Nel lavoro pubblicato in data 5 settembre 2024 si è cercato di analizzare la situazione geopolitica balcanica ponendo particolare attenzione alla Bosnia-Erzegovina e alla questione migratoria. Ora, anche sulla base di un criterio di completezza, si cercherà di comprendere la corrente situazione geopolitica serba e si cercherà di dare una concreta risposta all’interrogativo: è ancora possibile un conflitto in seno all’Europa in zona balcanica?
È opportuno far originare la disamina da un controverso personaggio politico che sta animando la Serbia con politiche accentratrici e fortemente nazionalistiche: Aleksandar Vučić. Nato nel 1970, Vučić è diventato noto durante la guerra in Bosnia come giornalista. È entrato in politica con i radicali ultranazionalisti, seguendo l’ideologia di Vojislav Šešelj. Nel 1998, è diventato ministro dell’Informazione sotto il governo di Slobodan Milošević, noto per le sue politiche autoritarie e per la censura dei media. Dopo la caduta di Milošević nel 2000, la Serbia ha vissuto una transizione sotto governi anti-Milošević, con i Radicali all’opposizione. Nel 2008, la Serbia ha visto la nascita del Partito Progressista Serbo (SNS), con una nuova fase di rinnovamento politico e l’inizio del processo di adesione all’UE. Questo processo si è però radicalmente arrestato con la rapida ascesa di Vučić. Egli ha consolidato il suo potere attraverso una serie di vittorie elettorali dal 2014 al 2022. L’opposizione è rimasta debole e frammentata, spesso incapace di contrastare efficacemente il suo dominio politico. Le elezioni del 2020 hanno segnato un punto di non ritorno.
Va però detto che Vučić non può considerarsi un elemento di rottura, poiché nel 2012 era membro del governo Dacic. La Serbia a partire dal 2008 ha compito enormi sforzi per entrare a far parte dell’U.E. A tal proposito è importante considerare il fatto che fin dal 2003 la Serbia è stata considerata un Paese candidato all’entrata nell’Unione Europea. Nel 2009, dopo la redazione nel 2008 dell’European partnership for Serbia, è stata presentata la domanda di adesione e nel settembre 2012 la Serbia ha ottenuto lo status ufficiale di Paese candidato. Da quel punto in poi è stato portato avanti un processo multilaterale di adeguamento agli standard europei e di stabilizzazione dell’area balcanica, in particolare attraverso lo Stabilisation and Association Agreement (SAA) entrato in vigore tra Serbia e Unione Europea nel 2013. In tale documento vengono poste le condizioni basilare da rispettare per la Serbia affinché possa attuarsi l’adesione all’U. E. e riguardano principalmente il consolidamento effettivo del sistema democratico rappresentativo nel Paese.
Un documento particolarmente rilevante ai fini della nostra indagine è il Serbia 2020 Report della Commissione Europea, all’interno del quale viene proposta una analisi trasversale dello sviluppo della Serbia per quanto riguardo l’entrata nell’Unione. Ciò che emerge è un riconoscimento degli sforzi fatti, ma anche la totale impreparazione all’entrata nell’U.E. Uno dei problemi più rilevanti è quello relativo alla stabilizzazione del Paese da parte di Vučić attraverso una riduzione della democrazia. Va però detto che l’U.E. su tale tema non porta avanti una politica chiara: da una parte pur di avere stabilità accetta che alcuni leader minino la democrazia e dall’altra si fa promotrice di principi democratici. Si tratta di un approccio che mette a nudo le ipocrisie dell’Occidente, che formalmente promuove le istituzioni democratiche, ma che permette ai leader locali di fare della democrazia una facciata che nasconde il loro autoritarismo. A ciò si aggiunga che la Serbia è fortemente permeata dalla criminalità e la vicinanza tra SNS e famiglie criminali serbe è strettissima. Si prendano tre esempi tra i tanti scandali/episodi grigi/casi irrisolti: Savamala, Krusik, Velja Nevolja. Ognuno di questi, anche se slegati tra loro, rappresenta una caratteristica del modus operandi di SNS:
Lo Stato è diventato un tutt’uno con la mafia: le istituzioni sono un «contenitore» da riempire; la funzionalità è garantita dalla partecipazione al partito, ovvero dai clan mafiosi.
