«L’Ue si trova in un momento di svolta in cui il mantenimento dello status quo non è più un’opzione di fronte alle minacce e agli attacchi alla sicurezza europea» è la sintesi della posizione predominante nell’Europarlamento che, il 12 marzo scorso, ha approvato un accordo non vincolante, un “libro bianco” sul «riarmo europeo» che ha visto 419 voti favorevoli, 204 contrari e 46 astensioni. Il progetto europeo ha radici lontane, già nel 1923 il conte Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi, filosofo e pensatore cosmopolita, presentò un’Europa unita all’interno del libro Pan-Europa. Visti gli esiti della Prima guerra mondiale e le nuove potenze di estensione geografica continentale sulla scena, egli si convinse, in maniera del tutto contro-geopolitica e teoretica, che i Paesi europei avrebbero potuto mantenere il proprio status solo se si fossero uniti abbandonando le proprie divisioni nazionali. Si sa che le collettività, le nazioni nascono da una fusione aspra, violenta perché fondendosi non rimane “un po’ d’ognuna”, ma un canone dominante che sottomette gli altri e successivamente, tramite specifica narrazione, convince le nuove generazioni.
Sin dalla fine della Seconda guerra mondiale, la «difesa collettiva» entra nelle agende di molti Paesi, smarriti dalla sconfitta strategica ad opera statunitense, dell’Europa occidentale. La minaccia sovietica da una parte e le diffidenze verso un «possibile riarmo tedesco» (impossibile per volontà americana) dall’altra, furono la narrazione che indusse, già nel 1948, il Regno Unito e la Francia – entrambi coscienti del proprio declassamento, ma che fino allo “schiaffo di Suez” ad opera di Washington nel 1956 non realizzarono veramente la propria catabasi imperiale – Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi a dar vita all’Unione Europea occidentale: un’organizzazione di cooperazione politico-militare.
All’inizio degli anni Cinquanta, la Francia avanzò la proposta di creare un esercito europeo (Comunità europea di difesa, la famosa Ced) che avrebbe dovuto formarsi con unità militari degli Stati aderenti all’Ueo. Questa iniziativa fu accolta con scetticismo e non ebbe successo, anche se tuttavia fu proprio Parigi ad affondarla a causa della propria crisi interna sulla Quarta Repubblica. L’Ueo al contrario sopravvisse fino al 2011, anche se l’esistenza di tale organizzazione è rimasta del tutto evanescente.
Conclusasi la Guerra Fredda, le Comunità europee e poi l’Unione, al di là dei molti proclami politici, sono state spesso utilizzate come strumento delle potenze continentali per avvantaggiare il proprio interesse nazionale. Nel volume intitolato La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, pubblicato nel 2022 da Feltrinelli, Lucio Caracciolo dà la propria lettura dello status quo che vige nel Vecchio Continente anche per quanto concerne la difesa collettiva: «[…] Ecco la poesia dell’Europa potenza civile, con tonalità universalistica, a dispetto e contro ogni replica della storia; vestire di para ecumenismo continentale i rispettivi interessi nazionali, con i due casi limite tedesco (siamo europei perché non possiamo più essere solo tedeschi) e francese (Europa maschera della Grande Francia); offrirsi al mondo via Nato come secondo braccio dell’Occidente a guida americana, equilibrato dalla saggezza dell’antica civiltà continentale, di cui ognuno mantiene idea diversa o non ne ha alcuna».
Le guerre di successione nei Balcani negli anni Novanta hanno riportato la riflessione alla «Difesa europea». Pubblicato in un opuscolo del Ministero della Difesa italiano: «Lo scoppio della guerra in Bosnia (1992-1995), per esempio, ha fornito la spinta finale per l’approvazione della Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC)» e la guerra del Kosovo, nel 1998-99, ha preparato il terreno per la Politica di Sicurezza e Difesa Comune. La Psdc, strumento della Pesc, è stata concepita in seno al Consiglio europeo di Colonia del 1999 e si è realizzata negli accordi Berlin Plus dello stesso anno: null’altro che uffici operativi della Nato. Più volte, come s’è visto, è stato ripetuto il beneficio non chiaro di avere un “esercito” europeo, come nell’ultimo sforzo prima del “riarmo”, ovvero la Bussola strategica europea del 2022.
In estrema sintesi, la Bussola riconobbe che la sola potenza economica non è più sufficiente per garantire sicurezza e stabilità – come se mai lo fosse stata – e che l’Ue avrebbe dovuto dotarsi di strumenti comuni di sicurezza più “robusti”, da impiegare prevalentemente come credibile dissuasione, ma anche come efficace forza coercitiva, qualora la situazione l’avesse resa indispensabile.
Espresse la volontà d’allestire una forza di reazione rapida, la EU Rapid Deployment Capacity – la dice lunga l’uso dell’inglese a prova del nullaosta americano – di cinquemila unità con capacità reattiva entro il 2025. Il 9 marzo del 2023 venne dato il primo “via libera” al Parlamento europeo circa la Brigata di cinquemila unità proposta dalla Bussola. Nel testo parlamentare, le missioni affidate alla forza avrebbero spaziato dall’esfiltrazione-salvataggio di personale coinvolto fino alla “gestione delle crisi” («fuori area e sui confini»), o anche al rinforzo temporaneo di altre missioni.
