La scena che vede il Papa reagire rabbiosamente alla molesta insistenza di una donna che reclamava per sé il corpo del vicario di Cristo è, oltre che insolito, un gesto di rara potenza evocativa; in quei pochi secondi, esageriamo volutamente, è racchiusa l’intera storia dell’umanità. Ci sono numerose considerazioni da fare per cercare di snodare i molteplici fili che costituiscono il significato di quella scena.
Nella scena di cui sopra, le mani sono le assolute protagoniste: quelle della troppo calorosa fedele e quelle del Papa, prima vittime e poi aggressive. Jacques Derrida, nel suo famoso testo “L’animale che dunque sono”, ci ha detto una cosa molto importante: l’uomo si differenzia dall’animale non a causa della razionalità (‘animal rationale’ diceva Aristotele) ma perché si vergogna della sua nudità. È l’unico animale che si vergogni del suo corpo nudo. Innanzitutto, quindi, le mani sono quell’unica parte del corpo che spesso anche in inverno non viene coperta, delle mani non ci si vergogna. Certo, ma perché? Probabilmente perché, per dirla con Anassagora, l’uomo è intelligente in quanto ha le mani. Più tardi, Bruno dirà che le mani, insieme all’intelletto, rendono l’uomo simile a Dio.
Dunque: le mani servono, sono la nostra confidenza con il mondo e la sua presa di possesso. Grazie alla capacità di modellare la realtà, l’uomo ha inventato le varie tecniche, in conseguenza di ciò si è reso sedentario, dunque ha creato città e dunque civiltà, in una parola: è nata la cultura, l’uomo come animale simbolico per dirla con Cassirer. L’uomo è un animale simbolico poiché agisce principalmente attraverso le varie forme culturali, vale a dire nei vasti sistemi simbolici rappresentati dal mito, dalla religione, dall’arte e dalla scienza. La realtà, allora, può dirsi costruzione simbolica dell’uomo, è infatti l’uomo a dare un senso ad essa attraverso la propria capacità di creare relazioni simboliche, meglio: la realtà è frutto di una mediazione simbolica.
Ma, come si diceva, è grazie alla mano, all’operari dell’homo faber, che l’uomo ha potuto costruire i suoi simboli. Ed allora comincia a chiarirsi la genesi concettuale di quella veste bianca e della reazione del Papa. La mano del Pontefice che esce dalla veste bianca è in realtà la fotografia capovolta di come sono andate le cose, è la veste bianca che esce dalle mani non solo perché sono delle mani che l’hanno cucita ma perché, come si è detto, è dal lavoro che ha potuto nascere il simbolico. Qui appare tutta la contraddizione o duplicità della figura del Santo Padre, quest’essere intermedio tra la terra e il Cielo. La veste bianca ha un significato molto preciso che tutti conoscono: purezza e santità; il Papa saluta i fedeli come papa, non solo come uomo. La mano scoperta significa che, certo, è anche uomo, se non lo fosse non sarebbe quel mediatore tra creature e creatore. Tuttavia, ribadiamolo, è in quanto papa che quell’uomo incontra e viene incontro ad una moltitudine di persone: il bianco lo sovrasta, la corporeità, la nudità è ridotta al minimo, semplice ‘scintilla’ che mette in comunicazione il profano con il sacro.
Il Pontefice in queste occasioni tocca molto brevemente migliaia di mani, incrocia velocemente gli occhi dei fedeli e altro non può fare. Ognuno di loro reclama, invece, quel rapporto esclusivo, uno a uno, con la divinità semi-incarnata; il cristiano fervente ha bisogno di quell’esclusività che, se si realizzasse, distruggerebbe con ciò stesso il concetto di Chiesa, di ecclesia. Con la mano si tocca e il Papa, infatti, tocca, non stringe davvero le mani anche quando le stringe, egli è l’incarnazione dell’idea dello Spirito che passa sopra tutti e nessuno; tutti saranno salvati ma nessuno in particolare.
