Il 12 Aprile del 1811 centinaia tra uomini, donne e bambini assaltarono la fabbrica di filati di William Cartwright nel Nottinghamshire: erano i Riparatori di ingiustizie che, con questo gesto, urlavano il loro odio contro quelle nuove macchine, causa del loro sfruttamento, della loro alienazione e della loro vita di stenti. Vennero processate 164 persone: grazie alla nuova Framebreaking bill, la legge contro i distruttori di macchine, tredici vennero condannate a morte. Tra i membri della Camera dei Lords soltanto il poeta romantico Lord Byron si oppose a questa legge.
Quando lasciò l’Inghilterra, a causa degli innumerevoli scandali in cui era coinvolto, scrisse nel suo poema Song For The Luddites il verso “And down with all kings but King Ludd!” (E abbasso tutti i re, tranne Re Ludd!). Si riferiva a Ned Ludd, un operaio inglese che avrebbe distrutto, vent’anni prima, un telaio dell’industria dove lavorava, colto da un “impeto di passione”. Nulla è certo riguardo questo uomo: se è mai esistito, se era tra gli organizzatori delle prime rivolte, se era uno pseudonimo o se semplicemente era un mito tramandato nelle fabbriche e nelle case degli operai, simbolo di rivolta e giustizia. Quello di cui si è certi è che in suo nome migliaia di persone, i luddisti appunto, distrussero e sabotarono macchine come reazione al nuovo sistema produttivo che aveva rivoluzionato, e di fatto reso quasi totalmente inutili, antichi mestieri artigiani. Successivamente le proteste del proletariato vennero monopolizzate dalle prime trade unions e dal nascente movimento comunista, che non rifiutava affatto l’industrializzazione, essendone di fatto figlio, ma criticandone la struttura e guidando le lotte per i diritti dei lavoratori. Di luddismo non si sentì più parlare, ma rimane una delle prime forme di protesta del nuovo proletariato urbano: istintiva, spontanea, irrazionale.
A distanza di due secoli la diffidenza verso le nuove tecnologie ha cambiato sicuramente forma ma continua ad essere presente in una parte della popolazione mondiale che vede in queste la causa della crescente disumanizzazione, dal punto di vista sociale, e della disoccupazione, da quello economico. Da questo punto di vista si parla specificamente di disoccupazione tecnologica per intendere quella parte della disoccupazione causata dall’ingresso nella produzione di nuovi robot, macchinari e automazioni in generale che vanno a sostituire mansioni precedentemente svolte dall’uomo. Un fenomeno che non riguarda esclusivamente le professioni meno qualificate e più ripetitive, ma anche quelle che fino a pochi anni fa erano considerate oro colato: basti pensare a come il fintech abbia causato la chiusura di innumerevoli filiali di banche e relativi licenziamenti dei loro dipendenti. Gli studi che provano a misurare questo fenomeno e a prevederne le conseguenze future sono tanti, con risultati spesso differenti a seconda del settore o del paese analizzato.
È vero che storicamente le rivoluzioni tecnologiche distruggono delle professioni e ne creano di nuove (basti pensare a tutte le recenti opportunità in ambito intelligenza artificiale, internet of things, big data, blockchain e industria 4.0 in generale) ma né possiamo sapere quanto sarà lungo questo processo e che livelli di disoccupazione implicherà, né siamo sicuri che nel futuro ogni cambiamento epocale permetterà di tornare, o arrivare, a livelli di piena occupazione.
Nell’affrontare questa tematica ci sono due grandi teorie agli estremi: da un lato i sostenitori del libero mercato pensano che le nuove tecnologie faranno spostare progressivamente e naturalmente le persone verso le nuove professioni richieste e il livello di occupazione dipenderà così esclusivamente dal costo del lavoro; dall’altro ci sono gli accelerazionisti, coloro che vogliono sfruttare le innovazioni tecnologiche del capitalismo contro di esso, per la creazione di un sistema caratterizzato dalla piena automazione industriale dove la tecnologica è totalmente a servizio dell’umanità e non meramente del profitto dei privati. Queste due teorie opposte hanno però in comune l’idea che la rivoluzione tecnologica troverà soluzione nel lungo periodo e non tengono conto né degli effetti distruttivi immediati né di come agire durante questa lunga transizione. A riguardo ci torna utile la massima di Keynes per cui “In the long run we are all dead” (Nel lungo periodo siamo tutti morti). Partendo dal rifiuto di ogni teoria neoluddista per cui “i robot ci ruberanno il lavoro” (del resto puoi rifiutare la tecnologia solo finché non ne hai bisogno, a meno di scelte di vita eremitiche), proviamo a capire quali soluzioni potrebbero essere applicate per minimizzare gli effetti negativi di una rivoluzione tecnologica nel breve e medio termine.
