A chi appartengono gli swing state? Dove si colloca la Turchia? È un ponte tra UE, Nato, USA, o è un soggetto politico desideroso di accedere all’incerto mondo dei BRICS, peraltro secondo uno stilema che rende il tutto materia di una mission impossible, al pari dell’ammissione nella SCO? Il problema risiede come sempre nei contrasti, qui tra un non troppo profittevole utilitarismo commerciale e la strategica e rassicurante seduzione atlantica, tutta una serie di (sfortunati) eventi sgraditi a Pechino ed anche a New Dehli, anche alla luce delle liaison turco-pakistane. Il conflitto israelo-iraniano, inoltre, ridimensiona ed emargina Ankara che ambisce invece ad una dimensione imperiale secondo una visione anti gerosolimitana imprescindibile da pericolosi attriti: si vis pacem, et etiam imperium, para bellum. La Turchia persegue due obiettivi: plasmare un diaframma tra Teheran e le monarchie del Golfo e sfruttare le dinamiche innescate dallo scontro Iran-Israele per sospingere i propri interessi strategici rivolti verso Egitto, Suez, Corno d’Africa, sperone che reclama la necessità di una più decisa profondità difensiva cairota. Del resto, l’irrilevanza regionale per la Turchia è inammissibile, vista la convinzione per cui l’attrito israelo-iraniano è funzionale ad un futuribile accordo tra Washington e Teheran, capace di fiaccare le influenze di Ankara, evento che, in ottica turca, deve rimanere tra i vapori delle ipotesi.
Dalla fredda Elsinore al brumoso Cumhurbaşkanlığı Külliyesi il passo è breve; anche qui il sovrano comincia ad essere contornato da eteree ma inquietanti presenze spettrali, a partire da Mustafa Kemal, che l’ex premier Ahmet Davutoğlu ha tentato invano di accompagnare sulla soglia di un nullificante oblio, cui si è ora aggiunto l’ectoplasmatico Fethullah Gülen, soggetto politico di cui solo il tempo potrà tarare un carisma (forse) pericolosamente destinato all’esaltazione agiografica post mortem, per giungere infine all’irrequieta anima curda, che una storia ingenerosa ha inteso dividere in quattro. Mel Brooks avrebbe sardonicamente ricordato che è comunque bello essere re, ma certo la sua vis comica non poteva immaginare tormenti e timori di un uomo, Recep Tayyip Erdoğan, cui è sfuggita dalle mani l’investitura elettorale plebiscitaria malgrado sia assurto alla forma di munifico dispensatore di banconote al di fuori dei seggi elettorali e che, da animale politico qual è, vive nella coscienza di una fine che potrebbe preludere al declino proprio di un triste ed infido sunset boulevard, lo stesso viale tragicamente percorso da Adnan Menderes tra il 1960 ed il 1961. Se Erdoğan ha avuto buon gioco è stato perché ha agitato lo spettro, l’ennesimo, del caos; il Reis è perfettamente conscio del fatto che, se mai la sua aura declinasse, il potere perduto non traslerebbe sui banchi dell’opposizione ma direttamente in cella, o peggio.
Gülen, negli Usa dal 1999, tra i fondatori dell’Associazione per la Lotta contro il Comunismo, e per questo benedetto da improvvide FA, promotore del dialogo interreligioso, è stato considerato il genius del tentato golpe del 2016, causa delle ripetute richieste di estradizione avanzate dal governo ancirano, via via respinte da Washington. Le ragioni dell’autoesilio non sono mancate, contemplando la necessità di delicate cure mediche sommate alla consapevolezza di un’implacabile revanche politica del vecchio sodale Erdoğan, a sua volta non così dispiaciuto per una lontananza che non ha acceso fuochi inestinguibili; a questo si è aggiunto il pungolo sia del campo laico kemalista, interprete di una forma di riduzionismo materialista, sia di quello religioso ortodosso. L’influenza finanziaria, stimata in un gradiente presumibilmente stimabile in miliardi di dollari, concreta espressione di un potere capace di colpire con precisi colpi di maglio, ha permesso di assimilare Gülen ad una sorta di Soros anatolico, grazie anche ad un potente network comunicativo, didattico e filantropico. Gülen è stato un imprenditore carismatico, ed è riuscito a creare un movimento con caratteri settari ed un impero travalicante le frontiere nazionali, colpevole tuttavia di incarnare un modernismo inaccettabile per opinione nazionale e sintesi turco islamica, proprie dell’islamista Erbakan.