Contestualmente alle cinquemila unità fu previsto anche il necessario appoggio: mezzi di trasporto strategico, intelligence, comunicazione satellitare, ricognizione strategica e assistenza medica. La forza rapida avrebbe ricevuto il finanziamento dal bilancio dell’Unione europea, ma a patto di un ingente aumento contributivo nella Pesc da parte dei Paesi membri che aderiscono al progetto. Al momento non risulta esistere nulla di tutto ciò nella sostanza.
Queste unità d’intervento rapido, seppur ridimensionate, non furono nuove, ma vennero già pensate nel 1999 in occasione del Consiglio europeo di Helsinki che tentò di realizzare una forza di circa cinquantamila unità, da rendere operativa entro il 2003. Un Corpo d’Armata dispiegabile in tempi rapidi, circa 60 giorni, con mobilitazione appannaggio dei Paesi membri. L’Unità organizzativa, nel progetto, avrebbe dovuto essere in grado di resistere in missione per almeno un anno. Anche di quest’iniziativa s’è persa traccia. Gli squilli del triviale e istrionico Presidente americano, negli ultimi mesi hanno riportato in auge quella “paura dell’abbandono”, impossibile poiché provincia americana, che spesso s’è manifestata nei Paesi europei più debolmente identitari. Dopo gli insuccessi relativi alle “forze di reazione” varie, piuttosto che il disastro delle politiche verdi sull’industria dell’automobile e il naufragio politico socio-ambientale – dagli asterischi ai tappi che non si staccano dalle bottiglie – con grande isterismo e capriccio è giunta l’ora del cinismo per raccattare qualche consenso da parte d’un’istituzione sempre più precaria e smarrita.
Se perlomeno strettamente sul piano bellico della riflessione, la Nato ha dato elementi convincenti nel corso del Secondo Novecento sino ad oggi per quanto concerne la difesa dei Paesi europei, ma tuttavia per i medesimi non è altro che l’espressione plastica della loro sconfitta ed è infatti l’organizzazione che articola la manutenzione dell’impero (americano), alla quale necessariamente bisogna rispondere quando fa appello anche se gli interessi nazionali divergono, quando non sono proprio antitetici, c’è da dire che la disponibilità bellica degli Stati europei è molto più raccolta perché salvo alcune collettività ancora parzialmente “legate alla Storia” e quindi alla possibilità d’una guerra, la maggior parte è in totale disaccordo sulla spesa militare in sé, figurarsi un aumento.
Quali benefici darebbe avere un esercito comune? Quali sarebbero i nemici? Soltanto la Russia? Se avvenisse un riarmo vero in Germania, magari con una metamorfosi antropologica e culturale a sostegno che spinga i tedeschi ad accettarsi nuovamente e reputarsi depositari d’una certa primazia sull’Europa centrorientale, ma pure occidentale – cosa che è già accaduta in campo economico-finanziario poiché era l’unica tattica possibile a Berlino – il nemico dei polacchi, dei cechi e degli slovacchi non sarebbe anche la Germania? E forse, verso occidente, anche per la Francia? E la Turchia che reputazione assumerebbe per i Paesi baltici, rispetto a quella che ha in mente Parigi, piuttosto che Roma o ancora Atene? Consegnare ciò che resta di una già residuale sovranità per scopi decisamente poco chiari che senso può avere?
L’idea poi di creare una Difesa, tradotto Forze Armate, almeno sullo sfondo, soltanto investendo del denaro e nemmeno in maniera chiara, è del tutto fuorviante. Gli eserciti, come il diritto che amministra la vita pubblica, sono l’espressione d’una collettività definita: da una dimensione culturale e geopolitica, dalla quale ne deriva una strategia che poi, nell’ambito militare, s’articola su tattiche e piani operativi.
Già la vecchia storia del due per cento del prodotto interno lordo da spendere per la Nato destava molti dubbi: è tanto? È poco? Non basterebbe l’uno per cento? Oppure sarebbe meglio spenderne il 3? E via dicendo. Più serio, come in Italia ribadito più volte dagli uffici degli Stati Maggiori, sarebbe interrogarsi su come spendere e a livello nazionale. Nonostante tutto, la Commissione ha previsto 800 miliardi di euro per il piano. Per Cottarelli, tuttavia: «Si fa riferimento a una cifra che al momento è in massima parte ipotetica: frutto, cioè, di una simulazione fatta dai funzionari della Commissione per stimare il possibile impatto di ReArm Europe nei prossimi quattro anni».
