L'editoriale

L'asse Tel Aviv-Budapest-Roma

Giorgia Meloni rimane indietro rispetto a Viktor Orban e Benjamin Netanyahu in termini di autonomia strategica, e fortemente allineata alla linea dura inglese. Ma i Midterm potrebbero ribaltare la sua narrativa sul conflitto.
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C’è un corridoio geo-filosofico e politico insolito che si va formando tra l’Europa e il Vicino Oriente. Ha origine a Tel Aviv e giunge a Roma passando per Budapest. È una sequenza di accadimenti elettorali che unisce la vittoria di Benjamin Netanyahu, quella di Giorgia Meloni e il consenso rinnovato di Viktor Orbàn. Sui profili istituzionali dei rispettivi nuovi e vecchi premier sono arrivate puntuali le felicitazioni reciproche proprio a saldare quell’affinità valoriale nella matrice tutta neo-conservatrice, una bussola nella post-modernità. Israele, Italia e Ungheria, piccole e medie nazioni che si proiettano nel mondo da potenze, tra hard e softpower; avamposti occidentali in Eurasia con legami fortissimi con l’Oriente, tra storie del passato e visioni apocalittiche del futuro. Nella grande cornice delle relazioni internazionali, ora che scorre il sangue sulla frontiera tra Russia e Ucraina, la loro autonomia strategica  nei confronti di Mosca, per quanto tutti e tre rimangono saldamente ancorati alla sfera di influenza euro-atlantica, rimane appesa all’esito del voto di Midterm negli Stati Uniti. Qualora i repubblicani dovessero vincere, il ruolo dell’Inghilterra, la più aggressiva sul fronte orientale, e dei suoi alleati europei in particolare i Paesi Baltici, verrebbe drasticamente ridimensionato. Con entrambi i rami del Congresso in mano all’opposizione, e soprattutto con l’agguerrita pattuglia di destra dei nuovi eletti, vicini all’ex presidente Donald Trump – che ha annunciato la sua candidatura nel 2024 – per gli Usa si delinea un orizzonte biennale turbolento. E il dato più importante è che non risulta più scontato il sostegno militare e finanziario all’Ucraina, se venisse contenuta la strategia interventista del presidente Volodimir Zelensky.

Qualche giorno fa Kevin McCarthy, possibile successore della speaker Nancy Pelosi alla Camera dei Rappresentanti, aveva avvisato che una maggioranza repubblicana non avrebbe più firmato «assegni in bianco» a Kiev, mentre gli americani «rischiano di ritrovarsi in recessione». Già a maggio sono stati 57 i deputati e 11 i senatori che hanno votato contro il pacchetto da 40 miliardi di dollari di aiuti militari all’Ucraina. Non è un caso che il Wall Street Journal abbia rivelato che russi e americani si parlano segretamente da alcune settimane in vista della possibilità di un negoziato. Non solo i funzionari degli apparati di sicurezza Oltreoceano temono che lo smistamento delle armi stia sfuggendo di mano sul campo, tanto da esserci delle cellule para-militari ucraine che non condividono più le informazioni con gli americani (i probabili autori dell’attentato al ponte di Kerch, in Crimea, per intenderci), ma anche in vista degli incerti esiti del voto di Midterm. Una misura preventiva necessaria, figlia della scuola realista statunitense.    

In questo ménage à trois, tuttavia, è Giorgia Meloni che rimane indietro rispetto a Viktor Orban e Benjamin Netanyahu, in termini di autonomia strategica, e fortemente allineata alla linea dura inglese. Se da un lato l’Ungheria è riuscita a tenere la linea dura in Europa contro le sanzioni al Cremlino, e continuare ad acquistare gas allo stesso prezzo, Israele invece si è fatta portatrice di un piano di negoziato tra Russia e Ucraina fin dall’inizio del conflitto. Inoltre durante la campagna elettorale, nonostante gli attacchi dell’opposizione nella volontà da parte del leader del Likud di voler proteggere il suo rapporto privilegiato con Vladimir Putin nonché una posizione equidistante, anche in nome dei tanti russofoni presenti sul territorio (circa un milione su una popolazione di nove milioni). La realtà è anche che la leader di Fratelli d’Italia deve fare i conti con una reputazione da costruire da zero su tutti i fronti: all’interno della sua maggioranza di governo, con il Quirinale, in Europa, con gli alleati americani, ad oggi i democratici.

Da qui si spiega la sua narrativa impetuosa sul conflitto russo-ucraino, nonostante il suo elettorato la pensi diversamente, da qui la sua partecipazione a Villa Taverna (il 4 luglio 2022) ai tempi della presidenza Biden, accompagnata dall’attuale sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giovanbattista Fazzolari, in una serata di festa che vedeva non a caso Nancy Pelosi special guest nonché possibile futura ambasciatrice a Roma. Erano altri tempi, c’era il governo Draghi (ancora supportato dalla sua maggioranza), c’era Luigi Di Maio ministro degli Affari Esteri. Tutto è cambiato con estrema rapidità, tutto può cambiare di nuovo, all’improvviso. Il consiglio non richiesto di Luigi Bisignani arriva puntuale, sulle pagine della Verità: «Non vedere Zelensky. Il viaggio sarebbe inutile. Meglio cercare il dialogo tra Russia ed Europa». Il sottotesto suggerisce di attendere l’esito del voto di Midterm. Il secondo sottotesto indica la nuova fase che vive l’Unione Europea, indebolita dalle divergenze tra tedeschi e francesi, e quindi incapace di prendere delle decisioni, dunque la possibilità di imporre una visione del mondo. I dossier sono molteplici, i tavoli sui quali portarli anche, ma soprattutto non mancano le sponde internazionali. Tutti sdoganati, liberi tutti, chi si ferma pigliatutto.

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