Come in molti hanno sottolineato, il 24 febbraio in Russia, e in tutto il mondo, dà il via a un difficile processo di ristrutturazione del mercato globale. Non si contano le aziende multinazionali che non vogliono più essere associate all’enorme numero di centri commerciali sparsi per Mosca e per le altre grandi città del Paese. La cooperazione internazionale cessa, e s’interrompono gli scambi di gas e di altre materie prime. Volente o nolente la Russia inizia in buona sostanza a “depurarsi” da tutto ciò che è occidentale e, in particolare, dai media di opposizione che sono stati a lungo tollerati dalle autorità. Le filiali russe di Novaya Gazeta e Dozhd TV vengono chiuse; anche la radio Ekho Moskvy, a lungo associata al Cremlino per via dei legami di Alexey Venediktov (caporedattore) con il portavoce di Vladimir Putin, Dmitry Peskov, viene repressa. Ma se alcune porte si chiudono, altre possono aprirsi. La Lettonia è diventata una di queste porte per le ora disoccupate risorse mediatiche.
Riga invita così i giornalisti russi che per via delle loro attività rischiavano in qualsiasi momento di essere imprigionati. L’invito implicava un accordo che qualsiasi liberale russo avrebbe voluto accettare, ossia la possibilità di criticare Putin e le sue azioni senza il rischio di alcuna censura, continuando a seguire la linea generale di comportamento ed etica occidentale. Per la Lettonia, la negazione totale di tutto ciò che di buono c’è in Russia e soprattutto l’ostentazione di una posizione contraria alla guerra è fondamentale, perché la Russia è il successore dell’URSS, e quindi di tutto il controverso passato sovietico. Così Dozhd, assieme alla nuova Novaya Gazeta (Europe) diretta dall’ex professore associato della Higher School of Economics (e vice del premio Nobel Dmitri Muratov) Kirill Martynov, e Venediktov con la sua Ekho Moskvy si trasferiscono a Riga. È interessante ricordare che già la Lettonia ospitava i pionieri del giornalismo di opposizione russo, ovvero Meduza, dall’ottobre del 2014. Meduza nasce dall’esodo dei giornalisti di Lenta.ru. Stavolta, però, mentre Meduza è riuscita a rimanere a galla per otto anni ormai, il nuovo arrivato Dozhd rischia di durare appena sei mesi.
Le cose sono cominciate ad andare male quando il giornalista e conduttore Alexei Korostelev ha affermato in diretta televisiva: “Molti dei nostri soldati sono stati aiutati, anche da noi, ad esempio con ulteriori equipaggiamenti…”. Quel “nostri” riferito ai soldati russi, oltre alla possibilità che l’emittente avesse sostenuto le truppe di Putin, non è andata giù e la frase ha segnato l’inizio di reazioni durissime provenienti da ogni dove. Nella trasmissione successiva, il caporedattore del canale, Tikhon Dziadko, ha iniziato a spiegare e a giustificarsi che Dozhd non aveva mai aiutato e mai avrebbe aiutato i soldati russi. Così arriva la decisione di licenziare il conduttore che aveva osato affermare una simile assurdità. In seguito, due giornalisti, Vladimir Romensky e Margarita Lyutova, decidono di licenziarsi per solidarietà con il loro collega, poiché “tutti hanno il diritto di sbagliare”.
Sembrava che la questione fosse stata risolta, ora che i dissidenti e gli infedeli se n’erano andati, alcuni di loro spontanea volontà, altri meno. Ma alle autorità lettoni non basta e annunciano una multa da diecimila euro e la revoca della licenza di trasmissione del canale. Nel giro di poche ore Natalia Sindeeva, Direttore Generale della rete, prende la parola e si rivolge in lacrime al pubblico e ai colleghi: “Abbiamo licenziato Lesha (Alexei Korostelev) per un errore. E dopo questi quattro giorni voglio correggere questo errore e dire a Lesha che mi dispiace”. Aggiunge poi: “Gli ucraini non ci perdoneranno per questa presa di posizione, ma io voglio mantenere la mia integrità”. Ma una volta che la polemica scoppia è difficile farla rientrare, è ancora più difficile riconquistare la fiducia dei tuoi ex colleghi e ascoltatori. Allo stesso tempo, è difficile biasimare dei russi per il fatto che parlino dei loro connazionali come “loro”, oltre al fatto di mettere il loro Paese al centro delle loro preoccupazioni. La questione diventa così quella di riuscire a trovare la linea di demarcazione, superata la quale l’opinione pubblica pro-Europa non si infurierà e il Paese in cui ci si trova non vi dichiari improvvisamente una “minaccia per la sicurezza nazionale”. Ovviamente, anche negare qualsiasi assistenza agli sfortunati connazionali involontariamente coinvolti nella guerra non cancella tutti i rischi e le conseguenze che Dozhd si è assunta.
Anche Novaya Gazeta Europe ha avuto problemi, seppur su scala minore. Nel suo tweet del 28 novembre, il caporedattore Kirill Martynov ha scritto: “Ieri al nostro reporter Ilya Azar che si trovava a Berlino per una conferenza è stato vietato di tornare a Riga da un rappresentante di AirBaltic. Per fare il nostro lavoro dobbiamo avere la possibilità di viaggiare, ovviamente”. La questione su chi sia più onesto fra i media “fuggiti da Mosca” e la Lettonia – il Paese che nel 2022 ha acquistato dalla Russia beni per 1,4 miliardi di dollari (gas compreso) – può essere lasciata da parte, a patto che ognuno trovi il proprio raggio d’azione che non danneggi l’altro. Il vero problema sta nella tensione che corre sotterranea fra la solidarietà ai propri compatrioti e il rispetto delle norme liberali mediatiche. L’opposizione russa avrà pure trovato il modo di combattere il “titano” Putin, ma lo ha fatto abbandonando i suoi compagni rimasti a casa, troppo spaventati per prendere una decisione radicale. A ben vedere si può dire che questo sia qualcosa che lo stesso Putin non faccia mai: lasciare indietro i propri compagni non è contemplato. E infatti arriva a scambiare decine di soldati ucraini per un suo sodale, Viktor Medvedchuk. Chi viene abbandonato dal regime è solo chi tradisce se stesso e i suoi principi.
Meduza ha scritto una dichiarazione al governo lettone, chiedendo clemenza per Dozhd, che è stata firmata da molte organizzazioni giornalistiche e privati. La dichiarazione definisce le azioni di Dozhd un “errore”, ma non così grave da privare gli interessati del loro lavoro. Tutto in questa storia può essere messo in discussione: sia le azioni dell’emittente televisiva, mosse evidentemente dal panico, che ha cercato di evitare la punizione di uno Stato che si definisce liberale ma che al tempo stesso vive ancora un forte trauma intergenerazionale, così come la lenta reazione dei colleghi di altri organi di informazione, che hanno valutato i pro e i contro dell’aiutare o meno, limitandosi a dire che Dozhd aveva fatto qualcosa di incredibilmente stupido (ma solo una stupidità minore per la quale non avrebbe dovuto “tagliarsi la mano”). Il tutto mentre la guerra è in corso, e ogni conflitto tra media “liberi” e i loro padroni va a vantaggio di una sola persona, che siede in un castello rosso lontano da Riga.