Dal 24 febbraio 2022, l’invasione russa dell’Ucraina ha spezzato il torpore dell’Occidente, riportando in superficie l’incubo atomico: la Bomba non è più un’astrazione remota, ma l’eco costante di una minaccia che si è fatta semi-quotidiana. Di giorno resta tabù, ma la notte ritorna, nei funghi che si alzano all’orizzonte, nei corpi vaporizzati dall’abbagliante luce bianca dell’annientamento. Nel frattempo, la minaccia nucleare ha mutato funzione, dalla dissuasione all’assuefazione. L’atomica si è smarcata dalla sua natura deterrente per farsi linguaggio, codice implicito del confronto geopolitico. La deterrenza nucleare ha perso la sua essenza – troppo evocata, mai attuata, la minaccia si è svuotata di senso. Ironizzarci sopra è diventato il nostro modo di esorcizzarla, almeno finché prima o poi non prenderà corpo, lenta, sotto forma di probabilità crescente.
Nel novembre 2024, la nuova dottrina nucleare russa ha sancito un cambio di paradigma: «Ogni attacco condotto da un membro di un’alleanza militare sarà considerato un’aggressione dell’intera coalizione.» Se percepita come umiliata, la Russia si riserva il diritto di ricorrere all’arma nucleare anche in risposta a un’offensiva convenzionale – purché orchestrata da uno Stato appoggiato da una potenza nucleare.
Intanto, India e Pakistan si affrontano carsicamente e con indifferenza verso l’abisso atomico, mentre lo stallo tra Iran e AIEA si è rotto dopo il controproducente bombardamento israelo-americano del giugno 2025, ha finito per concedere a Teheran un vantaggio strategico: nove giorni di esitazione americana hanno concesso agli iraniani il tempo sufficiente per mettere da parte oltre 400 chili di uranio arricchito al 60% e spingere, sottotraccia, verso la Bomba.
Il rischio di un olocausto, pur confinato alla sfera delle ipotesi, rappresenta una possibilità costantemente latente. La semplice esistenza di arsenali atomici implica che l’autodistruzione dell’umanità sia affidata non tanto al capriccio politico, quanto alla portata di corto circuito algoritmico o di errore umano. L’idea che l’umanità possa annientarsi da sola, intenzionalmente o per incidente, ha radici profonde nel pensiero del Novecento, alimentata dal trauma delle bombe su Hiroshima e Nagasaki e già presente nella disumanizzazione della guerra inaugurata nel 1914. È bene ricordare che le due atomiche furono “soltanto” il culmine di una lunga guerra convenzionale, non il suo prologo.
Come è possibile che il principio della deterrenza nucleare, fondato sulla minaccia della distruzione reciproca (MAD), sia stato accettato così passivamente – e, in certi casi, persino con un senso di rassicurazione – da parte dell’umanità? Non possiamo liquidare la questione dicendo semplicemente che esistono gruppi ristretti di uomini potenti che agiscono nell’ombra, in segreto e a danno del resto del mondo. Questa sarebbe una spiegazione comoda, ma insufficiente. Dobbiamo almeno tentare una riflessione più profonda, non per giungere a una verità assoluta, ma per individuare un principio di partenza che ci aiuti a interpretare, almeno in parte, la reale struttura della natura umana.
Fu proprio la Prima guerra mondiale a suggerire per la prima volta l’ipotesi che l’uomo fosse destinato a distruggere sé stesso. Lo spettacolo di popoli “civili” che si offrivano al massacro con tanto zelo convinse Sigmund Freud, pioniere della cartografia psichica, che in noi opera un istinto auto distruttivo. Egli riformulò l’intuizione in chiave psicoanalitica con Thanatos, l’istinto di morte: una spinta originaria alla dissoluzione che coesiste con Eros, principio vitale. L’uomo – scrive Freud – è spinto dal principio del piacere. Ma a dispetto di questa spinta apparente, la sua traiettoria psichica è tutt’altro che lineare, e spesso si muove in direzione opposta, verso il dis-piacere, verso la coazione a ripetere il trauma, verso la dissipazione. Un paradosso solo in apparenza. Perché in realtà, a muoverci – in profondità – è il desiderio inconfessabile della fine. Freud stesso, appoggiandosi alla teoria biologica di Hering, parla di un ritmo profondo e alternato nella vita organica: una pulsione costruisce, l’altra disgrega; una prolunga l’esistenza, l’altra abbrevia il cammino verso la morte.
Già nel dibattito degli anni Cinquanta e Sessanta, la guerra nucleare non veniva concepita come una mera eventualità, ma come l’esito quasi inevitabile di una traiettoria storica giunta a maturazione. Non era solo il cinema di Kubrick a cogliere questa tensione sotterranea, anche Bertrand Russell metteva in guardia, affermando che la guerra totale non era un’ipotesi astratta, ma una certezza sospesa nell’attesa del suo detonatore.
Anche lasciando da parte la teoria freudiana, il panorama resta tutt’altro che rassicurante. La storia ha mostrato più volte la propensione dell’umanità a precipitare in spirali distruttive, spesso alimentate da passioni collettive come l’orgoglio etnico o religioso (leggere identitario), per la sopravvivenza o per la pretesa di affermarsi. In questi contesti, le decisioni si distaccano dalla razionalità, guidate più da impulsi viscerali che dalla ragione. Di conseguenza il giudizio razionalesi annebbia, le vittorie vengono sovrastimate, mentre i costi reali vengono sistematicamente sottovalutati.