L’articolo del 5 settembre, non a caso, si era aperto con un cenno al conflitto russo-ucraino, infatti, ad una situazione geopolitica così precaria, come è quella serba, vanno aggiunte le forti ingerenze della politica estera russa. Il rapporto strategico tra Serbia e Russia si può riassumere in alcuni punti:
• Esiste una forte componente culturale che trascina le simpatie tra i due paesi, alla quale si aggiunge un legame storico.
• Il fulcro della relazione, però, è il Kosovo: Belgrado conta sia sul potere di veto russo all’ONU, sia sulle amicizie di Mosca, per contrastare l’indipendenza del Kosovo.
• Quanto ai rapporti commerciali, le importazioni energetiche dalla Russia sono l’unico elemento essenziale per l’economia serba.
Negli anni, però, il prodotto maggiormente importato dalla Russia in Serbia è il modello politico autoritario, che nei Balcani si è sviluppato con caratteristiche locali. Nei paesi dell’ex Jugoslavia, in primis Serbia e Bosnia-Erzegovina, la Russia di Putin è estremamente popolare. In riferimento alla guerra, il 35% di un recente sondaggio ritiene che l’invasione sia giustificata, mentre il 76% sostiene che la Russia è un paese amico; la stessa percentuale è contraria alle sanzioni. Per la Russia, i Balcani sono importanti non tanto da un punto di vista strategico, quanto piuttosto al possibile terreno di confronto con l’Occidente: più sono instabili i Balcani, maggiori sono le possibilità che questi paesi non entrino nell’orbita euro-atlantica. La presenza russa è consolidata da tempo. Mosca è da anni che destabilizza la regione col suo soft-power: campagne di disinformazione, sostegno a gruppi e movimenti nazionalisti e diplomazie minacciose, come nel caso dell’ambasciatore in Bosnia.
La Serbia, strettamente per motivi di comodo, vuole continuare a mantenere il piede in due staffe, da una parte non vuole allontanarsi dalla protezione che la Russia le offre, ma dall’altra cerca un avvicinamento strategico all’Unione Europea. Un’uscita della Serbia dalla sfera di influenza geopolitica russa oggi sarebbe impensabile.
Per quanto concerne l’interrogativo posto in apertura – è ancora possibile oggi un conflitto in seno all’Europa in zona balcanica? – si può affermare che il rischio di una nuova guerra è solamente illusorio, principalmente per tre motivi. Il primo di carattere economico, poiché se si ipotizza lo scoppio di una guerra in territorio balcanico è ipotizzabile solo tra Kosovo e Bosnia, e nessuno dei due può permettersi né militarmente, né economicamente di sostenere un conflitto. Per la Serbia entrare in Kosovo costituirebbe un suicidio militare, poiché ivi è dislocata la missione NATO KFOR, la più lunga nella storia dell’Organizzazione. In secondo luogo, la Russia essendo impegnata in Ucraina, non fornirebbe alcun aiuto alla Serbia in caso di guerra. In ultimo c’è una motivazione politica, non vi è alcuna convenienza nel far scoppiare un nuovo conflitto, risulta essere molto più utile la retorica del conflitto imminente che però non si attuerà mai. Questa è una logica molto producente per ottenere consensi dall’elettorato, in particolare per la Serbia.
La Serbia resta comunque à l’attore principale da osservare per queste considerazioni, per via delle sue influenze sugli altri paesi, in primo luogo in Bosnia-Erzegovina, dove riesce a controllare i leader serbo-bosniaci e potrà quindi avere un ruolo sull’attuale crisi istituzionale bosniaca. Da marzo 2022 la Serbia è stata oggetto di forti pressioni diplomatiche affinché adottasse le sanzioni. Non l’ha fatto e non ha chiuso lo spazio aereo alla Russia, da cui i voli sono aumentati. Contemporaneamente, sono stati diversi i riferimenti nella retorica di Putin che hanno accompagnato la guerra che lasciano pensare a un cambio nelle alleanze: il Donbass come Srebrenica e le Repubbliche Popolari come il Kosovo. Cosa c’è dietro? Vučić ha aspettato l’ultimo momento per formare il governo, dandogli un’impostazione più europea, ma senza rinunciare al filorussismo, «appaltato» ad alleati di governo minori. La strategia è sempre la stessa, piede in due staffe e si sposta il peso in base all’egemonia di uno o dell’altro blocco. Dunque, un vero e proprio pericolo di guerra non c’è, esiste però una fortissima instabilità che sembrerebbe giovare solo alla Serbia di Vučić.