La più nota conclusione della ricerca di Hume, quella riconosciutagli da Foucault ne La nascita della biopolitica, riguarda il ripensamento del concetto di individuo alla luce della razionalità. Come spiega Stefano Marengo dell’Università di Torino, si passa dall’individuo al soggetto, dove quest’ultimo: «È in primo luogo un soggetto d’interesse, volto in quanto tale alla soddisfazione dei propri bisogni e desideri».
La razionalità si erge ad unico fondamento sottostante le vicende umane, una razionalità che è anche metro e contrappeso della moralità. Esiste (e ha senso di esistere) una moralità solo in quanto razionale, condivisa intellettualmente. Una moralità che è compromesso tra i singoli desideri degli agenti. In questo senso attribuire ai mercati la smaccata tendenza ad autoregolarsi corrisponde al proporre una complessa teoria antropologica. Una tale dottrina della razionalità prevede che, nel momento in cui gli individui sono liberi di spingere, e di spingersi, verso i propri desideri, tendenzialmente muoveranno verso la strada migliore, quella che è allo stesso tempo moralmente più giusta e il più razionale compromesso fra i desideri di tutti.
L’illusione che il mercato – in quanto entità astratta o in quanto rete di interessi ordinati – sia determinato razionalmente e che i fenomeni che lo regolano siano empiricamente dimostrabili è un’illusione strutturale. David Graeber, con il suo Bullshit Jobs ha raccolto numerose testimonianze di persone che occupano posti di lavoro inutili, tanto che gli stessi intervistati faticano a comprenderne il senso. La ricca tassonomia di occupazioni inutili elencate dall’antropologo americano rende conto di un sistema completamente irrazionale. Secondo Graeber, l’idea stessa che del grande shift dell’economia mondiale verso i “servizi” è un’illusione: ad essere ascesi prepotentemente alla ribalta tra gli anni Ottanta e ora sono proprio queste occupazioni inutili, schiere di subappaltatori di subappaltatori senza una vera utilità. Alla base di queste professioni, per così dire, c’è spesso , secondo Graeber, un bisogno ostensivo degli alti quadri dirigenziali delle aziende: io ho una schiera di analisti che computano, non perché mi servano razionalmente ma perché posso farlo. Per usare le parole di Graeber:
«Se sei un amministratore delegato, vieni elogiato per quante persone puoi licenziare, ridimensionare e accelerare. A essere ridimensionati e accelerati sono i colletti blu, quelli produttivi, i ragazzi che stanno effettivamente facendo le cose, spostandole, mantenendole, che fanno il lavoro vero»
Ciò comporta un’ideologia radicata nella struttura aziendale che Graeber – con un discreto grado di approssimazione – chiama “feudale”, per cui:
«Nessuno legge mai [questi] rapporti, sono lì solo per lampeggiare. È l’equivalente di un signore feudale: ho un ragazzo il cui lavoro è solo quello di pinzarmi i baffi e un altro che mi sta lucidando le staffe e così via»
Se da un lato sono forme irrazionali – che si traducono in modelli di potere ostensivo – le modalità con cui si accede e si vive il lavoro per i quadri intermedi, la situazione è altrettanto confusa per i piani alti. Karen Ho, in uno studio sulle banche di investimento americane, si è trovata a interfacciarsi con il rapporto tra le banche di investimento e le aziende americane.
Il recente campo di studio sociale della finanza si è concentrato sui dispositivi tecnici e alla finanza di mercato, piuttosto che sui modelli di controllo e alla finanza di impresa. Il libro di Karen Ho, è quindi particolarmente illuminante perché propone una riflessione culturale sulle fusioni-acquisizioni, le ristrutturazioni e altri meccanismi sociali, con l’obiettivo di identificarne la fonte istituzionale e i fondamenti normativi. La tesi dell’autrice è relativamente semplice, seppure mai formulata direttamente: le trasformazioni che hanno interessato il tessuto produttivo americano sono il risultato di una “acculturazione”, nel senso che la cultura propria dell’alta finanza è stata gradualmente esportata verso l’industria. In altri termini, Wall Street ha tentato di modellare il mondo delle imprese a propria immagine e somiglianza. Questa cultura è battezzata dalla Ho come “cultura della liquidità”, perché promuove la continua distruzione e creazione di impieghi e strutture organizzative e contemporaneamente l’identificazione astratta con le leggi del mercato.
Rompendo con l’idea che vuole i finanziatori come licenziatori incalliti e i salariati come vittime sacrificali, Ho mostra come le stesse banche di investimento siano immerse in una cultura di insicurezza di impiego. Questa cultura è istituzionalizzata attraverso delle “purghe” che si producono a intervalli regolari, anche durante periodi particolarmente redditizi. Secondo l’autrice, la ciclicità e la casualità di questi eventi rinviano alla dimensione esterna e all’astrazione del concetto di mercato con il quale le banche di investimento si identificano, rassomigliando a dinamiche totemiche. Ovviamente, essendo vincolate ad un’esistenza di insicurezza, le banche stesse danno per scontato che anche i loro dipendenti dovrebbero essere flessibili tanto quanto loro.
A farne le spese sono gli stessi broker, che fungono da attori di un sapere iniziatico che di razionale ha solo il vestito. La razionalità dello schema di retribuzione è abbastanza intuitivo: più alto è il rischio, più è alta la retribuzione. Questo principio conduce le banche stesse a fare affari senza curarsi delle conseguenze: i bonus vengono intascati a transazione avvenuta, e il banchiere che l’ha compiuta potrebbe essere licenziato l’indomani. Per dirla in altri termini, i banchieri non sono incoraggiati a costruire un pacchetto azionario stabile, ma vogliono concludere il maggior numero di transazioni nel minor tempo possibile.
Un recente articolo di Leopoldo Gasbarro per Wall Street Italia si intitola, programmaticamente, “Cos’hanno in comune la lettura delle carte e le previsioni sui mercati?”. Nel breve scritto, si presenta l’operato di Alfred Cowles, un economista americano che si chiedeva come mai un gran numero di americani pagasse fior di quattrini per avere delle previsioni di mercato. Le preoccupazioni di Cowles ritornano ad essere attuali nella nostra situazione, in cui viene accordata alle leggi che regolano il mercato quel misto tra deferenza e incomprensione che un tempo rivestiva le scritture religiose.
Saperi che ricalcano dinamiche totemiche e strutture di potere con funzioni meramente estetiche rendono vivide e incredibilmente vicine a noi figure antiche – lo sciamano, il feudatario – che pensavamo relegate nel profondo del nostro passato pre-razionale.