Almeno due questioni: una dai connotati finanziari e una di carattere industriale sorgerebbero dall’ultima bozza di programma. La prima si riassume nella complicatezza e complessità della quantità e qualità d’indebitamento concesse dalle regole del mercato agli Stati. La Commissione prevede la possibilità per tutti i 27 d’indebitarsi a scopo “Difesa europea” rompendo i parametri del Patto di Stabilità. Tuttavia, e il ministro delle Finanze italiano Giorgetti l’ha già segnalato, per un Paese economicistico come l’Italia la reputazione sui mercati finanziari rimane di vitale importanza. Le economie più sane, come la Germania, potrebbero inoltre avere scarso interesse ad investire a un tasso più svantaggioso per sé stesse rispetto a come lo stesso risulterebbe per altri Paesi.
La seconda, invece, è di natura militare ed è relativa ai programmi che le nazioni hanno pianificato e avviato negli ultimi anni. L’Italia, tanto per fare un esempio, partecipa al Global Combat Air Programme, acronimizzato Gcap, il programma di sviluppo e produzione dell’aereo di VI generazione, insieme a due Paesi che non fanno nemmeno parte dell’Unione europea: l’Inghilterra e il Giappone. La Francia capitana un progetto simile di concerto con la Germania e la Spagna: il Future Combat Air System (Fcas). Il piano ReArm prevede impegni di natura squisitamente europea con la partecipazione di almeno due Stati membri.
Fra i Paesi europei l’unico degno di attenzione per quanto concerne il riarmo è la Polonia. Al di là d’una spesa per la Difesa che s’aggira intorno al 4,5 per cento del PIL e che comunque tenderà ad aumentare per volontà dei polacchi e ciò si evince dall’esponenziale crescita del fatturato dell’industria bellica locale, m’ancora più nitidamente, come riportava già l’anno passato Rbc-Ukraine, dalla conversione d’alcune aziende come Autosan, precedentemente produttrice di torpedoni elettrici, oggi si occupa di veicoli tattici leggeri multiruolo come il Waran. Ancora più rilevanti risultano però due aspetti dell’attività polacca: l’intesa con la Turchia sui velivoli telepilotati Bayraktar Tb2 per fare in fretta nel riarmo, elemento geopolitico poiché malgrado la collettività polacca non abbia alcuna simpatia verso i turchi e soprattutto l’agenda islamizzante che essi, a seconda del caso, si propongono di rappresentare, le necessità d’approvvigionamento conducono a giocare a intermittenza e su più tavoli, ma senza cedere, a differenza dell’Italia, terreno ad Ankara. Il secondo aspetto è ancora più decisivo nella comprensione strategica di Varsavia: come riporta Euronews, essa ha introdotto l’obbligo nelle scuole di dedicare lezioni sulla sicurezza armata. La nuova disciplina s’intitola Educazione alla sicurezza e prevede lezioni, all’ottavo anno – l’italiana terza media – ovvero ai ragazzi di 13-14 anni, di un’ora alla settimana sul montaggio e smontaggio d’un’arma; sull’addestramento in caso di guerra con esercitazioni di sopravvivenza e su quello del tiro, con simulazioni virtuali fino al primo anno della scuola secondaria, cioè a 16 anni, quando le stesse prevedono anche l’uso d’armi da fuoco.
Il Primo ministro Tusk ha poi annunciato l’intenzione di aumentare l’organico dell’esercito sensibilmente, fino a raggiungere i 500mila effettivi. Chiare le parole in merito: «Entro la fine dell’anno, vogliamo avere un modello pronto in modo che ogni maschio adulto in Polonia sia addestrato per la guerra e che questa riserva sia adeguata alle possibili minacce. Ogni uomo sano dovrebbe volersi addestrare per essere in grado di difendere la patria in caso di necessità».
Varsavia ha inoltre firmato un contratto da 1,38 miliardi di euro con la norvegese Kongsberg, è quanto emerge da un rapporto di Aresdifesa, per l’acquisto di quattro batterie missilistiche costiere montanti i missili Nsm di quinta generazione, i più avanzati sul mercato, che giugneranno fra il 2026 e il 2032. «L’industria polacca contribuirà a parti significative del complesso, compreso il sistema di comunicazione, i veicoli e parte del sistema di comando e controllo, oltre a prendere parte alle attività di integrazione del sistema». I polacchi restano comunque ancorati a Washington perché consci di non potersi fidare delle iniziative franco-tedesche, ma tuttavia sfruttano la situazione contingente per non giungere impreparati a qualcosa d’imprevisto. «La Polonia non cambia opinione sulla necessità, assolutamente fondamentale, di mantenere i legami più stretti possibili con gli Stati Uniti e la Nato», ha chiarito il Primo ministro.
Nel dibattito sulla stesura della Bussola, emersero tre correnti, strettamente legate alle geopolitiche nazionali delle nazioni sostenitrici delle stesse: La Francia preferiva (e preferisce) “l’autonomia strategica europea” (francese), mentre già allora la Polonia, viceversa, continuava (e continua, come s’è visto) a prediligere l’Alleanza atlantica per la propria sicurezza. L’Italia ipotizzò una “via di mezzo”: ovvero una maggiore autonomia operativa, ma non strategica rispetto alla Nato; tradotto: preferibile Washington rispetto a Parigi, storico avversario degli interessi italiani.