«Verso una nuova età dell’oro»: sembra questo il succo del discorso di insediamento di Donald Trump in cui si conciliano il recupero delle più antiche mitologie politiche americane e una nuova bussola di politica estera (fondata sulla realpolitik) già annunciata nelle scorse settimane. Nelle sue ultime dichiarazioni (culminate nel discorso di insediamento del 20 gennaio) Donald Trump ha lanciato in più occasioni, infatti, messaggi spigolosi e cruciali tanto agli avversari strategici degli USA, quanto ai partner europei. Portando avanti un approccio transactional e orientato ad un realismo politico che sembra proiettarsi in un’ottica di “grandi spazi” e di conquista di nuove frontiere. In questo senso il nuovo corso del trumpismo recupera il mito jacksoniano della frontiera e una proiezione continentale (tra Monroe e Teddy Roosevelt) per cercare una sintesi tra il MAGA e gli interessi del compound strategico americano. Si punta così, attraverso un nuovo pionerismo digitale e continentale, ad attuare i principi del MAGA nella scena internazionale. Per commentare questi sviluppi abbiamo intervistato l’ambasciatore Sergio Vento, già consigliere diplomatico di quattro presidenti del Consiglio, ambasciatore italiano negli Stati Uniti, in Francia, all’Ocse e alle Nazioni Unite.
-Ambasciatore Vento come commenta le dichiarazioni (dalla conferenza stampa del 7 gennaio fino al discorso di insediamento del 20 gennaio) di Donald Trump sulle linee di politica estera della sua presidenza?
In primo luogo, mi ha molto colpito il fatto che il Presidente statunitense abbia parlato poco nelle sue prime esternazioni ufficiali delle tre grandi crisi che hanno condizionato il dibattito occidentale in questi anni, ovvero quella russo-ucraina, quella mediorientale e quella tra Cina e Stati Uniti nell’Indopacifico. Trump ha sorpreso la platea internazionale concentrandosi su una scacchiera prettamente continentale che ha investito il Canada, la Groenlandia, Panama e il Golfo del Messico. Aldilà delle argomentazioni e delle giustificazioni usate però mi sembra opportuno soffermarmi sui nodi concettuali di queste esternazioni. Il Potus mostra, infatti, di voler rovesciare il tavolo delle priorità strategiche e di sicurezza degli Stati Uniti proponendo un orizzonte alternativo. Il suo obiettivo è di accantonare alcune priorità del sistema americano, cercando di captare però i consensi dell’establishment tramite un disegno strategico inteso a costruire un “grande spazio” di controllo americano, che si estenda da Panama fino all’Artico. Nella visione di Trump gli Stati Uniti devono affermarsi come una grande potenza continentale strategicamente compatta e capace di disporre di enormi risorse minerarie ed energetiche, allargando il proprio controllo dall’Artico al ribattezzato Golfo d’America in nome dell’America First. In questo senso il Presidente sta portando avanti una visione della politica estera di impostazione quasi primonovecentesca (pensiamo al primo Roosevelt) in cui rivendica da una parte l’insofferenza contro le residuali influenze europee nel territorio nordamericano (specie nel caso del Canada), dall’altra un rinnovato mito jacksoniano della frontiera e della sicurezza geopolitica degli Stati Uniti ad esso connessa (è il caso del Canale di Panama e della Groenlandia).
-Quali crede saranno le evoluzioni portate sulla scacchiera internazionale da queste dichiarazioni?
Credo che indipendentemente dalla attuazione di questi messaggi occorra riflettere su alcuni fattori. Escludo, infatti, una “scomparsa” del Canada entro la fine del mandato presidenziale, come mi sembrerebbe, del resto, estremamente imbarazzante una annessione della Groenlandia favorita da un sostegno ai movimenti indipendentisti locali. Anche perché il sostegno ai separatismi potrebbe rivelarsi per Washington un’arma a doppio taglio… La mia impressione è, infatti, che bisogna diffidare di una interpretazione ansiogena e letterale delle dichiarazioni di Trump. Soprattutto perché lui stesso ha precisato che nell’attuare questa bussola strategica non ci sarà coercizione militare, ma solo una azione di pressione e condizionamento economico, verosimilmente in competizione con la Cina e la Russia. Con la giustificazione a suo dire di voler prevenire o scardinare le influenze e penetrazioni cinesi a Panama e quelle russe in Groenlandia.
