OGGETTO: Giorni in Birmania
DATA: 01 Febbraio 2021
Per capire cosa accade in Myanmar sfogliamo le pagine di Joseph Conrad, di George Orwell e di Anthony Burgess. Tra sarcasmo, fuga e indignazione, i tre scrivono i primi libri laggiù
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Prima di essere Myanmar si chiamava Birmania, gli inglesi continuano a dirla Burma. In seguito alle guerre anglo-birmane, dal principio dell’Ottocento in poi, la Birmania è annessa al “British Raj”, l’Impero anglo-indiano, da cui si distacca nel 1937; dall’influenza inglese si libera, quasi definitivamente, nel 1948. Non c’è bisogno di leggere tra le righe per capire cosa sta accadendo in questi giorni, in questi istanti in Myanmar: il 29 gennaio scorso “Myanmar Times” ha narrato “lo spettro sempre più possibile di un prossimo colpo di stato”. A noi, però, al di là dell’informazione giornalistica ‘sul campo’, è chiesto di dare profondità agli eventi: questo è il ruolo della letteratura. La storia della Birmania, da occhi anglofoni, si può leggere attraverso tre grandi autori. E tre destinazioni. L’avventura, l’indignazione, l’etica postcoloniale.

Joseph Conrad: “Romanzi della Malesia”. Ugo Mursia, nel 1967, raduna alcuni dei romanzi più belli di Conrad, La follia di Almayer – con cui JC comincia l’epopea da scrittore, nel 1895 –, Un reietto delle isole, Lord Jim e Il salvataggio come “Romanzi della Malesia”. In Conrad i porti dell’Oriente estremo, anglofono, sono tipici, tipizzati: traffico di voci, groviglio di destini, tendenza nichilista esasperata dal sole, dal marciume umano, dall’ozio, ipnotico. Compassione e lascivia sembrano detergere quei luoghi: in fondo, la Birmania, la Malesia, sono uno stato del cuore. “Quel sapore d’acqua salata, che per la maggior parte di noi era stata l’acqua stessa della vita, impregnava la nostra conversazione. Chi ha conosciuto l’amarezza dell’oceano, ne conserverà sempre il gusto nella bocca”, scrive Conrad in Falk. La Birmania non ha consistenza geografica, bensì mitica: spesso in Conrad la vicenda s’inaugura, fiaba oceanica, con un “Accadde in un porto d’Oriente…” (questo è La linea d’ombra); i porti sono simili nella loro meridiana dissipazione, tutto è un approdo da cui si fugge.

George Orwell e i giorni in Brimania. Un secolo fa, nel 1922, George Orwell si arruola nella Polizia imperiale indiana. “Chiede di essere inviato in Birmania, provincia recentemente conquistata dall’Inghilterra e territorio particolarmente turbolento… Durante i cinque anni del soggiorno in Oriente Eric Blair vive le lacerazioni che gli derivano dalla sua condizione di oppressore” (Guido Balla). Disgustato dalla protervia colonialista – da qui il suo odio per Rudyard Kipling – Orwell rientra in Europa nel 1927, si stabilisce a Portobello Road, “conduce per lunghi periodi la vita del barbone”. Nel 1934 lo scrittore pubblica Giorni in Birmania: negli Usa, perché l’editore inglese, Gollancz, se la fa sotto. La cosa più cruda, cruenta, indignata, però, Orwell la scrive nel 1931. È un articolo, lo stampa la rivista “The Adelphi”, fondata da John Middleton Murry, s’intitola Un’impiccagione. “Accadde in Birmania, in un fradicio mattino della stagione delle piogge. Una luce malsana, simile a stagnola gialla, lambiva gli alti muri e cadeva obliqua nel cortile del carcere. Eravamo in attesa davanti alle celle dei condannati a morte”. Orwell racconta, appunto, una condanna a morte agita dalla polizia britannica nei riguardi di un indigeno. Alcuni passaggi, con sobria potenza, danno il senso della tragedia:

