OGGETTO: Davit Gareja, il monastero conteso nel cuore del Caucaso
DATA: 20 Maggio 2020
SEZIONE: Reportage
In un remoto altopiano tra Georgia e Azerbaijan, da secoli patria di monaci eremiti, il crollo dell’Urss ha lasciato un controverso confine incerto e una città in rovina che ora vuole rinascere con il turismo
VIVI NASCOSTO. ENTRA NEL NUCLEO OPERATIVO
Per leggere via mail il Dispaccio in formato PDF
Per ricevere a casa i libri in formato cartaceo della collana editoriale Dissipatio
Per partecipare di persona (o in streaming) agli incontri 'i martedì di Dissipatio'

Nel cuore del Caucaso c’è un antico complesso di monasteri al centro di una delicata disputa territoriale e religiosa. Una delle tante spinose eredità del crollo dell’Unione Sovietica. Il sito di Davit Gareja, conteso tra Georgia e Azerbaijan, è composto da oltre una dozzina di monasteri e include centinaia tra chiese, cappelle, alloggi, grotte e refettori arroccati e scavati nella roccia, sparpagliati per un vasto altipiano a cavallo tra le due ex repubbliche sovietiche.

Un paesaggio lunare e semidesertico eletto nel VI secolo da Davit Gareja, asceta siriano con la missione di cristianizzare la Georgia, come luogo ideale per ritirarsi in eremitaggio. Ancora oggi monaci ortodossi con i loro caratteristici abiti neri abitano i monasteri e le grotte della zona.

Il paesaggio dell’altipiano

Ci inerpichiamo in mezzo agli alberi lungo il sentiero che porta al monastero di Udabno. Sopra il sentiero, come una sentinella, una piccola grotta contiene un altare finemente decorato con icone dorate. Più su due vere sentinelle, militari con il fucile a tracolla, scrutano l’orizzonte. Poco più avanti un soldato seduto pigramente tra i cespugli con il cellulare in mano alza il palmo verso di noi e ci dice semplicemente “no”, cortese ma inflessibile. Dopo il soldato, l’Azerbaijan. Ci aspettavamo lo stop e giriamo i tacchi. “Sorry”, ci saluta.

Sulla via del ritorno ci godiamo la splendida vista dall’alto del pittoresco cortile del monastero di Lavra: una corte su tre livelli, chiuso per metà dal fianco della montagna dove Davit scavò la propria cella, mentre sul terzo lato si trova la chiesa rupestre del VI secolo e il quarto si apre sulle immense distese dell’Azerbaijan.

La strada da Udabno per il monastero di Lavra

Lasciato Lavra, il 4×4 si arrampica a fatica sulla sconnessa strada sterrata che porta fino al monastero di Natlismtsemeli, quasi indistinguibile da lontano, incastonato com’è contro il costone roccioso, se non fosse per la piccola cupola blu che si stacca dallo sfondo color sabbia e l’alta torre che svetta sul crinale.

Il monastero è un piccolo gioiello, per metà eretto e per l’altra metà scavato nella roccia. La vastità del panorama mozza il fiato e la cappella del VI secolo, nonostante gli affreschi impietosamente consumati dall’umidità e dai vandali, conserva una grave sacralità, con l’oro delle icone ortodosse che baluginano alla fioca luce delle candele votive. Un monaco ci spiega a gesti come individuare tra le rocce lo stretto passaggio nascosto che porta in cima alla torre.

Monastero di Natlismtsemeli

L’isolamento qui non serviva solo ad avvicinarsi a Dio, ma anche ad allontanarsi dalla furia devastatrice degli uomini che nel corso dei secoli si addentrarono tra le montagne georgiane per depredarle. Ma nessun monte è abbastanza alto e nessuna valle impenetrabile: nel 1265 arrivò la distruzione mongola, circa un secolo dopo il saccheggio ad opera di Timur (Tamerlano), e infine la grande strage della notte di Pasqua del 1615, quando le truppe dello shah Abbas sterminarono 6000 monaci.

Forse qualcuno di loro ha aspettato la fine proprio dentro la stanza della torre dove siamo adesso, ultimo baluardo per una disperata difesa, asserragliati in cima alle anguste scale a chiocciola. Ora sulle pareti di pietra ci sono scritte in cirillico dipinte con la vernice. Ultimi nella lista degli invasori, nel XXI secolo arrivarono i sovietici, che utilizzarono la zona per addestrare le truppe da impegnare nelle aspre montagne dell’Afghanistan occupato.