-Per quale motivo il tycoon sta seguendo questi indirizzi?
Trump con questa impostazione cerca di far capire a chi lo accusa di essere poco attento e sensibile agli interessi americani di sicurezza e agli equilibri strategici mondiali che esiste una bussola alternativa capace di coniugare gli interessi del comparto strategico americano con i valori del MAGA, rovesciando però il tavolo delle attuali priorità geostrategiche.
-Quali corollari sono prevedibili per il quadro interno statunitense?
La prima conseguenza di questa visione sarà, a mio avviso, la volontà di seguire negli scambi commerciali il programma di certa destra repubblicana e protezionista (che sin dall’epoca clintoniana ha criticato la creazione di aree di scambio dal Nafta al WTO), incentrata sulla tutela dell’economia e dell’industria americana tramite lo strumento dei dazi contro i principali competitor locali degli USA. Ed in quest’ottica non stupisce l’utilizzo di dazi proprio verso due paesi chiave del Nafta come Messico e Canada. La seconda conseguenza sarà quella di cercare di diluire ulteriormente la residua influenza britannica sul Canada (e quella francese sul Québec), sulla scia di quanto accaduto con l’Australia dapprima con l’ANZUS e più recentemente con l’AUKUS. Va però sottolineato che Trump nel suo discorso ha lanciato un messaggio e un indirizzo ben più complesso le cui ricadute saranno cruciali per gli sviluppi futuri. Tanto alla platea internazionale quanto alla platea nazionale, Trump, infatti, vuole dare l’idea di voler evitare campagne lunghe e inconcludenti in aree remote e complesse (come quelle delle precedenti presidenze), riaffermando al tempo stesso gli interessi strategici americani.
-Quale pensa sia la conclusione concettuale e programmatica di questo discorso di Trump?
Il “vaste programme” geopolitico verso Nord è la dimostrazione che Trump vuole sostituire alle ipotesi globaliste neocon e neodem, un orizzonte realista poggiante su un grande spazio continentale americano in linea con la sua visione di America First. In questo senso Trump, abbandonando la funzione di “gendarme del mondo” degli Usa, punta ad una sorta di versione americana dell’ “Estero Vicino”, di elcyniana memoria. Una visione di Estero Vicino – inteso come area di controllo diretto e non di semplice influenza – che va da Panama alla Groenlandia passando per il Canada. Il concetto di Estero Vicino nella declinazione trumpiana si sviluppa abbinando alla difesa di interessi concreti (minerari e di aperture di rotte di navigazione nella regione artica) antiche mitologie politiche americane (dal culto della frontiera alla creazione di Panama, il cui territorio fu sottratto alla Colombia nel 1903 per l’apertura del Canale). Altrettanto dicasi per l’indicazione apparentemente stravagante, ma politicamente allusiva della ridefinizione nominalistica del Golfo del Messico in Golfo d’America. Un discorso che ci riporta concettualmente all’approccio della Federazione Russa di Elcyn degli anni 90 – attraverso alcuni suoi uomini chiave come Primakov (sul piano della sicurezza e del controllo territoriale) e Černomyrdin (sul piano energetico) – sul rapporto con le realtà statuali scaturite dalla disintegrazione dell’Unione Sovietica. Un approccio che è analogo per alcuni aspetti, concettuali anche se non operativi, a quello rivendicato da Putin sulla questione ucraina. Infatti, nel caso statunitense la coercizione dovrebbe essere solamente economica, al contrario dell’inammissibile utilizzo della forza da parte del Cremlino. Tuttavia così come il discorso revanscista e panrusso di Putin sull’Ucraina affonda le proprie giustificazioni in quella narrazione della simbiosi tra Kiev e Mosca agli albori della nascita dell’impero zarista, nel caso di Trump Panama viene rivendicata come una creazione statunitense e lo stesso Canada viene ripreso come un residuo del ruolo oppressivo della Corona britannica. Si attua così un recupero di una memoria che riprende i topos della guerra d’indipendenza, della guerra angloamericana del 1812, del culto jacksoniano della frontiera ed infine di una attualizzazione della dottrina Monroe. Tale approccio supera la distinzione – cara a Biden – fra democrazie e autocrazie sostituendo la realpolitik alle ideologie.
-Quali potrebbero essere le conseguenze sistemiche di questo approccio nelle relazioni internazionali?
