Il controllo del flusso delle informazioni, dei mezzi di comunicazione e conseguentemente dell’opinione pubblica è sempre stata una priorità in ogni regime istituzionale e in ogni sistema mediatico: chi gestisce le informazioni, analizzandole, catalogandole e decidendo il respettivo grado di importanza, gestisce indirettamente una larga fetta di potere persuasivo e decisionale. Non stupisce quindi che attorno all’informazione, al giornalismo, alla libertà di manifestazione del pensiero e alla libertà d’espressione si siano portate avanti fin dall’inizio della modernità (ma anche prima) dibattiti, schermaglie, autentiche battaglie. La nascita dell’opinione pubblica, come intesa nella società occidentale, è stata causa e al tempo stesso effetto di una nascente modernità, trainata da una classe borghese che, mediante commercio, affari, transazioni bancarie e scambi interpersonali si è piano piano ritagliata l’egemonia sulle altre classi subalterne. Questa nuova classe sociale borghese, nata tra il 1700 e il 1800 specialmente tra Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi e Belgio, ossia laddove erano ubicati i principali porti europei riflesso di quegli Stati che avevano più convintamente messo in pratica politiche commerciali, marittime e mercantilistiche, aveva sempre più bisogno di ricevere e scambiare informazioni, quanto più possibili dettagliate circa le condizioni politiche e fiscali dei vari porti frequentati.
Ecco che nelle grandi stazioni portuali nascono circoli, punti d’incontro; parallelamente in tutta Europa fioriscono società di lettura, caffè artistici, case editrici e tipografie dove si ritrovano uomini d’affari e borghesi in carriera a discutere e confrontarsi. Nasce e matura, in pieno 1800, quella che il filosofo e sociologo Jurgen Habermas, nella sua imprescindibile opera “Teoria e Critica dell’Opinione Pubblica”, definisce l’opinione pubblica critico-borghese: borghese perché radunava solamente uomini delle stessa estrazione sociale, con alle spalle una stessa esperienza, simili necessità e simile formazione; critica perché in grado, avendo i giusti strumenti a disposizione, di giudicare e discutere, in un confronto tra pari, nuove forme di politica, di fiscalità, di leggi.
A questa opinione pubblica, e alla sua intraprendenza, si deve larga parte della trasformazione commerciale e industriale dei secoli XVIII e XIX. Già nello stesso 1800 e ancor più nel 1900, l’opinione pubblica, si andava sempre più allargandosi e sviluppandosi, perdendo la propria unità di base e finendo per defluire in una massa per sua natura sempre più informe e differenziata. Alexis de Tocqueville denunciò queste storture come la “tirannide della maggioranza”, sottolineando come l’instabilità dell’opinione pubblica conduce ad un clima di incertezza diffusa. Per ovviare ad una nascente società di massa, portatrice naturaliter di un’opinione di massa, in letteratura e nel mondo politico si enumerarono diverse teorie, più o meno suggestive e praticabili; tra queste una delle più celebri è quella dell’ipotetico carcere giudiziario di Jeremy Bentham, il Panopticon. La figura proposta dal giurista inglese consente ad un unico sorvegliante di osservare (dal greco opticon) tutti (cioè pan) i soggetti di un complesso carcerario senza che questi ultimi siano in grado di capire l’intensità di tale controllo. La struttura del Panopticon è composta di una torre perfettamente centrale, all’interno della quale staziona un guardiano, circondata da una costruzione circolare, dove si trovano disposte in modo simmetrico le celle dei detenuti: in tale modo il guardiano può controllare in ogni momento tutti movimenti e tutte le azioni dei detenuti. Questa idea di controllo è stata ripresa per mettere sotto osservazione l’opinione pubblica, nel tentativo di imbrigliarla e manipolarla: ecco che lo Stato centrale, l’unico in grado di far rispettare la legge e di assicurarsi la sicurezza dei suoi confini e di tutti i cittadini, inizia a limitare la libertà di stampa, applicando forme più o meno velate di censura.
Con il Panopticon siamo ancora difronte ad una forma primitiva di controllo, non sempre efficace, che rispecchia una fase storica in cui la società di massa non si era ancora pienamente sviluppata: lo stato-guardiano deve controllare ancora relativamente pochi gruppi di persone, cercando di depotenziarle al meglio: è con la nascita della radio, della televisione, delle telecomunicazione e di un sistema mediatico sempre più tecnico e affinato che si iniziano a pensare nuovi strumenti di controllo, pervasivi e all’avanguardia. Attraverso internet e il mondo digitale non vediamo che il punto di arrivo finale di questo processo. La figura prototipica che in questo quadro ha avuto più successo è sicuramente il Grande Fratello, frutto del genio artistico di George Orwell nel suo bestseller 1984. “Big Brother is watching you”: questa frase paradigmatica è diventata ben presto il simbolo di tutte le forme di controllo calato dall’alto sulla popolazione e sui cittadini intermi.
Grazie al Grande Fratello la manipolazione dell’opinione pubblica raggiunge il suo apice: finalmente nell’ambito di una società massificata e standaridizzata, nasce una tipologia di ispezione esterna, situata in un luogo non meglio precisato, inaccessibile. Lo stato-guardiano del Panopticon, con tutti i suoi limiti, è sparito, lasciando spazio ad un grande occhio meccanico, che non risponde a nessuna nazione e a nessuna istituzione democratica o meno che sia: il Grande Fratello è il trionfo del privato, della sua accumulazione di potere, dell’intreccio tra chi possiede i mezzi di informazione e chi decide il flusso finanziario della moneta e della ricchezza. I veri padroni del mondo si potrebbe dire: indubbiamente i veri padroni della comunicazione.
Se nel Panopticon lo Stato ritiene che l’opinione pubblica sia da monitorare al fine di un bene comune, nel Ministero della Verità orwelliano pochi apolidi attori del palcoscenico mondiale fissano ciò che merita diffusione e ciò che non lo merita, ciò che può entrare nella vulgata generale e ciò che deve rimanere ai margini. Di un possibile bene comune da difendere poi, nemmeno l’ombra. In tale contesto all’opinione pubblica, e alla sua parte più attenta e dinamica, non resta che inalberare la bandiera di una Società degli Apoti, di Quelli che non la Bevono, così come coniata dal grande giornalista Giuseppe Prezzolini.