Scritte in cirillico nella torre del monastero di Natlismtsemeli

Ma i graffiti sugli affreschi e le scritte in russo nelle grotte e nelle torri di pietra non sono l’unica eredità dell’Unione Sovietica. Il crollo del gigante russo ha lasciato anche 480 chilometri di intricati confini attraverso le tortuose montagne tra Georgia e Azerbaijan, spesso tracciati su vecchie carte di scala sufficientemente ampia da alimentare malintesi e polemiche una volta che, caduta l’Urss, gli insignificanti confini amministrativi sono diventati rigide frontiere tra stati non sempre amici.

A quasi 25 anni dall’istituzione di una commissione tra Georgia e Azerbaijan per stabilire una volta per tutte le reciproche frontiere, manca ancora un accordo su poco più di un terzo della lunghezza, compresa la zona intorno a Davit Gareja. A dir la verità, per anni la questione è passata in secondo piano, e monaci e turisti provenienti dal territorio georgiano potevano liberamente visitare tutto il sito, comprese le parti nel lato azero, senza restrizioni o controlli dei documenti. La situazione si è andata deteriorando da aprile scorso, in occasione della visita a Baku della presidente della Georgia Salome Zurabishvili. La scrittrice francese naturalizzata georgiana, già ministro degli Esteri di Saak’ashvili, ha voluto risollevare la questione dei confini, con tanto di foto ricordo nella zona contesa insieme alle guardie di frontiera georgiane, una volta rientrata in patria.

Udabno

Gli azeri hanno risposto chiudendo gli accessi al monastero di Udabno, che si trova sul loro territorio. Ne è seguita una manifestazione lungo il confine di cristiani georgiani, mobilitati in massa dalla chiesa ortodossa, che una volta morta l’ideologia comunista ha ritrovato un rinnovato vigore nella società, come testimoniato dalla nuova enorme cattedrale di Tsminda Sameba che troneggia di giorno e di notte sopra la capitale Tbilisi. “Il sito appartiene alla nostra storia e alla nostra tradizione”, dicono i georgiani, mentre gli azeri sostengono che il complesso faccia parte della cultura albàna (l’Albania caucasica, diversa da quella nei Balcani, è un antico regno considerato come progenitore dell’attuale Azerbaijan), non nascondendo comunque l’importanza strategico-militare della zona, che domina dall’alto tutta l’area circostante. Motivo questo alla base della decisione dell’Azerbaijan di rifiutare lo scambio di territori proposto da Tbilisi per risolvere la questione. Oltre al fatto che Baku è piuttosto prudente nel fare qualsiasi concessione territoriale, con il timore di far venire strane idee alla vicina Armenia in merito alla vecchia e sanguinosa disputa del Nagorno Karabakh, altro esplosivo regalo del defunto gigante sovietico.

E così si è arrivati al soldato gentile e determinato che ci sbarra il cammino.

Torretta di osservazione militare sullo sfondo

“In questo periodo è chiuso, ma voi provate comunque”, ci avevano consigliato i nostri ospiti, Khaka e Zia, la sera prima al nostro arrivo a Udabno, l’unico centro abitato dell’area. Una cittadina sovietica a una quindicina di chilometri dal monastero di Lavra (cuore del complesso di Davit Gareja), al centro di una ampia vallata in mezzo al nulla. Si chiama come il monastero in territorio azero, e il nome significa “Deserto”. Guardando l’interminabile steppa che si estende a perdita d’occhio si può apprezzare quanto il nome sia appropriato.

Qui attualmente vivono circa 200 famiglie e il medico più vicino sta a circa un’ora di macchina. La maggior parte sono Svan, abitanti dello Svaneti, un’isolata regione montana nel nord-ovest della Georgia, da sempre tormentata da smottamenti e frane. Alla fine degli anni ’80 i sovietici disposero il ricollocamento delle popolazioni delle zone a rischio a Udabno, letteralmente dall’altro capo del paese, e l’imponente macchina del Partito comunista georgiano mobilitò ogni sua organizzazione in una vasta campagna di solidarietà per dare una casa a questi migranti ecologici.