La strategia di Trump presenta delle analogie (al netto delle differenze degli strumenti, già citate) con quella russa e anche con quella cinese in una ottica di una definizione di grandi spazi di controllo che oserei definire “imperiali”: panamericani per Trump, panrussi per Putin e sinocentrici per Xi. Oggi però la bussola di un “Estero Vicino all’Americana” può portare, ad effetti di emulazione e giustificazione di altre situazioni, archiviando la guerra in Ucraina, tramite la giustificazione di fatto della legittimità di un Estero Vicino panrusso, e congelando la crisi di Taiwan tramite il riconoscimento definitivo e concreto della One China Policy. Altrettanto vale per il Medio Oriente con uno scenario di espansionismo “neo-ottomano” risultante dalla combinazione di influenza panturanica, di controllo delle minoranze curde e di equilibrio di potenza nei confronti di Israele, ma anche dell’Iran e dell’Arabia Saudita.
-Proprio in tema di equilibri strategici mediorientali come si ridefiniranno gli equilibri della regione e degli spazi limitrofi (tra il Mediterraneo e il Caspio, il Golfo e il Mar Rosso)?
Come dicevo, l’effetto emulazione nella regione del Grande Medio Oriente allargato, potrebbe manifestarsi ad opera della Turchia. L’Estero Vicino turco, tramite l’eredità ottomana da Aleppo a Mossul, e sui relitti della Mezzaluna sciita (come nel recente caso della Siria), è inteso a proiettare influenze ed interessi anche verso la regione del Caspio e dell’Asia centrale. Mi riferisco tanto al Turkestan occidentale (con i cinque stati di Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan e altre regioni come la Khazaria) quanto nel Turkestan orientale (noto come Uiguristan o Xinjiang cinese).
-Siamo, quindi, ad una sorta di “ritorno degli imperi”?
Mentre nel caso degli Stati Uniti registriamo, come detto in precedenza, forme di razionalizzazione di potenza a livello continentale, le realtà del multipolarismo si manifestano attraverso il recupero di influenza ad opera di soggetti che avevano subito le alterne vicende del XX secolo. Di fronte al fallimento plateale degli orizzonti globali e astorici del “the world is flat” (Thomas Friedman) e della “end of history” (Francis Fukuyama), assistiamo non solo ad un ritorno delle logiche del Novecento (un tema su cui mi sono soffermato nel mio ultimo saggio), ma soprattutto ad una riaffermazione delle nazioni con connotati e aspirazioni imperiali.
-Come si collocano gli europei in questo quadro?
È lecito attendersi nell’era Trump un ulteriore indebolimento delle cornici multilaterali ed una accentuazione dei rapporti su base bilaterale. Questo vale non soltanto per l’ONU, ma anche nei rapporti di difesa e sicurezza finora gestiti in ambito NATO, e per quelli commerciali tenuto conto della competenza esclusiva dell’Unione Europea in tale ambito.
In questo senso l’accenni del 5% può essere letta come una vera e propria provocazione verso gli europei. Un’indicazione contestabile perché sommando le spese aggregate per la difesa dell’UE e della Gran Bretagna si giunge a ben 350 miliardi di dollari rispetto ai 130 della Russia – anche al netto del PPP (Purchasing Power Parities). L’Europa spende molto, ma spende soprattutto male nel settore della difesa. Il punto cruciale però è che si tratta di un’altra messa in guardia rivolta all’Europa in previsione dell’assetto post conflitto in Ucraina. Ai russi non interessa un armistizio a lungo termine (sia pur mantenendo il controllo dei territori occupati), ma una architettura di sicurezza europea, sul modello della CSCE per quanto riguarda la parte politica, ma soprattutto dell’equilibrio degli spiegamenti di forze tattiche e strategiche nel teatro che va dal Baltico al Mar Nero. Le parole di Trump, in realtà, danno più credito oggi a quei paesi e movimenti che guardano alla distensione con la Russia: in Germania Afd, la Serbia di Vucic, la Slovacchia di Fico, l’Ungheria di Orban e l’Austria di Kickl. Evidentemente a parte la Polonia e i Baltici nell’Europa danubiana balcanica c’è un orientamento contrario alle escalation nei confronti della Russia. Bisognerà, poi, fare i conti su come evolveranno le situazioni francesi e tedesche, ma il vero nodo sarà quando si porrà il problema di ridefinire i rapporti tra Europa e Usa e tra Europa e Russia. Ed in questo senso il segnale di Trump agli europei è abbastanza spigoloso…