Che le buone amicizie siano molto utili quando ci si trova alle strette è una massima comunemente accettata nelle faccende umane. A maggior ragione se si parla di politica e di politici, i contatti e i rapporti personali giocano un ruolo fondamentale nella costruzione di alleanze e prospettive future. Se poi, come nel nostro caso, ci riferiamo ad amicizie che provengono dall’alto, il tutto acquista un’aurea decisamente più sacrale e interessante.
Non è un segreto il fatto che il presidente del consiglio Giuseppe Conte abbia sempre avuto un legame ben avviato con le sfere ecclesiastiche romane. Durante la sua breve, ma intensa, carriera politica in diversi momenti si è trovato a dover maneggiare con cura argomenti e sensibilità religiose, e ne è sempre uscito indenne. Iconica rimane l’immagine al senato dell’Agosto 2019, in cui un Salvini appena uscito dalla sbornia del Papetee si cimenta in baci ed effusioni a rosari e crocifissi vari, mentre il premier come un padre amareggiato più che amorevole redarguisce l’incoscienza religiosa del leghista. La sottotraccia di questo scontro non si esaurisce solamente nella comune ambizione da parte dei due contendenti di sedere sullo scranno più importante del governo, ma disegna i rapporti tra due sfere contrapposte all’interno della religione cattolica. Da una parte l’ultra conservatorismo dell’ex ministro degli interni, che utilizza i simboli religiosi come un ariete per sfondare il consenso tra masse di fedeli sempre più povere di cultura religiosa, ma avide di simulacri facili da digerire, strizzando l’occhio ai sovranisti di mezza Europa e d’Oltreoceano; dall’altra lo stile laico e composto dell’avvocato degli italiani, che condivide un’impostazione progressista del cattolicesimo in sintonia con le visioni attualmente in voga in Vaticano. Per il momento l’esito di questa partita appare già scritto, ma quando si parla di cose celesti vale la pena assumere un atteggiamento prudente e pazientare con fiducia escatologica l’ultimo giorno, per riconoscere i reali dannati e i beati salvati.
Un altro passaggio delicato, ma importante per comprendere l’incidenza di Conte sugli affari ecclesiastici si situa durante la fase più difficile del lockdown della scorsa primavera. Ci troviamo a fine aprile ed è stato pubblicato da poco il DPCM che regolerà la famigerata e attesa fase due. Non appena si legge, tra le righe del decreto, che le messe saranno vietate fino a nuovo ordine, si levano all’unisono le lamentele pungenti e destabilizzanti della CEI, la conferenza episcopale italiana: apriti cielo! Si parte con affermazioni apparentemente innocue come: “il governo vieta la libertà di culto”; per arrivare a non troppo velate minacce di sciopero della carità: “dovrebbe essere chiaro a tutti che l’impegno al servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale”. A porre un argine a quest’onda di polemiche pare sia stata una repentina chiamata tra palazzo Chigi e Santa Marta, la residenza del Papa, il quale il giorno dopo ha sconfessato la linea presa dai vescovi italiani e ha dato pieno appoggio ai provvedimenti del governo.
Se quella sera Conte abbia parlato direttamente con papa Francesco non lo sappiamo con certezza, di sicuro però, nella rubrica telefonica del premier è presente il numero del Segretario di Stato di Sua Santità Pietro Parolin. Il cardinale Parolin, il primo ministro del Papa, proviene da una lunga carriera internazionale: dopo aver frequentato la Pontificia Accademia Ecclesiastica, il centro di formazione dei diplomatici vaticani, inizia un lungo peregrinare come ambasciatore e rappresentante della Santa Sede con incarichi delicati in Sud America e in Asia. Si deve però a una località molto meno esotica il suo primo incontro con l’allora sconosciuto Giuseppe Conte. Siamo a Villa Nazareth, un collegio universitario nella periferia ovest di Roma che offre vitto e alloggio per studenti con problemi economici e usciti con buoni voti dalle superiori. Qualcuno la chiama la «Hogwarts della chiesa», in realtà gli edifici che compongono la struttura sono abbastanza modesti, così come anonimi appaiono la maggior parte degli studenti che è passata tra questi corridoi. Il giovane Conte frequenta la villa durante i suoi anni universitari, ma la vera magia di questo luogo gli si manifesta una volta finiti gli studi. Viene chiamato dal fondatore della Villa, il cardinale Silvestrini anche lui potente diplomatico di San Pietro, a collaborare nella gestione del collegio tramite consulenze, tutoraggio degli studenti e relazioni con le università straniere. Da quel momento il futuro premier non abbandonerà mai il contesto di villa Nazareth e stringerà rapporti con le alte sfere della curia romana, tra cui oltre a Silvestrini, l’arcivescovo Claudio Maria Celli, entrambi presenti al suo matrimonio, e il già citato Segretario di Stato Parolin, che nel frattempo è stato nominato presidente del collegio. La residenza universitaria diventa l’occasione per coltivare questi rapporti privilegiati con la “casta” vaticana, in realtà si tratta di uno specifico ramo del gruppo dirigente d’Oltretevere, quello che riguarda i rapporti internazionali e diplomatici. Seguendo le biografie dei tre prelati si può ripercorrere mezzo secolo di storia politica vaticana: dalla revisione dei patti lateranensi nel 1984, la cui delegazione pontificia era guidata da Silvestrini, passando per il lavoro di riavvicinamento tra Roma e le chiese orientali, si deve all’arcivescovo Celli la traduzione in cinese di numerosi scritti del papa, per arrivare al governo del segretario di Stato Parolin, vero e proprio braccio destro di papa Bergoglio.