Tornando al fatto increscioso: che cosa bramava la troppo entusiasta cristiana? Si può dire: certamente reclamare a sé il corpo rivestito di santità come per le reliquie dei Santi, ma trattenere il corpo vivo permetteva qualcosa di ulteriore: portarlo a sé e costringerlo allo sguardo e non semplicemente a incontrare i suoi occhi, cioè quello che succede quando Sua Santità passa tra la folla acclamante. Lo sguardo non è la visione, conduce ad una relazione intima, si può offrire allo sguardo di un altro la propria interiorità denudata senza provare vergogna, di questa nudità e dello sguardo del Papa infatti questa donna non ha timore.
La fedele, tuttavia, afferra il Papa prima di trattenerlo e tirarlo a sé. Non bisogna tralasciare questa differenza che è fondamentale: la donna afferra il Papa e lo tira a sé, sarebbe stato diverso se il Santo padre le avesse porto la mano e quella l’avesse trattenuta. Nell’afferrare c’è la volontà di appropriarsi, di fare-proprio, ciò che in questo caso non può mai essere proprio, ridotto a sé, cioè il sacro. È illuminante riflettere in questo caso sull’etimologia di sacro: secondo una derivazione indoeuropea, la radice del termine avrebbe il significato di “attaccare, aderire, avvincere” e quindi ne viene il senso di una cosa “avvinta alla divinità”. La signora che prende il Papa afferra colui che è “avvinto alla divinità” e, di conseguenza, si rende sacrilega perché, rifacciamoci ancora all’etimologia, sacrilego deriva da sacer (sacro) e –legus (da legere, ossia cogliere, prendere): la pia signora vuole il sacro per sé, sottrarlo e, dunque, si rende sacrilega. Per salvarsi, si danna.
Ma il sacro, ostaggio del sacrilego, come può uscire da questa situazione? Non con la parola, la persuasione, il verbo. Il sacrilego ha già deciso di oltrepassare lo spazio intermedio tra sé e il divino, lo vuole fare suo, è già nell’hybris: la mediazione del sermo sarebbe inefficace; ecco allora che il pontefice esce dal simbolico, lo rompe, lo azzera e risponde con l’animalità, quasi con la violenza. L’animale che dunque è (anche) il papa riporta l’intera scena (totalmente retta dal simbolico: Roma, la piazza, la massa di fedeli, la funzione, la veste) al grado zero. Grandioso capovolgimento: l’animalesco che difende il divino mostrandone, ҫa va sans dire, l’origine umana, troppo umana.
Questa spiegazione ‘teologica’ tuttavia non può far sparire il dubbio sulle motivazioni di questo voler essere vista, addirittura voler essere guardata dal sacro. Il Papa non è nuovo a situazioni di questo tipo, spesso è stato strattonato, a volte quasi caduto a causa delle persone che chiedevano con insistenza un selfie. C’è in queste manifestazioni di entusiasmo religioso qualcosa di più intenso, di più egoista (cadendo a seguito di uno strattonamento durante una visita in Messico nel 2016, il Papa disse al responsabile di “non essere egoista”). Non sarà che si è infiltrato anche nella sfera del sacro l’imprescindibilità dell’essere visti per esistere che, declinato in senso religioso, equivale ad essere salvati? Non ‘vivere il momento’, come si dice, ma essere visti mentre si tocca un estremo di quel momento (quindi non viverlo affatto) come quell’unica esperienza in grado di ‘santificare’ retroattivamente tutta l’esperienza fino a quel momento.
Tutto quanto possa significare assistere alla venuta del papa in mezzo ai fedeli sembra insufficiente se non si riesce a raggiungere l’estremità, l’eccezionalità della situazione – un po’ come quei casi in cui qualche sedicente influencer ha trovato la morte per fare la foto più unica e inimitabile – potendo quindi realizzare il vero obiettivo: distinguersi dalla massa. L’uniformità schiacciante e il conformismo imperante generano giocoforza questo telos immanente ad ogni azione, viverne l’esclusività, cioè l’unica salvezza in tempi di indistinzione di massa. Prendendo spunto dalla liturgia cattolica si potrebbe dire: “Ma dammi soltanto il tuo sguardo, ed io sarò salvato”.