Sia Erdogan che Gülen hanno inteso dare una comune immagine antitetica a quella laica, ma con una differenza: mentre Erdoğan è stato il propugnatore di una versione anatolica dell’Islam politico, Gülen è assurto a sostenitore di un Islam culturale. Le scuole sono state il vettore che ha proiettato il Gülen pensiero che ha fatto suoi gli insegnamenti dei sufi Jalal al-Din Rumi e Yunus Emre, ispirati a tolleranza e moderazione, un sincretismo che avvicina l’Islam ad armonizzarsi con la modernità, ad avvicinarsi all’Occidente, a raggiungere un equilibrato conservatorismo dottrinale bilanciato con tecnologia e bioetica, un compendio maturato grazie anche alla vicinanza con l’establishment americano, soprattutto con le famiglie Clinton e Bush. Il nemico che catalizza la liaison con Erdoğan sono le FA, esautorate prima ed esonerate poi dall’incombenza kemalista di guardiane della laicità. Le indagini sulle vicende Ergenekon e Balyoz, tra 2008 e 2010, svelano trame che si dissolvono in colpevoli insussistenze ma non senza aver prima neutralizzato politicamente numerosi alti gradi. È il trionfo di una generazione di grand commis provenienti dai ceti medio bassi dell’Anatolia centrale e portati in vetta dall’istruzione offerta dalla rete di Gülen. Se i militari perdono potere, per compensazione l’AKP lo assorbe tanto da aggiudicarsi il referendum del 2010 che permette di riformare la costituzione del 1982, base del potere militare ora più che mai esposto al giudizio delle corti civili.
Il discepolo surclassa il maestro: il giocattolo, nel 2011, si rompe, e l’AKP prende le distanze dai gulenisti, cassati dalle liste elettorali; è un primo repulisti che coinvolge Parlamento e PA e che segna il primato della rete di Erdoğan che si aggiudica gli appalti più remunerativi. Secondo il lessico presidenziale, l’AKP aveva guadagnato l’accesso in un’epoca di dominio, che vede la presa del controllo dei media del gruppo Dogan, tratti in salvo da un disastroso fallimento. È una lotta senza esclusione di colpi che coinvolge il responsabile dei Servizi segreti Hakan Fidan, fedelissimo del Reis ed attuale ministro degli esteri, e le negoziazioni con i curdi del PKK. L’organizzazione gulenista Hizmet, punta di diamante sunnita contro lo sciismo e forte di migliaia di attivisti e di milioni di simpatizzanti, assume subitaneo sembiante di struttura parallela e sovversiva che permea i gangli del potere pubblico; secondo l’AKP, Hizmet, contraltare musulmano ad al Qaida dopo l’11 settembre, altro non è che uno stato nello stato, una delle figure retoriche care alla vulgata politica turca. Nel 2013 deflagra la tangentopoli anatolica, che rischia di travolgere i vertici dell’AKP e coinvolge il figlio stesso di Erdoğan, Bilal. I 300 morti non saranno le uniche conseguenze del fallito golpe del 16 luglio 2016: la repressione sarà violenta, implacabile; le purghe del Reis annichilano magistratura e FA; le dershaneler vengono chiuse: la legge che consente di eseguire arresti solo sulla base di ragionevoli sospetti diviene strumento di attacco alla libertà di stampa. Il capolavoro di Erdoğan consiste nel presentare il conflitto tra AKP e Gülen non per quel che è, una tenzone personale di potere, ma come uno scontro tra l’unica forma di democrazia (la sua) ed il terrorismo (altrui). Ma (per) quanto è tollerabile uno stato schmittiano di perenne necessità?
Dalla sua fondazione la Repubblica turca ha visto scorrere i fotogrammi di diversi colpi di stato grazie ai quali il kemalismo militare è assurto a ruoli apicali, fino a giungere alle contrapposizioni sempre più ruvide tra AKP e vertici delle FA. Sullo sfondo si delinea con sempre maggior verve l’onnipresente figura retorica politica turca del deep state, il derin devlet, inteso come aggregazione di reti ultranazionaliste insistenti principalmente nell’apparato militare e di sicurezza, e formatesi durante la guerra fredda per combattere la sovversione interna; uno spettro risvegliato successivamente a Ergenekon – Balyoz e a seguire al doppio attentato del 2015 ad Ankara, costato la vita a 128 persone, in gran parte sostenitori del Partito Democratico del Popolo, di orientamento curdo e di sinistra liberale.
La politica estera, naturalmente anarchica e instabile, ha evidenziato da un lato gli errori di valutazione americani e dall’altro le complessità politiche e culturali turche, espressioni di un potere votato al recupero delle priorità strategiche secondo una postura neo imperiale, inconsapevolmente agevolata da Washington il cui appoggio a Gülen è costato un prezzo esorbitante ed ingiustificato, vista l’impossibilità di frenare l’ascesa di Erdoğan, inarrestabile sia dopo gli scontri di Gezi Park, sia dopo il tentato colpo di stato del 2016, che ha sancito la metamorfosi dello Stato Maggiore in un’istituzione religiosamente influenzabile e soggetta ad un’autorità̀ governativa che trascende lo stato nazionale kemalista per approdare ad espansionismi neo-ottomani. Eppure, in questi giorni, proprio mentre Abdullah Öcalan riceveva l’esortazione del nazionalista Devlet Bahçeli a perorare la deposizione curda delle armi, ed Erdoğan, sotto i riflettori del summit BRICS di Kazan, si accingeva ad incontrare Putin, Ankara veniva colpita da un attacco terroristico sanguinoso e denso di significati, in cui sono entrate in gioco valutazioni discendentI da un quadro politico quanto mai ampio.
