Funziona così. Croce e delizia del sistema maggioritario, pane per i politologi, dilemma per chi guarda la politica col binocolo. Il dato più significativo di queste giornate di voto che hanno coinvolto circa cento milioni di cittadini, fra Regno Unito e Francia, è proprio l’influenza che una legge elettorale può avere. Il laburista Keir Starmer e la nazionalista Marine Le Pen hanno preso circa gli stessi voti (qualche centinaio di migliaia in più, a dire il vero, per la francese), ma da una parte si parla di successo totale e stabilità assicurata per anni, mentre dall’altra di quasi disfatta e Paese consegnato all’ingovernabilità. Sta tutto nel doppio turno, nella possibilità di unire le forze contro colei che a molti chilometri di distanza sarebbe già past-the-post.
Col senno di poi è facile trarre queste considerazioni: quasi nessuno aveva considerato, all’alba del 7 luglio, la strategia di Emmanuel Macron vincente. L’idea di una sinistra in accordo coi liberali, dopo che negli ultimi anni se le sono suonate di santa ragione senza sosta, allo scopo di arginare il Rassemblement era attesa. Ma che potesse avere un tale successo non era pronosticabile. Tanto che Ipsos era pronta a scommettere per una Le Pen con una rappresentanza parlamentare di diverse decine di seggi maggiore. Così si esprimeva Brice Teinturier, Direttore Generale Ipsos: «Una maggioranza senza il Rassemblement national mi sembra ad oggi molto difficile. Stiamo per incamminarci su un percorso inedito – che voi conoscete in Italia – in cui non si riuscirà a trovare una maggioranza di governo. Questo è il tema centrale». L’otto luglio la Francia si è svegliata con la certezza che Bardella non andrà ad abitare all’Hôtel Matignon, ed è veramente un colpo di teatro degno della fantasia dei migliori drammaturghi d’Oltralpe.
Difficile però considerare Macron lo stratega machiavellico che alcuni stanno cercando di dipingere. Non poteva, nei fatti, uscire più ridimensionato di così da queste settimane di voto, prima europeo, poi nazionale. Renew a Bruxelles sarà una stampella, come altre, di una possibile maggioranza di Von der Leyen, che oggi appare ancora più vicina a una riconferma. In Francia, Renaissance, come già l’FDP in Germania, si ritroverà a fare da ago della bilancia dei futuri equilibri governativi, con un Mélenchon galvanizzato e pronto a sfruttare l’occasione di una vita per arrivare al potere. Difficile sia lui il nuovo Primo Ministro. Le sue posizioni intransigenti nei confronti del Presidente della Repubblica lo rendono un alleato impossibile da considerare tale. Se non fosse poi che non riuscirà a intestarsi la vittoria senza che qualcuno gli faccia notare che il Nuovo Fronte Popolare è tutt’altro che un’alleanza solida.
Scrivevamo qualche settimana fa in un bollettino destinato ai nostri iscritti che la forza maggiore di Elly Schlein in Italia era la necessità per Giorgia Meloni di avere un nemico. Poiché non c’è nulla di più pericoloso che rimanere soli al comando, senza un’opposizione che possa definirsi tale. In Francia così è stato per la sinistra, che ha visto amplificato il proprio consenso da una paura per il Rassemblement National che non passa mai. E checché ne dica la leader, questo risultato complica di molto le cose nella corsa all’Eliseo. È indubbio che queste legislative abbiano portato ad un aumento considerevole della rappresentanza parlamentare, ma è pur vero che hanno anche confermato che due delle tre France sono disposte a scendere a patti pur di non permettere alla terza di arrivare al potere. Ed è un elemento fondamentale perché la Presidenza arriva solo conquistando il 50% +1 dei votanti. La strada dunque porta inevitabilmente ad un ammorbidimento delle posizioni, ad una conquista dei moderati: l’unico elettorato a cui si può puntare è quest’ultimo, andando a mobilitare gli eterni delusi dalla politica e una parte, quella più socialmente conservatrice, dell’elettorato macroniano.
La partita è molto più aperta di quanto fosse lecito attendersi e in un sistema come quello francese ad un periodo di frammentazione non può che seguire una netta scelta verso uno dei due poli. Perché l’indecisione alla lunga stanca, specie in un Paese che ha insito nel suo sistema gli anticorpi per sconfiggere questo male atavico della democrazia. Ma verso quale direzione? Mélenchon è troppo estremista, Le Pen ha perso troppe volte per poter continuare a farlo, Macron pare essere arrivato alla fine del suo ciclo. Intanto bisogna dirimere la questione Primo Ministro: difficile pensare il nome non emerga dalle fila del NFP, sebbene anche nel momento della vittoria si palesi come senza nemico il destino della coalizione sia quello di finire in brandelli. I nomi di Ruffin e Glucksmann sono i più accreditati, perché a differenza della vecchia volpe leader de La France Insoumise, meglio si presentano e più concilianti appaiono. Ma le aspirazioni di Mélenchon possono mettersi di mezzo, sebbene anch’egli sappia che senza i voti dell’attuale Presidente della Repubblica non si va da nessuna parte. Probabile quindi che il suo interminabile discorso dalla Rotonde Stalingrad sia servito più a tirare acqua al mulino del fronte che non alle proprie mire: «Sappia Macron che nessun sotterfugio, nessuna trattativa segreta sarà da noi accettata».
Così, mentre dall’altra parte della Manica la sinistra vive l’apice e comincia a guardare al momento della caduta, a Parigi la lotta si può dire ancora molto lunga. Rimane la vittoria, va detto senza facile retorica, della politica. Il voto francese ha dimostrato che i politici possono ancora fare politica, invece che essere figurine da apporre ad una sigla che sempre più comincia a considerarsi un brand invece che un’idea. E la legge elettorale è la summa dell’intelligenza politica di un Paese. E ciò, guardando dalle nostre parti, lascia parecchio depressi considerando che tutte sono state provate senza successo. È la legge elettorale che porta affluenza, poiché permette al singolo di far parte del gioco. Chissà a quale livello d’astensione toccherà arrivare prima di porla come priorità del nostro dibattito.