Monastero di Lavra

Mentre la visuale aerea di Google Maps permette di apprezzare la meticolosa pianificazione sovietica dell’epoca, che ricorda un ordinato comprensorio ben organizzato intorno alla piazzetta centrale, sul terreno la situazione attuale è ben diversa: strade divelte, case in cemento armato diroccate, carcasse di macchine, mucche che pascolano in mezzo alla strada. In mezzo a questo paesaggio desolante, al centro della piazza, garrisce la bandiera dell’Unione Europea del “Community center”: un monolite bianco e giallo brandizzato dall’Ue (come ad esempio anche tutte le stazioni di polizia della Georgia che sfoggiano la bandiera blu stellata accanto a quella nazionale) che rappresenta l’unica luce nelle nebbiose notti invernali. Al suo interno un bancomat, che come altrove nel paese permette di prelevare sia in lari georgiani che in dollari USA, e tre sonnolente impiegate.

Khaka arrivò a Udabno nel 1988 dallo Svaneti e, da come si emoziona quando ne parla, si capisce che ai suoi occhi di Svan la steppa brulla non regge il confronto con le montagne innevate e i verdi prati alpini della sua terra natia. Una terra mistica, patria del Vello d’oro di Giasone, di fieri guerrieri, di segreti e di leggende. È in questa regione – la più alta d’Europa, che neanche i mongoli raggiunsero mai – che i re georgiani nascondevano i loro tesori più preziosi, custoditi ancora oggi dagli abitanti nelle grotte o nelle case.

Udabno, community center

Ora il fratello di Khaka è uno dei monaci che vive in una delle grotte del complesso di Davit Gareja, nel monastero di Dodo Kareji. Lì i turisti non sono benvenuti e il perentorio cartello “STOP” all’imbocco del sentiero non lascia spazio a interpretazioni. “È veramente un sant’uomo”, dice di lui Khaka, che invece abita a Tbilisi insieme a Zia, scappata dall’Abkhazia nel 1991 a causa della guerra, e ai figli. L’estate la passano nella casa di Udabno, dove affittano le camere ai turisti che vengono a visitare i monasteri.

Qui si approfitta dell’inverno per prepararsi al loro arrivo: i bulldozer spostano tonnellate di terra per sistemare la strada sterrata che porta al sito e l’Oasis club – un vivace ostello/ristorante gestito da polacchi – costruisce una nuova guest-house. D’estate l’effetto post-unione sovietica del paese è attenuato dalla bellezza della valle tutto intorno e dalle montagne in lontananza, e Udabno rappresenta una base perfetta per le escursioni nella zona. Un motivo in più per cercare di risolvere la disputa con l’Azerbaijan prima dell’arrivo dell’alta stagione.

I più letti

Per approfondire

Il profeta della sorveglianza di massa

Un secolo fa Evgenij Zamjatin scrive “Noi”, il romanzo che anticipa le trame dello Stato totalitario e dell’uomo ridotto a numero. Dialogo con Alessandro Cifariello

La terra del cognac e la fine (forse) del conflitto

Gli accordi di pace a novembre dovrebbero interrompere l'infinita striscia di violenze nei luoghi del patriarca Noè: il Nagorno-Karabakh come linea di frattura della storia.

Dumézil e la funzione tripartita degli indoeuropei

L'esempio di Roma.

Sandro Teti

"Ho nostalgia del cielo terso di fine giugno, delle chiacchierate infinite davanti al tè o alla vodka. Ho nostalgia del treno, sono stato due volte in treno in Urss, due volte in nave. Da Odessa c’era un servizio di linea Odessa-Venezia. Era impressionante ai tempi fare quella lunga traversata, con quegli ambienti e quelle situazioni quasi da romanzo. Ho nostalgia del treno, di quei tempi lunghi, come di quei sapori e odori che sono spariti anche nella Russia di adesso. Ho nostalgia dell’odore di quelle Papirosi (marca di sigarette, ndr), con quel tabacco di infima qualità che era diffusissimo nel Paese. Un Paese al quale sono indissolubilmente legato, e di cui continuo a studiare la storia".

Identità e religione

Oltre la retorica dello scontro di civilità

Gruppo MAGOG