Se è vero che le istanze indipendentiste curde hanno occupato le analisi turche per decenni, è altrettanto vero che l’MHP nazionalista di Bahçeli è diventato partner di rilevanza tuttavia più contenuta rispetto al passato, cosa che ha indotto a rivedere sia la politica presidenziale sia le evoluzioni mediorientali tra Israele, Iran, Libano ed il sostegno statunitense all’Unione Democratica siriana legata al PKK. A Erdoğan, assurto al secondo mandato presidenziale, è inibito infrangere il limite costituzionale; tuttavia un’eccezione alla regola potrebbe contemplarsi nel caso in cui il parlamento, chiedendo elezioni anticipate, concedesse al presidente il diritto di ricandidarsi comunque. Il compromesso politico, con l’estensione del mandato del Reis, porterebbe sia ad un accrescimento della posizione dell’MHP, ma anche ad un auspicabile, ma non certo, riconoscimento delle istanze curde rappresentate dal Partito DEM. Rimarrebbe comunque il problema di dover spiegare all’elettorato turco ed anticurdo l’inversione di tendenza. L’AKP di fatto sta cercando sponde, sia in ambito interno sia tentando di ristabilire relazioni accettabili con USA e Russia; attenzione però: lasciare gulenisti e Pkk in un limbo fisiologicamente indefinibile, potrebbe (ri)aprire spazi politici di manovra per i militari.
Non c’è dubbio che l’attentato del 23 ottobre abbia risvegliato molteplici attenzioni specialmente in un momento in cui società ed economia avvertono sofferenze marcate. La Turkish Aerospace Industries di Kahramankazan, espressione della National Initiative Technology, produttrice del KAAN, primo aereo da combattimento di produzione nazionale, di elicotteri e droni ANKA, nonché realizzatrice su licenza dell’F16 statunitense, costituisce un drammatico memento per un esecutivo che deve comprendere come la politica nazionale non si poggi unicamente su esteri e demagogia. La TAI è interprete internazionale rilevante nello sviluppo di tecnologie avanzate, e potrebbe essere oggetto di attacchi da parte di entità politicamente avverse alla postura bellica ancirana; attaccare la TAI significa dunque attaccare lo Stato. Il Reis ha quindi puntato a stigmatizzare l’esistenza di un asse del male contro cui dover combattere, pur rimanendo in prudente attesa dell’esito elettorale americano. Opportuno rammentare come il Reis disponga dal 2012 di un’agenzia di consulenza militare, la Sadat, non così dissimile da quel che fu la Wagner, fondata dall’ex generale Adnan Tanriverdi, ed ora affidata al figlio Melih. Al di là della vetrina offerta dai BRICS, rimangono tuttavia incombenti le questioni economiche che richiedono costanti, puntuali e consistenti entrate di cassa.
In cauda venenum. Le recenti elezioni municipali hanno inferto un duro colpo all’ego presidenziale; per la prima volta dalla sua ascesa al potere nel 2002, l’AKP è al secondo posto nei sondaggi nazionali, costretto a contrastare un’inedita crisi di legittimità. Il discorso erdoganiano post elettorale è stato fin troppo conciliante, ma certo non in grado di cancellare il ricordo di un pluriventennale populismo autoritario, peraltro condizionato da una impostazione economica demagogica ed ampiamente errata sui tassi di interesse che ha condizionato negativamente un andamento inflattivo bisognoso di tempo per la sistemazione dei conti. Malgrado tutto, sarebbe comunque un errore ritenere Erdoğan alle corde; il Presidente sa che il piano economico del ministro Mehmet Şimşek ha bisogno di almeno due anni di piena stabilità, come è cosciente della stanchezza generalizzata per le politiche aggressive, interne ed esterne, comunque inidonee a sostenere l’economia, anche perché l’opposizione curda sta trovando maggiori spunti di coordinamento politico con le altre opposizioni. In questo momento, l’assunzione di posizioni intransigenti verso Israele è l’unica opzione politica praticabile ed a relativo costo zero, dato che agire contro la Grecia creerebbe attriti economici con l’UE.
Erdoğan può tentare strategie alternative volte al conseguimento della pace interna alla Atatürk, come accaduto durante i primi anni di governo quando ha sostenuto democrazia, libero mercato, minore pervasività del governo, integrazione con l’Occidente. Ovviamente questo richiede l’abbandono di una retorica ormai fuori luogo e con aperture significative alla controparte curda, previo abbandono degli strumenti giudiziari finora utilizzati per fiaccare le opposizioni. Messaggio importante per superficiali e distratti attori politici su altre e più vicine sponde: nulla e nessuno distoglieranno la Turchia dalle sue proiezioni di potenza. L’afflato imperiale, riverberandosi tra le pieghe del tempo, conserva intatto il suo fascino seduttivo.