E tuttavia, c’è un ultimo, importante aspetto che va sottolineato. Perché se abbiamo spiegato in senso ‘teologico’ la scena, se abbiamo addotto le possibili motivazioni, molto contemporanee, del comportamento dell’incauta donna, rimane da dire qualcosa sull’altrettanto contemporanea reazione del Papa. Il corpo, infatti, da alcuni anni, sembra diventato drammaticamente centrale nel rapporto io-mondo. Beninteso, non che prima non lo fosse, ma oggi si rivendica una centralità del proprio corpo come mai prima. Il corpo lo si sta cominciando a intendere come vero e proprio luogo di battaglia tra le imperative richieste di spersonalizzazione del proprio sé e la propria, legittima, resistenza ad esse.
L’epoca che ci ottunde, questa sfera poco cristallina in cui sembriamo chiusi, ci chiede di essere perennemente intercambiabili, spostabili, rimuovibili, dislocabili. Ogni desiderio individuale è passato al setaccio e ridotto al quantificabile. Si comincia dalla scuola, quando ci viene detto che dobbiamo scegliere, cioè costruire il nostro sé, a partire dalle esigenze del Mercato. Questa gentile e spietata imposizione continuerà fino al limite del sopportabile: chi non sopporta può accomodarsi e far posto ad un altro. Il sistema di cui sembra abbiamo smarrito i codici, il pulsante di arresto, è un sistema che abusa innanzitutto dei nostri corpi: che li mette in un ufficio, ne condiziona la postura, ne fa ammalare gli occhi, ne tutela sempre meno la salute, li fa sfogare in palestre affollate facendoli correre senza muoversi, li fa assumere stupefacenti per sopportare la competizione, li fa mangiare a poco prezzo in terribili session di all you can eat, li fa dimagrire troppo, stare in piedi schiacciati sui mezzi pubblici, li fa buttare sotto i mezzi pubblici, li getta al freddo, li mette in luoghi troppo caldi. Il dominio della produzione di valore, è il dominio politico dei corpi. E, d’altronde, su nulla delle nostre vite abbiamo più potere che sui nostri corpi. Sembra che tutto ci sfugga, che ogni cosa che conta sia decisa altrove ed allora, cosa resta da difendere, allora, se non un po’ del nostro corpo? Il corpo che abbiamo è un resto.
I dati in merito alla violenza sulle donne parla sì di un miglioramento generale ma va detto che lo zoccolo duro della violenza di genere, stupro e tentato stupro, rimane invariato dal 2006 al 2014. Al di là delle statistiche, il corpo ‘dominato’ ha una valenza simbolica centrale: si tratta di una disperata volontà di dominio sul corpo più debole, l’unica cosa che si crede di poter ancora sottomettere alla propria volontà, alle proprie decisioni: le famiglie si spaccano per il crocevia di desideri impossibili che questa società dopata inocula negli individui ed allora, se non posso avere la tua anima, mi prenderò il tuo corpo che, tra l’altro, ha il vantaggio di mostrare all’ego malato i segni della propria (im)potenza, di sè. L’esplosione della moda dei tatuaggi, spesso ricoprenti grandi aree del corpo, cos’altro è se non un disperata richiesta di visibilità, di riconoscimento della propria identità? La cura maniacale del fisico tra diete e palestre cos’altro dice se non una speranza di controllare la propria vita? Anche la volontà di morire, una volta che la vita ha già emesso il suo verdetto, non è solo una legittima richiesta di tirare il sipario sull’increscioso spettacolo di inutili sofferenze ma anche quella di re-impossessarsi, al limite estremo, di quel corpo spossessato prima dalla vita macchinica e ora dalla malattia. Ma lo stesso, a ben vedere, può dirsi dei milioni di selfie, anche quelli più estremi citati prima: cos’altro sono se non segnalare un corpo diversamente situato, orienatto, accompagnato, circondato? Del selfie ci interessa ciò che differenzia ciò che ci è di più proprio: il corpo (ignorando il fatto che lasciarlo nascosto, poco esibito, è l’atto davvero sovversivo).
In fondo, allora, il Papa, costretto a diventare icona mediatica prima che religiosa, sottoposto alla pressione di un asfissiante marketing industriale, faccia che non può negarsi al piacere del pubblico, alla mediatizzazione costante di ogni suo gesto, ha per un attimo rotto il meccanismo cercando di divincolarsi dalla machine, di sottrarre il proprio corpo allo sbranamento della logica dello spettacolo. Questa logica, quella che viviamo tutti seppur a diversa intensità, è quella che ti dice come essere, quando esserlo, dove esserlo: la logica della sottrazione del corpo.