L’aggettivazione “arabica” risveglia nel sistema limbico il piacere del profumo intenso del caffè nero bollente, difficilmente il ricordo della Penisola che, con l’Iran, si contende l’altra aggettivazione che connota il Golfo, Persico o Arabico a seconda della sponda da cui lo si contempli. Due le immagini che si rincorrono fluttuando nella mente: Lawrence d’Arabia e l’attuale principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman; si tratta di immedesimazioni che esaltano le differenze per facies e caratteristiche personologiche tra l’uomo che, dopo aver guidato la rivolta araba privando gli Hashemiti dei luoghi santi consegnati ai Sauditi, si è fatto esegeta dei sette pilastri della sapienza del Libro dei Proverbi, e l’erede al trono a cui di certo sovviene che dovrà quel trono proprio al diafano Lawrence. Tra i due corrono tempo e politica, dimostratasi arte infinitamente più complessa della guerriglia desertica. Malgrado tutto, senza il primo non ci sarebbe stato il secondo, come senza Sykes e Picot non ci sarebbe stata quella spartizione improvvida che mise in difficoltà lo stesso Lawrence a fronte della fiducia incondizionata nutrita per lui dagli arabi. Una caratteristica comune tra uomini figli di due momenti storici così diversi, è quella di interpretare olisticamente gli scenari puntando alle finalità.
È grazie a questa capacità di apprezzare i sentori della politica che, in un sistema monarchico basato sul seniorato, la consorte più potente di Abdel Aziz ibn Saud, Hussa bint Ahmed al Sudairi, riesce ad imporre in linea diretta e sequenziale i suoi figli; che la rivolta nell’est e l’assalto alla Mecca di Juhaiman al-Otaybi e dei suoi Ikhwan nel 1979 si risolvano senza problemi per la Corona e che Riyadh conquisti da ultimo la palma dell’Expo 2030, sfilandola ad un’inane Roma. La inedita e cosmopolita Riyadh è pronta ad accogliere il mondo; non più solo una valenza regionale ma un anelito globale, accompagnato e sostenuto (eccome!) dall’adesione ai Brics. Non è tutto oro quel che luccica: al fianco di quelle che appaiono come aperture, aumentano le asperità sociali; un rovescio della medaglia che non ha impedito a MbS di vincere, per il momento, la competizione per la corona. Vision 2030, la sua creatura, è segno della riduzione della dipendenza dal petrolio e simbolo della lotta alla corruzione ma soprattutto alla dissidenza. Eppure, malgrado l’annuncio saudita di piani di lavoro come Neom ed il Progetto Mar Rosso, gli EAU sono ancora leader per investimenti diretti esteri che Riyadh cerca di attrarre a sé.
Accanto al monopolio dello Stato si affacciano le privatizzazioni di Saudi Aramco ed una differenziazione commerciale che arricchisca tutti i comparti economici, non solo quello petrolifero; non è certo la ricchezza fossile l’unica molla che sospinge il reddito pro capite saudita. Attenzione, è puro e semplice interesse, visto che le sanzioni comminate alla Russia hanno agevolato un nuovo/vecchio boom energetico alternativo. Politicamente Riyadh intende assurgere alla funzione di ago della bilancia, svecchiando il sistema wahhabita; le tensioni politiche, alimentate dalle Primavere, espressione della Fratellanza Musulmana, o da errati indirizzi politici occidentali, si sono riverberate su lotte di potere regionali e su minacce asimmetriche rese più pungenti dai dubbi nutriti sull’imperialismo iraniano che si alimenta specularmente delle stesse incertezze, sull’affidabilità del supporto degli USA, politicamente declinanti ma mentori della potenza israeliana, relativamente più indipendenti di prima per l’energia, inconsapevoli dell’internal clash of civilizations quale gioco a più dimensioni in atto nell’area mediorientale tra regimi politici e diverse declinazioni musulmane. Un’inconsapevolezza dell’ovest, miope sia sulle interpretazioni mediorientali delle proprie politiche, sia sulla rilevanza dei volumi di risorse energetiche in transito per i choke points cui la Cina dedica un’attenzione spasmodica dettata dal bisogno: la geografia del resto rende l’Arabia segmento centrale tra Oceano Atlantico, Mediterraneo e Oceano Indiano, con un’attenzione particolare per i due mari regionali (Mar Rosso e Golfo) e l’incentivazione offerta dal GCC, evidenziatosi come l’organizzazione cooperativa araba più efficace, ma intaccato dalla competizione tra Emiratini e Sauditi, che mal tollerano concorrenti proattivi; dagli EAU, votati alla spiccata propensione commerciale marittima, e dalla querelle diplomatica qatarina. La domanda energetica occidentale diminuirà (forse), ma questo non decrementerà la richiesta asiatica, anzi. Ovviamente il quadro non può non tenere conto dell’egemonia marittima della US Navy, in grado di difendere qualsiasi posizione geografica altrimenti alla mercé di chiunque, Houthi docent.
