Le europee tenutesi lo scorso fine settimana segnano il nuovo record di astensione nazionale (49.3% i votanti). Al contrario, la concomitanza con le amministrative, dove la politica si fa ancora principalmente faccia a faccia, per conoscenza diretta, ha sollevato il dato dell’affluenza in maniera apparentemente sorprendente (63.9% nei comuni dove si eleggeva anche il sindaco). Confermano il crollo il voto d’opinione e i partiti ad esso più orientati. È finita quella reazione nervosa post crisi economiche, garantita eppure domata dal nuovo conservatorismo, soffocata dal COVID, ma soprattutto dalla frustrazione per l’immobilismo della politica, mix solido di resilienza dei conservatori della politica e di inabilità dei sedicenti rivoluzionari antisistema.
In Italia il tracollo della partecipazione è iniziato con la Grande Recessione del 2008. Aveva resistito, pur deviando fragorosamente verso la contropolitica, persino alla tempesta di Mani Pulite. Dopo il 2008 il movimento è stato duplice: un’altra decisa virata verso la politica che distrugge la politica, con la nascita e l’esplosione dei nuovi movimenti antisistema – M5S e nuova Lega su tutti, e un progressivo ampliarsi della voragine degli invisibili, a cui non spettano poltrone vuote nell’emiciclo. Da qui, dunque, inizierà questa storia dell’astensione.
Una piccola premessa: l’astensione non è tutta uguale. Una parte è strutturale e apolitica. Questa minoranza passiva e soddisfatta era elogiata dalla scienza politica americana post-bellica come sintomo del buon funzionamento del sistema, della capacità di produrre prosperità e sazietà per l’individuo, tanto da permetterne il ritiro dall’impegno pubblico senza pericolo per la tenuta democratica. È un’astensione da boom. Non c’è dubbio che questa permanga anche nella nostra epoca, oggi però, il mondo occidentale vive una nuova ondata di astensione, ben diversa e profondamente politica: è l’astensione da esaurimento. Lucida conclusione dell’esaurimento delle alternative, frustrazione piena per la resilienza di un sistema che si repelle dal profondo dell’animo. Si tratta spesso di un voto liquido, capace di mollare chi percepisce aver tradito il patto elettorale, che si è allontanato dalle fasce moderate verso quelle più estreme ad egli potabili.
Ritornando alla crisi della partecipazione, è necessario un piccolo ripasso storico. Tangentopoli fu il sistema che distrusse sé stesso, e il popolo accompagnò col suo consenso; un atto di sovranità, paradossalmente. La Grande Recessione e la crisi del debito sovrano rappresentarono invece la resa del sistema politico (nazionale) a quello europeo e globale, cui si è accompagnata la frustrazione rabbiosa del popolo. Per tacere dei gargantueschi movimenti dei mercati internazionali e della globalizzazione, con la riorganizzazione della divisione internazionale del lavoro e tutto il resto: un’altra storia di totale impotenza della politica.
Per la prima volta dal dopoguerra gli italiani vissero una situazione di sottomissione nazionale, che,nelle sue conseguenze austere, pareva minacciarne la sopravvivenza, vedendo il vicino caso greco. Per la prima volta dal dopoguerra, l’italiano medio non era più una storia di successo: dopo trent’anni (quasi sarebbe meglio dire cinquanta) di produttività stagnante, la limitazione del debito in tempo di crisi è stata il mix letale per l’economia italiana, cui il specifico della moneta unica hanno imposto austerità e flessibilizzazione del mercato del lavoro come uniche soluzioni percorribili.
E dunque un primo picco dell’astensione (-12% in dieci anni). Qui torna l’effetto di Tangentopoli: la frammentazione e lo svuotamento delle “case sicure”: quella stampella fatta di ideologia (o di prebende) cui sorreggersi nei momenti di crisi, per non cadere nel vuoto del vortice del declino, e nel conseguente nichilismo valoriale. Plastica esemplificazione di ciò: il voto diventa liquido e imprevedibile, la ricerca della stampella, materiale e morale, diventa una pignatta bendata, governata dal fermo rifiuto per la politica, niente assenso a credito, fino alla premiazione sistematica della verginità politica (una tendenza che colpì persino Renzi a suo tempo, oggi simbolo dell’establishment transnazionale di classe agiata in Italia).
Le nuove fedeltà post-ottantanove, messe alla prova per la prima volta, falliscono clamorosamente il compito appena descritto: sia dal punto di vista materiale che ideale, la percezione è di un voltafaccia continuo verso il consensus economico internazionale, di un afflato sociale che non lo era, di una netta separazione di classe sociale tra le élites politiche, proiettate in una società cosmopolita, sazia di privilegi economici.