Nei circoli strategici degli apparati securitari a stelle e strisce, la possibilità di un impiego nucleare non è più un tabù, ma una linea di pensiero operativa che si insinua con sempre maggiore disinvoltura nei sussurri che si scambiano dietro porte blindate. Dibattiti più recenti articolano scenari di impiego “limitato”, calibrato, persino gestibile – come se la bomba potesse ridursi a uno strumento chirurgico, riservato, selettivo. A un primo colpo nucleare potrebbero seguire risposte proporzionate: dalla resa immediata, a uno scambio uno-a-uno di testate, fino a campagne convenzionali su larga scala volte a decapitare il comando nemico o a disarticolarne la struttura economica.
Tutto ruota attorno alla natura del bersaglio, un colpo contro città o civili spalancherebbe le porte all’escalation della crisi, uno su obiettivi militari isolati potrebbe – si dice – restare contenibile. Ma il vero punto non è nella potenza, bensì nel precedente psichico dell’atto di “sdoganare” l’uso della bomba, che basterebbe a incrinare l’intero impianto deterrente, infrangendo il tabù che da decenni regge l’equilibrio nucleare. L’atomica, cessando di essere l’arma dell’impensabile, diventerebbe opzione tra le altre. Banalizzazione dell’apocalisse, ciò che era impraticabile si fa possibile.
Il lume del ragionamento geopolitico si manifesta nel “pensiero tragico” evocato da Robert D. Kaplan. Non è questione di cedere al pessimismo, ma di affrontare con lucidità lo scenario peggiore, per imparare a evitarlo o, almeno, contenerne le conseguenze. È il tentativo di guardare il mondo non per come dovrebbe essere, né per come vorremmo che fosse, ma per ciò che è – e per ciò che potrebbe diventare, se abbandonato alle derive dell’irrazionale e al disordine delle passioni umane. Significa esercitare la volontà di vedere, anche di fronte alla ripugnanza di ciò che si para davanti allo sguardo. Non rifugiarsi nel conforto delle illusioni, come lo struzzo che si infila la testa nella sabbia, ma sostenere il peso della realtà nella sua forma più cruda.
In questo senso, Donald Trump nel 1990, mise in luce la contraddizione al cuore della deterrenza nucleare in un’arcinota intervista a Playboy. Con tono quasi filosofico, denunciò l’ipocrisia di un mondo che si rifiuta di affrontare concretamente il problema più grande dell’umanità: «È un po’ come la malattia. Le persone non credono di potersi ammalare finché non accade. Nessuno vuole parlarne». Concluse con brutale franchezza: «Credo che la più grande delle stupidità sia pensare che non accadrà mai, perché tutti sanno quanto sarebbe distruttivo, quindi nessuno userà le armi. Che cazzate».
Lo stesso Tycoon, con la sua retorica soltanto apparentemente rozza o provocatoria, qualche anno più tardi solleva ulteriori domande. Durante il suo primo mandato, avrebbe chiesto più volte: «Se abbiamo armi nucleari, perché non possiamo usarle?» Dichiarazione che ne svela la contraddizionee illumina il bluff, infrangendo la logica stessa della deterrenza nucleare. E dunque: se la bomba non può mai essere usata, smette di essere un deterrente credibile. E se diventa solo una minaccia astratta, lo spazio per attacchi convenzionali si amplia – poiché gli avversari non temono più una risposta atomica devastante. Cortocircuito.
L’essere umano non può permettersi di sottovalutare l’irrazionalità delle sue pulsioni, né dimenticare quanto fragile sia l’equilibrio che separa la deterrenza dalla distruzione. Il pensiero da veicolare non è ideologico, ma auto-critico, capace di pensare l’impensabile per impedirgli di accadere. Al tempo stesso, è necessario interrogarsi se i presupposti su cui per anni si è retta la logica della deterrenza siano ancora validi, o se il mutato contesto geopolitico ne abbia svuotato il senso e l’efficacia.
È la capacità di immaginare i nostri incubi che ci offre una possibilità di salvezza. Solo prefigurandocene la concretizzazione, possiamo sperare di esorcizzarli. La “tragedia” di Kaplan non insegna solo a convivere con il dolore ma a riconoscere il momento in cui il destino può ancora essere deviato.
Restiamo, per ora, nel campo della speculazione geopolitica, ma è proprio in questa fase che discutere di tali ipotesi diventa essenziale per coglierne i pericoli latenti. Non possiamo più permetterci il lusso di sottovalutare la situazione.
Sospesi tra passato e futuro, ci muoviamo in un tempo che sembra ripiegarsi su sé stesso. Lancette di orologi metaforici scorrono all’indietro, riconsegnandoci a un presente intriso di Guerra Fredda. Nel gennaio 2025, il Bulletin of the Atomic Scientists ha aggiornato (di nuovo) il Doomsday Clock, portandolo a soli 89 secondi dalla mezzanotte – closer than ever. Punto più vicino all’estinzione mai raggiunto nella storia dell’umanità.