La scomparsa di Henry Kissinger ha giustamente fatto colare molto inchiostro. La maggioranza dei commenti apparsi ha sottolineato le luci e le ombre di uno delle figure più importanti, ma controverse, della diplomazia del Novecento. Da un lato c’è il giovane immigrato ebreo tedesco che, nell’America degli anni Quaranta, con ambizione, si costruisce una posizione nel dibattito sulla politica internazionale. La conquistata autorevolezza lo porta ai vertici della diplomazia americana. Una volta lasciato il governo, assurgerà a mito che sussurra all’orecchio dei potenti del mondo. I suoi critici, invece, si sono concentrati sulla sua acquiescenza davanti alle violazioni dei diritti umani perpetrate da alcuni alleati degli Stati Uniti, o sulla distruzione causata dal prolungato impegno militare americano nel Sud-Est asiatico.
Questi giusti e necessari resoconti della vita del più famoso Segretario di Stato americano spesso si fermano al giudizio valoriale sulla sua persona. Sembra efficace, ma facile, limitarsi alla dicotomia buono-cattivo, giusto-sbagliato, senza offrire una valutazione di merito sulla sua azione. Può quindi essere interessante soffermarsi su quello che fu il principale limite intellettuale e politico di Kissinger: non comprendere appieno le trasformazioni che stavano avvenendo negli anni Settanta.
Bisogna partire dall’impostazione intellettuale dell’ex Segretario di Stato. In primo luogo, Kissinger fu troppo realista. Maturò l’appartenenza alla scuola di pensiero realista all’epoca degli studi ad Harvard, dove analizzò la diplomazia europea della prima metà dell’Ottocento. Come le ristrette élite del secolo precedente, Kissinger reputava che l’unica cosa che dovesse governare la politica estera di uno Stato fosse il suo interesse nazionale, per il raggiungimento o il mantenimento del potere internazionale. “L’America non ha amici o nemici permanenti, solo interessi”, sintetizzò con la solita freddezza; e per lui, l’interesse nazionale si declinava solo nell’ambito della guerra fredda, quindi nella competizione con l’URSS.
Tuttavia, l’impostazione bipolare fu troppo pervasiva e divenne l’unica con cui leggere l’evoluzione dello scenario internazionale. Una chiave di lettura tanto limitata sfalsò giudizio su molti avvenimenti internazionali, soprattutto nel terzo mondo. Per esempio, Kissinger vide la guerra del Kippur del 1973 non l’ennesimo episodio del lungo conflitto tra Israele e i suoi vicini, ancora vivo oggi, bensì come una nuova mossa sullo scacchiere bipolare: l’Egitto e la Siria, troppo vicini all’URSS, se la prendevano con Israele, alleato dell’occidente. Quindi, interpretò la vittoria di Salvador Allende in Cile come il tentativo di portare un grande Paese dell’America latina, il cortile degli Stati Uniti, dalla parte di Mosca. Non comprese i cambiamenti che attraversava il Terzo Mondo dell’epoca, dove numerosi Paesi che si erano affacciati da poco alla modernità erano ancora alla ricerca del sistema politico, economico e sociale a loro maggiormente adatto. Poi, il Vietnam – un conflitto che Kissinger ereditò – ma che allargò, intensificò, e prolungò. Come i suoi successori la derubricò a offensiva comunista, non comprendendo le conseguenze che avrebbe avuto sull’assertività dei paesi emergenti.
Come spesso accade, il realismo degenera in cinismo. E la visione di Kissinger dell’interesse americano giustificò praticamente qualunque cosa, sicuramente lo scioglimento di ogni vincolo valoriale. Dopotutto, “un Paese che richiede la perfezione morale alla sua politica estera non otterrà né perfezione né sicurezza”. Queste scelte non sono criticabili solo in quanto moralmente deprecabili ma bensì perché non contribuirono al raggiungimento degli obiettivi prefissati: stabilizzare il sistema internazionale e rafforzare la posizione americana nella guerra fredda. Al contrario, queste scelte hanno danneggiato la reputazione degli Stati Uniti e le sue relazioni con gli alleati e i paesi in via di sviluppo.
