’attribuzione al partito laburista di 412 seggi, una performance seconda solo a quella di Blair del 1997 e con la debacle tory che rievoca gli spettri del 1832 o del 1906 con 156 seggi; da sempre il partito tory ha rappresentato l’alleanza tra City e società; gli epigoni di Peel e Thatcher sono riusciti nella mission impossible di alienarsi entrambi. 

Dal 2010 ognuno degli ultimi cinque governi conservatori ha disseminato solo lasciti negativi a partire dalla Brexit, passando per lo scandalo Windrush, per l’universal credit che ha abbassato il limite del sussidio per le famiglie indigenti, fino a giungere all’imbarazzante partygate di Boris Johnson in piena emergenza Covid, ed alla turbolenza finanziaria causata dall’incompetenza di Liz Truss, e dal Cancelliere dello Scacchiere Kwarteng in appena 45 inebrianti giorni di potere euforico sotto l’effetto stupefacente dell’aleatoria previsione di un’impossibile crescita economica. Sunak, da buon ultimo, non ha potuto che raccogliere i cocci albionici, osteggiato sia da una maggioranza sempre meno silenziosa sia dalla base del partito che, ancor più improvvidamente, gli ha anteposto la Truss: vittoria laburista? Sì, ma soprattutto, imbarazzante fallimento dei Toriesanatre azzoppate anche dal Reform UK di Nigel Farage, un volantino più che un partito, l’ideatore della Brexit eletto nel collegio di Clacton on Sea, uno dei più poveri del Regno, un populista che ha determinato la dispersione di milioni di voti conservatori dopo aver contribuito nel 2019 al successo di Johnson.

Sullo sfondo, la situazione generata dalla natura maggioritaria dell’uninominale secco della legge elettorale, un first-past-the-post, in grado di condurre a risultati apparentemente incomprensibili per cui chi ha ricevuto meno voti ha comunque ottenuto un numero maggiore di seggi, ma che ha il pregio di contenere in Parlamento i radicalismi e di tracciare la linea di un più stabile bipartitismo alla Duverger. Le elezioni hanno inoltre contemplato sia la sconfitta del Partito Nazionale Scozzese, travolto dagli scandali, sia la riconquista labour delle Midlands, sedotte nel 2019 dal get Brexit done di BoJo, vulnerabilità politica che ha prudentemente indotto Starmer a dichiarare di non prevedere alcun ricongiungimento all’UE. Se l’elettorato europeista può essere stato deluso, razionalmente la posizione di Starmer, difforme da quella del 2019 di Corbyn, ha preservato dal rischio di incognite.

L’incommensurabile portata del successo laburista ha tatticamente consentito a Starmer di evitare di essere programmaticamente dettagliato, benché non sia da sottovalutare un’affluenza alle urne non esaltante, dando per scontato che l’astensionismo può essere contenuto laddove l’elettorato percepisca alternative intellegibili. Attenzione alle digressioni di parte: nell’universo politologico anglosassone, i Portillo Moment, le bocciature elettorali eccellenti, fioccano regolarmente, tratteggiando un panorama diverso da quello delineato sul continente, dove la tenzone elettorale è percepita come uno scontro esiziale in un contesto che pone ogni volta di più all’attenzione temi molteplici e cangianti. Questo conduce a diverse considerazioni: la prima riguarda la (finora) fisiologica e connaturata alternanza al governo britannico delle diverse compagini politiche; la seconda attiene al bipartitismo che, a differenza di quanto evidenziato dal risultato elettorale francese rudemente stigmatizzato da Cacciari, non impone alleanze composite di arduo menage, ma delinea brevi manu e con decisione una leadership destinata a confrontarsi da subito con il teorema dell’impossibilità di Arrow, ovvero con la tesi per cui è impossibile valutare il bene comune.     

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Roma, Dicembre 2023. XIII Martedì di Dissipatio

Ripensando ad ore più buie e difficili, la comparazione tra i leader del passato e la recentemente decaduta dirigenza conservatrice, al netto delle critiche da parte dei più pervicaci dissenzienti, mostra discrasie fondate su differenti preparazione, coraggio e capacità di analisi ora drammaticamente carenti. Il non ci arrenderemo mai dell’immanente Winston, stigmatizza la bassa valenza politica dei protagonisti dei partygate. Se con il governo Churchill la Nazione inglese affidava all’Altissimo la salvezza di una giovanissima Regina, con il governo Truss, per l’anziano Carlo III, si sarebbe auspicato un aiuto meno trascendente e più concreto in termini di caratura, non certo di genere: Honi soit qui mal y pense. Con Starmer il Re, nel suo discorso del 17 luglio, dovrà fare propri i propositi di un governo atteso ad un’impresa ardua, posto che le proposte politiche dalla Camera dei Comuni dovranno comunque passare al vaglio della Camera Alta. Ma l’imprimatur regale, quello, conserverà la sua valenza.    