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— L’Intellettuale Dissidente (@IntDissidente) January 15, 2021
Molti addetti ai lavori si domandano se dietro a queste amicizie prestigiose non ci sia il progetto politico ben definito di costruire un partito cattolico moderato. Da entrambe le prospettive sembra un’eventualità tutt’altro che remota e inverosimile. Per Conte la necessità di legare la sua figura politica a un partito diverso da quelli attualmente nella maggioranza sembra essere sempre più stringente. Costruire un soggetto che si situi al centro dello scacchiere parlamentare, intercettando gli esuli delle altre formazioni (dai forzisti nostalgici di una leadership forte, che Berlusconi non è più in grado di esercitare, passando per i democratici delusi e da una parte del M5S) e occupando lo spazio ora riservato ai partitini di Calenda e Renzi (che verrebbero eliminati definitivamente), potrebbe essere un obiettivo che ben si abbina con una forte vocazione cattolica, peraltro mai nascosta da parte del premier, e che farebbe da collante ideologico a questa accozzaglia eterogenea di parlamentari diversi. Per i grandi manovratori dello stato pontificio, allo stesso modo, trovare un leader forte, credibile e carismatico che riesca a catalizzare il mondo cattolico intorno alla sua personalità può essere la strada più facile per formare quell’agognata casa politica che da molti decenni ormai manca nella vita parlamentare italiana. E così, Conte e il “partito romano”, quell’insieme fluido di eminenze grigie del vaticano, finanzieri, diplomatici e faccendieri, che hanno a cuore le sorti della Chiesa ‒ non sempre spinti solo da spirito di fede ‒ si troverebbero uniti per una nuova avventura politica.
Se l’attenzione ai nomi è ancora una delle caratteristiche della tradizione ecclesiastica, allora i protagonisti di questa storia farebbero bene a cambiare quello di questa sorta di gruppo dirigente. Infatti, il partito romano è il nome che veniva usato per indicare quella fazione all’interno della Chiesa, che all’indomani della nascita della repubblica lottava per la creazione di un partito cattolico di destra in alternativa alla Democrazia Cristiana. Molti funzionari del vaticano non erano soddisfatti dell’autonomia che aveva la DC di De Gasperi nella gestione della strategia politica e criticavano la morbidezza con cui si combatteva il vero pericolo per la cristianità: il comunismo. Una parte delle alte sfere ecclesiastiche voleva avere un potere diretto sulle dinamiche politiche e per questo spinse la formazione di un nuovo partito cattolico, andando a pescare tra le file di monarchici e missini, in grado di combattere il pericolo rosso. L’iniziativa non andò mai in porto e con la salita al soglio pontificio di Giovanni xxiii e poi di Paolo vi tramontò definitivamente il progetto.
Tra le due esperienze si possono notare alcuni punti di contatto interessanti. Anzitutto il doversi confrontare con un nemico ben definito: se negli anni ’50 esso era rappresentato dai comunisti, oggi si può identificare nel sovranismo e nel populismo delle destre l’avversario da battere. In secondo luogo, la longa manus di vescovi e cardinali, che tesse le fila di una trama politica per dare voce alla comunità ecclesiale, prima che a quella dei fedeli. Infine, la disgregazione di una formazione partitica già esistente, all’epoca la giovane Democrazia Cristiana, oggi la compagine squinternata di maggioranza che faticosamente cerca di creare quel campo progressista che nessuno è troppo convinto di voler costruire. In questa situazione caotica e mobile, durante una crisi parlamentare nel bel mezzo di una pandemia, Conte e il partito romano continuano a dialogare, ammiccandosi, sostenendosi e ricordandosi vicendevolmente con una serafica tranquillità l’adagio che la Chiesa da millenni insegna alle sue pecorelle nel momento del pericolo: “Aiutati, che Dio ti aiuta!”.
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