È il picco nel 2018, quando la contropolitica nella sua forma più radicale – o la politica dell’antipartito, nella fortunata formulazione di Salvatore Lupo – riuscì ad andare al potere. Ma proprio qui inizia il movimento che ci porta alla fase attuale: la contropolitica si mostra egualmente impotente di fronte al sistema politico e alle dinamiche globali (se non peggio). L’impotenza di fronte al potere dei numeri, e dei burocratici loro alfieri; di fronte all’intrinseco potere corruttore della politica; di fronte ad una politica etichettata inetta, che invece ha saputo mostrare le sue doti migliori in fatto di scaltrezza. Dall’inestricabile rete del debito, alle manine nei ministeri, alla scoperta dei benefici (ma anche degli insolubili vincoli) della costruzione europea, alle dinamiche partitiche interne ed esterne, le migrazioni (la chiusura degli SPRAR che ottenne tutti gli effetti opposti agli intendimenti iniziali), i vaccini.
Dopo la tradizione, anche la rivoluzione ha fallito; l’ultimo baluardo delle istanze più radicali e del voto di protesta. Il dato sui (de)flussi elettorali è chiaro. Per far rientrare buona parte degli astenuti servirebbe dunque una proposta radicale, molto radicale, nei metodi come nei temi. Eppure, il movimento della politica degli ultimi anni è andato, volente o nolente, in direzione completamente contraria. Quale, la radice comune di questo contraddittorio movimento?
In primis, il fatto che non tutto, nelle democrazie, si svolge secondo principio democratico. La burocrazia, l’expertise, la diplomazia, la pura forza riplasmano e canalizzano continuamente la volontà popolare, talvolta la sconfessano apertamente. E così, i vincoli di bilancio non si decidono per referendum, perché principio economico fondamentale è che “la mano che dà sta sempre sopra la mano che chiede” (Adam Smith); allo stesso modo, una pandemia non si affronta con urla in piazza e slogan complottisti; o anche – promemoria per il domani – le guerre non si dichiarano per consenso popolare, perché è lo stato che, nella cura della sopravvivenza di sé stesso, chiama i suoi sudditi a servirlo.
Secondariamente, l’intrinseca corruzione della politica. Forse questa ha sorpreso più di tutti: la capacità del mondo politico di assorbire i corpi estranei e discioglierli nel suo organismo fino all’assimilazione completa. Parabole di distacco dalla base attivista, di conversioni volontarie, di desaparecidos nell’emiciclo. La scoperta dei privilegi, di un’alta società pronta ad accettarti in cambio della conformazione a codici e idee. Un taxi dal costo bassissimo che ha potuto portare un ragazzo ai margini della società nel mondo cosmopolita e luccicante della diplomazia mondiale.
E poi l’importanza strutturale del do ut des, del consenso strutturalmente fedele per necessità materiali, scoperto nella nuova politica dei bonus e dei trasferimenti. Un forte sapore di Prima Repubblica, con retrogusto di tonno.
Infine, la pura e semplice ingenuità politica di chi non conosce il mestiere per professione. Dal suicidio politico perfetto nel 2019 che segna il declino della carriera politica di Matteo Salvini, ai buchi legislativi nelle leggi sul RdC, Superbonus, riforma della giustizia, che soli sarebbero sufficienti a decretarne la morte.
La politica dell’antipartito ha viaggiato per qualche anno sulla cresta dell’onda, tra scelte tattiche inspiegabili, plateali dimostrazioni d’impotenza e la normalizzazione volontaria. Dopo sedici anni, tre crisi. L’elettore, quello che rimane, preferisce un’idea più strutturata, mira più lucidamente l’opposizione ai temi – Green Transition candidata numero uno – e sceglie chi, eletta per garantire la rivoluzione, finirà anche per domarla. I segnali sono già arrivati: europeismo de facto, agenda Draghi, atlantismo di ferro anche se non sbandierato, e nessuna Norimberga contro i decision-maker dell’era COVID. Nella mente di chi la voleva al governo c’era qualcosa di diverso, ma l’energia morale si è esaurita.
L’astenuto, invece, può dire di averle viste e provate tutte, ma il sistema ha vinto. Troppo resiliente, troppo attraente, troppo debole e inetto chi prova a sfidarlo, ineludibili le dinamiche a cui voleva opporsi. Nel breve termine è una scelta priva di effetti, sintomo di una malattia, non la reazione. È la storia di una resa, e di una disillusione. L’illusione che il principio democratico significasse totale libertà di scelta contro lo stato, le società e il mondo intero.
La politica, nel frattempo, non può che rallegrarsi di tutto ciò: la variabile imprevedibile è espunta dall’equazione; rimane chi ha bisogno della politica, e ha bisogno del politico.
L’unico rischio? Quando voto contro la democrazia diventa maggioranza assoluta, logica democratica lo vorrebbe a governare; e allora qualcuno proverà ad intestarsi questa vittoria, definitivamente.