Il problema, come diceva Calvino, è che il diavolo rimane nascosto tra le pieghe dell’approssimativo, cosa che sta facendo saggiamente riflettere Starmer sulla volatilità dell’elettorato e su un ipotetico secondo mandato quanto mai iperbolico da parte di un penalista che si è dato alla politica attiva solo dal 2014. Un leader asceso al vertice all’atto delle dimissioni del troppo polarizzato Corbyn, per inaugurare una direzione soft left, aliena da radicalismi e da escamotage improvvisi e drammatici ed attenta nel far oscillare il pendolo tra il sostegno a Gerusalemme e l’appoggio alla causa palestinese, sottolineando il rischio del possibile allontanamento dell’elettorato musulmano. Finanziariamente si attendono nuovi progetti di legge per conferire più poteri all’organo economico indipendente per il bilancio, ed una spending review sulla base della quale decidere se confermare gli impegni preesistenti per avere il tempo di elaborare una politica economica di più ampio respiro, che sia audace come il nuovo premier, disposto a rimodulare con geometria variabile le promesse e pronto a rimuovere anche gli old friends in nome di un personale socialismo morale. In fondo l’assenza di un’ideologia in termini dogmatici è essa stessa, teleologicamente, un’ideologia.

I would say that we can go and take stock. Perché in un momento in cui la politica sembra virare verso il centrodestra, la Gran Bretagna ha riportato verso un controtendente apice il Labour Party, tradizionale espressione di un sindacalismo fondato su concretezza e lavoro, secondo un paradigma che non guarda al perché si guadagna ma perché non c’è gente che guadagna? Il problema è riuscire a comprendere come funzioni la politica estera, a cominciare dal sistema elettorale, che con il suo the winner takes it all nel continente potrebbe riuscire poco gradito malgrado la garanzia di stabilità, entro un’architettura istituzionale dove la correlazione tra circoscrizioni ed elettorato rimane forte e da seguire in ogni momento della legislatura. Se è vero che il multipartitismo non trova collocazione, è però altrettanto vero che all’interno dei partiti maggiori convivono plurime e differenti anime, tanto più condizionanti quanto più connaturate alle fazioni entro cui allignano, fazioni naturalmente destinate al governo, non certo formazioni nate sapendo che, come i verdi, non potranno mai ambire al premierato. 

In ambito conservatore è stata l’ala più reazionaria ad intorbidire la politica tory; lo stesso Cameron non è riuscito a contenerla, ed i referendum promossi si sono trasformati in un boomerang che ha infranto il partito mettendo paradossalmente in difficoltà anche l’antagonista Labour, ospite a sua volta di una componente antieuropeista. Ciò che ora interessa è Reform UK, su cui si stanno indirizzando le attenzioni circa la reale esistenza dei candidati. Farage punta all’elettorato di bassa estrazione, influenzabile, motivato ad un voto che sia di protesta; esprime idee, spesso discutibili, ma non è in grado di presentare programmi realizzabili, demandandone sempre oneri e responsabilità: policy flamboyant sì, visione no. Farage è stato abile nella creazione di rumore cognitivo, quello servito a sottrarre voti ai partiti maggiori. Una delle principali responsabilità politiche è stata quella di aver dimenticato le tre parole d’ordine bipartisan di Blair, le gramsciane education, education, education, ovvero l’istruzione su cui investire per il futuro; se manca l’education, la growth – la crescita – non può esistere, come Liz Truss continua a non comprendere. Starmer, in nuce e magari per pura necessità, conserva comunque progettualità precise, intenti ponderati ed estesi di investimento, propositi di stabilità capaci di allontanare disegni insensati o irrealizzabili, come il rientro nell’UE, favorendo invece la ripresa di un Servizio Sanitario Nazionale al collasso e limitando localismi sempre più perniciosi. 

Keir è intriso di prudenza atlantista e razionalità, dell’intento di ricreare una sinistra pragmatica capace di rigenerare una terza via che richiami Blair, Jospin e Schroeder ma senza i dogmatismi di Corbyn; con un neologismo, lo starmerismo caratterizza un nuovo pragmatismo. Per i Tories, secondo lo storico contemporaneo Sir Anthony Seldon il periodo 2010 – 2024 ha rappresentato la peggior era di governo dal 1945. Ora di fatto si è aperta la successione a Sunak, che vede in pole position Kemi Badenoch, James Cleverly e Tom Tugendhat, e la prospettiva di una politica che caratterizzerà a lungo la scena britannica, con il divisivo Farage, che ambisce a depauperare ulteriormente i conservatori, prima che i conservatori stessi si spostino a destra per precederlo nella conquista dei 4 milioni di voti che gli hanno aperto le porte del Parlamento.

Se campagna elettorale ed elezioni hanno risvegliati interessi sopiti, il seguito potrebbe essere ancora più avvincente, o preoccupante. Scegliete voi.  

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Sergio Vento

Dalla privilegiata finestra diplomatica, Sergio Vento ha osservato per oltre quarant'anni un mondo in continua oscillazione fra la stabilità e il caos. Lo abbiamo raggiunto per chiedergli a che punto siamo e quali sfide aspettano le principali potenze del nostro tempo.

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