OGGETTO: Il grande reset fra Londra e Bruxelles
DATA: 30 Maggio 2025
SEZIONE: Politica
FORMATO: Analisi
AREA: Europa
La Gran Bretagna guarda di nuovo ad un vecchio Continente in crisi. Mentre Jackson si riaffaccia a Washington, in ore che diventano sempre più buie, il populismo divampa ed intimorisce un sistema politico in vita da oltre un secolo. Ma a quale prezzo?
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La Gran Bretagna è un affascinante laboratorio politico. Chiunque porti l’attacco all’algida Albione basandosi su assiomi attagliabili solo a visioni continentali, è destinato all’interessata compassione di miopi e faziosi corifei. In un’epoca in cui la globalizzazione ha infranto ogni frontiera, la fine della Regina Elisabetta ha segnato il passaggio di un’era rimasta di esclusiva pertinenza entro i limites britannici, di un tempo di cui la Corona ha garantito la continuità durante periodi di cambiamenti intessuti di drammi e declini. Elisabetta ha guardato al globalismo secondo una prospettiva etica, non puramente commerciale o strategica; il senso morale della politica e della quotidianità è quel che rimane, testimoniato dal melanconico incanto del Caidil mo Ghaoil  dall’empito del God save the King riecheggiante tra le navate di Westminster

Dal 6 febbraio 1952, data dell’incoronazione di Elisabetta, la Gran Bretagna ha vissuto diversi eventi di rilievo: la riforma della Camera dei Lord, l’ascesa dei Beatles, l’entrata in Europa, la presa di coscienza di non essere più un’isola. Qualsiasi analisi sull’attualità geopolitica del Regno Unito inizia con la Brexit, benché i problemi non principino da lì. In molti ricordano come la cifra pubblicizzata quale dazione settimanale versata a Bruxelles (350 milioni di sterline) non fosse altro che una boutade, tuttavia l’effetto propagandistico è stato dirompente poiché associato alle discrasie di un servizio sanitario tutt’ora non brillante. Peccato che la resipiscenza politica abbia morso in ritardo tanto da suscitare, comunque, crescenti margini anti Brexit. Populismo regnante, secondo una ricerca del Centre for European Reform, l’economia britannica si è contratta rispetto a quanto sarebbe accaduto se Londra fosse rimasta nell’Unione. La Brexit, nel ravvivare l’indipendentismo scozzese, la revanche iberica su Gibilterra ed il revisionismo irlandese del Sinn Fein, ha fiaccato un’economia debole dove, già nel 2015, la qualità percepita degli asset infrastrutturali era inferiore a quella dei Paesi del G7 e dove un’analisi del Financial Times ha stigmatizzato Is life in the UK really as bad as the numbers suggest? Yes, it is. Rimane flottante lo slogan Global Britain, una sorta di MAGA da English Channel, ovvero il preteso riposizionamento della Gran Bretagna in un più ampio contesto globale, laddove la dipartita intenda condurre a nuove cooperazioni ma con partner extra-europei, sfruttando un potenziale altrimenti non esprimibile perché compresso dalle ragioni comunitarie. Del resto, la politica estera assertiva non è una novità per Londra, viste le diverse direttrici seguite oltre l’europea, ovvero l’Atlantica e quella che la avvince al Commonwealth.

A fronte di un reset laburista sarebbe stato lapalissiano attendersi una puntuta chiusura bruxellese, anche perché sembra rimanere latente una forma di intimo gaudio per le infelici conseguenze prodotte dalla Brexit, superato tuttavia da pragmatiche considerazioni securitarie e dalle preoccupazioni indotte dalla crisi populista anti europea che imperversa tra Berlino e Parigi. Insomma, il reset o, meglio, il restart delle relazioni con Londra costituisce un interesse strategico anche per la UE. Del resto, anche il Regno Unito avverte la necessità di conquistare le iarde che lo separano dalla meta di un profitto cruciale, dove qualsiasi competizione volta a perseguire un vantaggio asimmetrico rimane un mezzo per raggiungere un fine e dove la Gran Bretagna dovrebbe puntare a obiettivi generali di lungo termine quali tecnologia e geopolitica, ambedue volte a prevenire l’ascesa di una potenza continentale concorrente; non a caso la British Way è nata dal dominio marittimo asimmetrico indirizzato alla deterrenza. Non è da escludersi che, se gli USA intendessero puntare il focus sul teatro indopacifico, la Gran Bretagna dovrebbe escogitare nuove politiche, sia implementando l’AUKUS; sia aggregando la Joint Expeditionary Force espandendo l’arsenale nucleare; sia curando nuove relazioni con i paesi indopacifici; sia rivedendo una strategia nazionale atta a promuovere crescita economica e coesione nazionale. Qualsiasi vantaggio competitivo, come peraltro già rimarcato dal Governo nel 2023 in tema di revisione integrata, dovrà necessariamente associarsi al multilateralismo.  