Un’altra novità portata dagli anni Settanta, della quale Kissinger non seppe tenere debitamente conto, fu la consapevolezza dell’opinione pubblica e la sua internazionalizzazione. In quegli anni, i movimenti a difesa dei diritti umani acquisirono spazio nel dibattito pubblico. Uniti ai gruppi contestatari e all’incertezza economica rafforzarono l’opposizione a Kissinger e al governo di cui faceva parte. Probabilmente, il Segretario di Stato era convinto di poter condurre la diplomazia con la spregiudicatezza degli idoli ottocenteschi della sua gioventù (Talleyrand, Metternich, e Castlereagh). Egli non seppe vendere le sue politiche e la sua visione del mondo o, meglio, non reputò necessario farlo, visto che la politica estera “è troppo importante per essere lasciata agli elettori”. Questa sua noncuranza per la politica e il consenso interno fu tra le cause della sconfitta di Gerald Ford contro Jimmy Carter alle elezioni presidenziali del 1976, colui che Kissinger aveva continuato a servire come Segretario di Stato dopo le dimissioni di Richard Nixon. Carter seppe incarnare la voglia di etica e moralità del popolo americano dopo gli eccessi del Watergate, della CIA, e della diplomazia Kissingeriana.
Le critiche all’operato di Kissinger non devono oscurare la genialità di alcune sue intuizioni che hanno avuto conseguenze strategicamente positive per il potere internazionale degli Stati Uniti. La sua analisi geopolitica del confronto bipolare lo portò a voler ridurre la tensione con l’URSS. Kissinger comprese che il livello di competizione raggiunto non era sostenibile – troppi fronti aperti – ed era quindi necessaria una distensione che congelasse il conflitto bipolare. Sotto la sua guida, gli USA realizzarono una stabilizzazione della relazione con Mosca tramite numerosi accordi che egli supervisionò: dagli armamenti all’economia. Fu un’intuizione brillante che ebbe conseguenze positive su due orizzonti diversi. Nel breve termine, la distensione aumentò il margine di manovra della diplomazia americana. Si rese possibile l’aperura alla Cina che contribuì a dividere il fronte comunista senza destabilizzare il sistema internazionale; il miglioramento dei rapporti con Mosca e Pechino permise la conclusione della guerra del Vietnam. Inoltre, il rallentamento della corsa agli armamenti liberò risorse indispensabili per la gestione di un’economia apparentemente impazzita dopo lo shock petrolifero. Gli Stati Uniti poterono quindi adattarsi e gestire al meglio gli sviluppi dell’ultimo decennio della guerra fredda.

Infatti, uno dei lasciti più significativi di Kissinger si concretizzò nel lungo periodo, in parte inconsapevolmente. La distensione fu una crepa tra i due blocchi, che consentì il passaggio di merci e idee. Da fessura negli anni Settanta, negli anni Ottanta diventò una voragine che accelerò il crollo del blocco sovietico. Qui si cela forse l’eredità più importante della sua permanenza al potere, per cui non otterrà mai i dovuti crediti. La concezione realistica e pragmatica della distensione gli sopravvisse. Sopravvisse all’incerta gestione di nuove tensioni bipolari da parte dell’amministrazione Carter, e fu nuovamente attuata dalla presidenza repubblicana degli anni Ottanta. Si tratta di un paradosso, in quanto, a parole, Ronald Reagan costruì parte della sua fortuna su una critica neoconservatrice alla distensione, proponendo un atteggiamento muscolare nei confronti di Mosca. Ciò nonostante, come molti suoi successori, comprese la lezione di Kissinger secondo cui aperte tensioni con una potenza rivale sono controproducenti e limitano il margine d’azione di Washington. Quindi nascose il suo approccio pragmatico dietro la vigorosa retorica “dell’impero del male”. Reagan ottenne il suo successo praticando diligentemente la distensione, senza predicarla.