Economicamente Riyadh influenza il controllo delle quantità di greggio estratte indirizzandone il prezzo OPEC+, laddove in Cina, alle prese con la crisi innescata da Evergrande, ed India aumenta la domanda; mentre gli USA offrono maggiori volumi di petrolio malgrado la COP28, il Regno saudita continua nella sua politica di differenziazione.
Nell’ambito della normalizzazione tra Paesi arabi ed Israele, gli EAU sono molto più pragmatici e, pur a fronte della crisi gazawi, non intendono mischiare il commercio con la politica; tuttavia inevitabilmente il conflitto metterà alla prova le relazioni diplomatiche sancite dagli Accordi di Abramo, raffreddando la liaison tra Riyadh e Gerusalemme specie per quanto concerne l’IMEC , la risposta americana alla BRI, un’alternativa insidiata dall’asse della resistenza iraniana. Comprensibile come le monarchie del Golfo abbiano inteso diventare ora il punto focale mediorientale per puntare poi a regioni sempre più vaste, come testimonia il realismo dell’accordo stretto dai Saud con Teheran mercè la benedizione cinese: giocando su più tavoli Riyadh tenta di bilanciare pericoli e certezze dopo lo scontro yemenita che ha portato all’attrito by proxy con l’Iran; ma è un accordo effimero, che ha bisogno di garanzie da parte di Pechino per le quali l’Arabia mantiene intatta un’exit strategy con Washington, caso mai qualcosa non funzionasse. Attenzione però: questa volta Riyadh non concederà nulla, ma cercherà di ovviare alle debacle diplomatiche riprendendo contatti diplomatici sia con la Turchia erdoganiana post sisma, beneficiata di elargizioni in valuta yankee che qui non olet, sia con la Siria e comunque con propensioni verso gli investimenti più che verso le elargizioni sic et simpliciter. Anche il Libano dei prolungati vuoti istituzionali e finanziari è oggetto di attenzioni saudite con Qatar, USA, Francia; nel frattempo, secondo una politica multipolare e paritaria, Riyadh ha continuato a mantenere rapporti amichevoli con Mosca, secondo un disegno frutto di manovre strategiche pianificate che hanno condotto ad una revisione della guerra in Yemen ed alla contestuale riapertura politica con partner e antagonisti riacquisendo peso ed influenza utili al successo di Vision 2030, ovvero alla trasformazione saudita in potenza finanziaria regionale riducendo la dipendenza dalle entrate petrolifere soggette a crisi economiche endemiche.
L’ascesa del regno quale potenziale hub tecnologico complica tuttavia la strategia statunitense, in particolare in ambito semiconduttori e AI, ragion per cui Washington vorrebbe incorporare i poli tecnologici emergenti del MO per evitare che diventino dipendenti da Pechino, mentre Riyadh ha stipulato contratti di partnership con alcuni dei campioni tecnologici occidentali, come Microsoft e Oracle.
Indubbiamente la guerra non agevola la politica di MbS, privato della stabilità necessaria a permettere la diversificazione economica e contrario ad un coinvolgimento diretto nell’affaire post bellico a Gaza, visto che le motivazioni per un accordo con Tel Aviv, costretta a mettere sul piatto un’offerta irrinunciabile, non sono venute meno, che il supporto americano è comunque necessario, che c’è poco afflato con Hamas che ha determinato la crisi; è altresì evidente che un ritorno al tavolo negoziale con Israele, presupporrà l’accoglimento di richieste che Washington dovrà esaudire in termini tecnologici, militari, nucleari.
È opinione comune che Israele possieda armi atomiche mentre l’Iran sta portando avanti il suo programma in una guerra d’ombre con Gerusalemme; lecito attendersi un interesse saudita nello sviluppare un suo deterrente secondo il paradigma della ricerca nucleare protetta con il consenso americano.
Insomma, chi era convinto di trovarsi di fronte all’ennesima scatola di sabbia dovrà ricredersi, quanto meno per la volitività dimostrata dall’attuale Principe ereditario, su cui la storia dovrà pronunciarsi, egli stesso simbolo di un rinnovamento istituzionale senza il quale non avrebbe forse potuto ambire alla corona. Il Regno, pur con diverse sbavature, sta sviluppando un proprio contorno politico internazionale; il problema occidentale è comprenderne i limiti, in primis da parte degli USA protagonisti, già dalla Presidenza Obama, di scelte opinabili e che a tutt’oggi riverberano, con l’imbarazzo del Presidente Biden e la freddezza di MbS, i loro effetti. La politica saudita, con strategie comunque definite, meno leziosa della nostra, di strategie drammaticamente a secco, si propone come un prodotto di sintesi coltivato in un laboratorio politico multipolarista tutt’ora in fieri, dove il realismo tinge i composti e pone le relazioni in bilico su di una sottile stringa rossa.