L'editoriale

Il Grande Gioco nel Mare che non è più Nostrum

L’Italia paga ancora oggi le scelte sbagliate del 2011 che l’hanno portata ad assumere un ruolo di secondo piano nella regione.
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C’è grande movimento a Beirut. Nelle strade, coi manifestanti che prendono d’assalto i ministeri, tra cui quello degli Affari Esteri, incoraggiati (pur dissociandosi dalle violenze) anche dai tweet dell’ambasciata americana in Libano. Nei palazzi invece è un via vai di leader politici stranieri, prima la visita di Emmanuel Macron, poi quella del vice presidente turco Fouad Oktay, entrambi ricevuti da Michel Aoun, tutti pronti a dare aiuto umanitario in cambio di influenza. In mezzo, nel momento più difficile per il Libano, i grandi saggi, per niente moderati, chiedono unità del popolo, morale e confessionale, pretendono responsabilità da parte delle istituzioni. Per ora sappiamo che il premier Hassan Diab ha annunciato le dimissioni del governo, tuttavia non sappiamo se ci sarà un rimpasto oppure se verrà sciolto il Parlamento. Di sicuro hanno pesato come un macigno le parole del presidente francese quando ha dichiarato che gli aiuti della comunità internazionale non passeranno per le mani di “una classe politica corrotta”. E che invita adesso tramite il suo Ministro degli Affari Esteri Jean-Yves le Drian invita il governo “a formarsi rapidamente”. La verità è che il mondo è cambiato, le traiettorie dell’alto non coincidono più con quelle del basso; ogni nazione, che sia la Francia, la Turchia, gli Stati Uniti, segue la sua agenda politica e strategica. La terza guerra mondiale “è a pezzi” perché il blocco occidentale è in decomposizione. Ed è in questa faglia sistemica che la Cina, un blocco monolitico con una visione monolitica, che considera la liaison tra Iran, Iraq, Siria e Libano come la pietra angolare del corridoio Sud-Ovest della Nuova Via della Seta, può inserirsi. Se il Marocco è già il terminale nel Maghreb, quello del Libano può diventarlo per il Vicino e Medio Oriente (dato che il porto di Latakia in Siria è già spartito tra russi e iraniani). E di infrastrutture portuali, sappiamo bene, se ne intende, come sappiamo bene che è difficile delineare con certezza la strategia dell’Impero Celeste.

Siamo nel pieno del grande gioco del Mediterraneo allargato, in evoluzione rispetto al passato recente. Negli ultimi mesi dalla Siria alla Libia, è stata la diplomazia russo-turca a giocare la partita a tutto campo, su fronti opposti Putin e Erdogan hanno dettato i tempi e le regole, ma ora l’esplosione al porto di Beirut fa emergere una nuova potenza e un nuovo protagonista sulla scena: la Francia e il suo presidente Emmanuel Macron. È un classico della politica d’Oltralpe. Quando si avvicina la fine del mandato, la partita si sposta fuori dai confini nazionali e si gioca di “grandeur” all’estero. Laddove si può vincere o almeno si può non perdere. Nicolas Sarkozy lo fece in Libia, François Hollande ci provò in Siria. Ora invece è Macron a fare un tentativo e occupare uno spazio tra Russia e Turchia, sganciandosi dagli Stati Uniti, agendo nel Mediterraneo allargato attraverso il Libano. Un Paese perfetto in questo senso: vicino storicamente all’ex potenza coloniale, che parla il francese, legato da accordi commerciali e militari, e con il quale di recente ha ottenuto l’esplorazione offshore di gas e petrolio da un consorzio capeggiato dalla francese Total (con l’Eni e la russa Novatek), e che infine può aprire le porte alla ricostruzione del porto di Beirut (oppure aumentare la capacità di azione su quello di Tripoli, a nord).

Ma ogni strategia per essere portata a termine ha bisogno di un nemico, per creare una polarizzazione netta, per formare un’alleanza più larga, e Macron ha scelto Erdogan con il quale gioca una partita a scacchi sul fronte opposto dalla Siria (Assad è sempre meno un nemico agli occhi del Sultano anche se entrambi non si fidano) fino alla Libia (Parigi sostiene il generale Haftar) passando per lo sfruttamento delle risorse energetiche offshore nell’Egeo. Siamo dentro al Grande Gioco delle vecchie e nuove potenze coloniali e tutto si decide in un “mare” che non è più “nostrum”.

L’Italia paga ancora oggi le scelte sbagliate del 2011 che l’hanno portata ad assumere un ruolo di secondo piano nella regione. E ci costringe da un lato a schierarsi dietro alle decisioni del governo di Ankara, ad oggi l’unico attore mediterraneo con cui possiamo – se non fidarci -, quantomeno sperare di non avere problemi; sfruttare il nostro canale privilegiato con la Russia per inserirci nei tavoli con la Turchia; e proteggere infine gli interessi delle aziende italiane dall’Egitto al Libano passando per l’Algeria.

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