Innanzitutto l’istruzione dovrebbe essere adattata al presente, che non significa cambiare ogni anno il programma scolastico per ogni età sulla base delle professioni più ricercate, ma inserire nuove materie specifiche per far capire cosa è il mondo oggi e cosa significherebbe andare a specializzarsi poi su determinate materie. Basti pensare che per molte nuove figure professionali anche le università sono insufficienti, costringendo poi di fatto gli studenti a formarsi individualmente per colmare le lacune lasciate da percorsi di studi spesso incompleti o a proseguire con master post-laurea specifici, spesso economicamente inaccessibili se non attraverso debito, con tutte le conseguenze negative del caso, e che oltretutto ti inseriscono nel mercato del lavoro con stage o in generale contratti sottopagati. Dal punto di vista strettamente occupazionale per minimizzare le conseguenze distorsive della tecnologia ci sono diverse strade percorribili; fermo restando il rifiuto del laissez-faire per cui un cinquantenne licenziato da una fabbrica metalmeccanica dovrebbe autonomamente riciclarsi come social-media manager o ingegnere informatico e competere con un diciottenne cresciuto con queste tecnologie.
La prima è la più classica e in parte già attualmente in uso: sussidio di disoccupazione, eventuale formazione del lavoratore licenziato e facilitazione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Un’altra è invece molto più utopistica, tra l’altro cavallo di battaglia degli albori di Beppe Grillo: reddito universale di base (Universal Basic Income). Questo consisterebbe nella concessione periodica a tutti di un reddito almeno sufficiente a coprire le spese primarie della vita, così da evitare situazioni di povertà e rendere le persone meno ricattabili dal lavoro. Il dibattito su questo è sempre più grande e globale, fin troppo per essere approfondito in questa sede in cui ci limitiamo a riportare l’idea, purtroppo ancora priva di consistenti esperimenti e solide ricerche. Un’altra idea che sta riprendendo fama è quella della diminuzione dell’orario di lavoro a parità di salario, andando quindi a diminuire profitti e/o tasse (il “lavorare meno lavorare tutti” di socialista memoria).
In ogni caso ciò che non dobbiamo dimenticarci è che storicamente nessuna conquista delle classi sociali meno abbienti è avvenuta per concessione. Ogni soluzione che non sia il laissez-faire va infatti a colpire, più o meno sensibilmente, i profitti e/o le rendite dei ceti più ricchi e benestanti. È inconcepibile pensare ad una qualsiasi alternativa che vada bene a tutti indistintamente, che esuli dal concetto di lotta di classe. Forse più moderna, con classi sociali diverse da quelle del secolo scorso, con modalità e parole differenti: si tratta sempre della lotta tra gli interessi di una parte maggioritaria della popolazione e quelli di una minoritaria. Pensiamo ad esempio al nuovo settore del food delivery o a quello esploso recentemente dei corrieri, i cui lavoratori hanno salari bassissimi, nessuna certezza o garanzia e operano in condizioni pessime per la loro incolumità fisica.
Per questi motivi dovremmo opporci a questi servizi, che nonostante la nostra ostinazione continueranno ad esistere, o dovremmo chiedere contratti, aumenti salariali e sicurezza? Perché questi rientrano tra i quei tanto acclamati lavori creati dalla tecnologia: combatterne l’esistenza significherebbe spalleggiare la disoccupazione tecnologica. Oppure pensiamo alle più grandi aziende tecnologiche mondiali come Amazon e Google, talmente grandi da contrattare annualmente con i governi quante poche tasse pagare. Boicottare singolarmente questi giganti può essere un’azione nobilissima, ma i loro profitti non verranno toccati. Dovremmo quindi snobbarli sperando un giorno che altre persone si aggreghino a noi, o dovremmo chiedere il giusto pagamento delle tasse dove operano, il rispetto della concorrenza e dei diritti d’autore e il trattamento etico e trasparente dei nostri dati personali?
Se certe tematiche non vanno affrontate criticamente dal basso in un’ottica conflittuale, ogni discorso su reddito di base, diminuzione delle ore lavorate, sussidi di disoccupazione e quant’altro sarà fine a sé stesso. Se non si offre cioè un’alternativa alla rivoluzione tecnologica che non sia mercatista il futuro sarà caratterizzato da una sempre maggiore concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, dalla scomparsa della classe media, da crescente povertà, disuguaglianza, disoccupazione e ricattabilità del lavoro; a cui si opporranno soltanto piccoli gruppi sostenitori del primitivismo e del Re Ludd. Quindi si parli di tecnologia e innovazione, ma si tenga sempre presente che non domare umanamente e guidare politicamente questa rivoluzione ci porterà ad un futuro ancora peggiore. Dipende da noi se vogliamo la tecnologia a servizio del profitto o a servizio dell’umanità.