“È strano, ma fino a quel momento non mi ero mai reso conto di cosa significhi sopprimere un uomo sano, cosciente. Quando vidi il prigioniero evitare la pozzanghera compresi il mistero, l’indicibile ingiustizia di stroncare una vita in pieno rigoglio. Quell’uomo non era moribondo, era vivo esattamente come noi. Tutti gli organi del suo corpo funzionavano: l’intestino digeriva, la pelle si rinnovava, le unghie crescevano, i tessuti si riformavano, ogni organo s’affannava in un lavorio insensato. Le sue unghie avrebbero continuato a crescere anche quando, poi, si sarebbe trovato in piedi davanti alla botola, anche quando, precipitando nel vuoto, non avrebbe avuto più un decimo di secondo da vivere. I suoi occhi vedevano la ghiaia gialla e le mura grigie, il cervello ancora ricordava, prevedeva, pensava… pensava addirittura alle pozzanghere”.

I piccoli dettagli – la pozzanghera, la ghiaia gialla, le unghie – esaltano l’orrore. Le unghie, quella parte quasi impercettibile del corpo, trasparente, ‘normale’, sono l’icona della natura delle cose, che l’uomo, questo dio obliquo, sinistro, vuole modificare. L’esperienza birmana inaugura la vita intellettuale, l’etica narrativa di Orwell.

Anthony Burgess: Trilogia malese. Nel 1980, con una troupe della BBC, Burgess tornò in Birmania. Non la riconosceva. Eppure ebbe modo di dire che “La lingua malese ha cambiato il mio atteggiamento nei confronti della comunicazione; ha mutato la forma intera della mia mente”. Dopodiché, se ne andò. Come Orwell, anche Anthony Burgess fu segnato dall’esperienza birmana – in senso opposto dal suo predecessore. Burgess atterra in Birmania nel 1954, a 37 anni, arruolato dal British Colonial Service come insegnante presso il Malay College di Kuala Kangsar. Nonostante la Birmania, dal 1948, s’era fatta Repubblica indipendente, gli inglesi controllavano le scuole di pregio, dove si educava l’élite. L’etica postcoloniale si traduce in controllo attraverso la cultura, l’educazione. Burgess resta in Birmania per quattro anni – nel 1958 tenta di insegnare in Brunei, ma dura poco –, piuttosto proficui. “Quando abbiamo varcato quell’area dal caldo furioso, ho capito che ci stavamo avvicinando nell’unico mondo in cui avrei potuto vivere. Sudavo. Ed ero felice di sudare. Finalmente un posto dove non ci sono i dieci comandamenti e un uomo può essere assetato. La mia eredità cattolica repressiva era un elemento piccolo ed eccentrico nell’inventario delle religioni di quel mondo. Sudavo, bevevo gin pahit assaporando la sensualità orientale”, scrive AB nella sua autobiografia, Little Wilson and Big God. In Birmania Burgess esagera il suo talento letterario: scrive Time for a Tiger, The Enemy in the Blanket, Beds in the East, la cosiddetta “Trilogia malese”. Vi si racconta la vita di Victor Crabbe, insegnante britannico in quel lato di mondo, in un vespaio di voci, lingue, destini, sempre più in esilio da sé, dal mondo. Il ciclo, dedicato “agli amici malesi”, è edito tra 1956 e 1959, è pubblicato come Malesia nel 1980 da Editoriale Nuova, ripubblicato nel 1999 da Einaudi, va stanato nel mercato digitale o nei mercatini. “È arrivato il momento di capire la natura dell’Oriente, e dell’Islam. Dopo il Vietnam non possiamo più permetterci di considerare quelle lontane regioni del mondo come materiale per personaggi di favola”, scrive Burgess nell’edizione americana del ciclo. Dieci anni fa, è stata scoperto un inno composto da Burgess – che fu pure musicista di talento – per l’istituto birmano dove lavorava. “Offriamo la nostra giovinezza per costruire il mondo/ Con coraggio, verità e amore compiuto/ Sorgerà una città luminosa e giusta…/ Il male è destinato a finire e la legge sarà amore”, dice la didattica – e biblica – Celebration for a Malay College. L’amore non ha trionfato.  

Arbasino, un drago. Venticinque anni fa, nel 1996, Alberto Arbasino è in Birmania per conto di “Repubblica”. Viaggia, osserva, scrive di “bui meandri e cunicoli claustrofobici”; il reportage, Obbiettivo Burma e oltre, è raccolto in Passeggiando tra i draghi addormentati, stampa Adelphi.

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