Mentre l’eco della vittoria laburista alle elezioni del 2024 sfuma, l’onnipresente Elon Musk interviene nelle dinamiche politiche difendendo con tale verve Tommy Robinson, leader dell’estrema destra, da cui perfino Nigel Farage se ne è distanziato, anche a costo di dover rinunciare alle elargizioni che Mr. Tesla stava meditando di effettuare a favore di Reform UK. Per l’esecutivo, tuttavia, le peggiori insidie si annidano tra le pieghe dei mercati finanziari; la svolta riformista di Sir Keir, ha puntato sia alla stabilità pubblica sia all’attenzione per le esigenze del mondo produttivo, promettendo di non aumentare né debito né tasse. Inevitabile dunque sia la revisione della spesa pubblica, in ubbia alle piattaforme progressiste, sia la modifica delle regole finanziarie, operata in sinergia con il Cancelliere dello Scacchiere, Rachel Reeves, cosa che ha risvegliato le attenzioni degli investitori obbligazionari che, in un momento di potenziale stagnazione, esigono rendimenti sempre più alti sui titoli di debito sovrano. Se per gli investitori il Regno Unito viaggia verso la trappola del debito, bisogna allora ridurre le uscite aumentando le tasse, innescando il rialzo dei rendimenti ma comunque intervenendo sulla spesa per il pagamento degli interessi. Attenzione, quindi, ai possibili attacchi speculativi ed al bilancio complessivo della Brexit che continua a presentarsi sotto una luce incerta. Reeves, prevedendo tagli al welfare e incrementi di spesa per la difesa con investimenti infrastrutturali, ha rimarcato che le previsioni di crescita per il 2025 sono state ridotte dall’Ufficio per la responsabilità di bilancio, un dato che indica come si intenda procedere per evitare di mancare l’obiettivo del pareggio di bilancio entro il 2029-30. In quanto media potenza, con un’economia aperta specializzata nelle esportazioni di servizi e dipendente dagli investimenti esteri, non c’è alternativa al guardare all’esterno per garantire prosperità economica, anche ricorrendo ad inevitabili compromessi che compendino le vulnerabilità.

Roma, Aprile 2025. XXVI Martedì di Dissipatio

Insieme con la regina delle negoziazioni, l’economia, si è stretto anche un nuovo accordo – non definitivo – di difesa e sicurezza, il primo del genere dal 31 gennaio 2020, reso rilevante da una situazione geopolitica condizionata sia dall’aggressione russa, sia dal maggior coordinamento tra le potenze CRINK, sia dal neo jacksonismo di Washington. I detrattori ritengono che l’entente si rivelerà inefficace a causa dei limiti strutturali e politici dell’UE, ancora alla ricerca di un sistema di difesa più autonomo; ecco rimarcata la necessità inglese di intessere un network più elaborato di accordi bilaterali con i principali Stati europei. Nell’ambito del reset, il core della cooperazione in tema difensivo rimane ancora da definire, tanto da poter dire che aspetti strategici ed operativi relativi alla difesa permangono in ambito nazionale. Insomma, la politica di cui l’accordo è imbevuto, riporta ad inedite convergenze parallele, secondo flessibili e dinamici allineamenti che giustifichino un mercato della difesa caratterizzato dalla possibilità di garantire l’accesso britannico alla partecipazione ai fondi di approvvigionamento UE. Ciò comprende i prestiti garantiti da Bruxelles per l’acquisto di sistemi d’arma nell’ambito del progetto SAFE, avvalendosi di strumenti di politica produttiva atta a promuovere un’industria capace di produrre rapidamente su larga scala. Nel momento in cui la realizzazione dell’infrastruttura capacitiva è pari per importanza alla postura operativa, l’Europa atlantica deve prepararsi per i tempi in cui gli USA (forse) recederanno da ruoli di primo piano; raccordare la direzione strategica significa permettere la definizione di un disegno economico di difesa in termini di produzione, finanziamenti ad bellum e in bello, resi certi grazie ad un (ipotetico) istituto di credito internazionale multilaterale. L’accordo, in sintesi, intende dare visibilità ad un impegno politico volto a superare il gap della Brexit con un vantaggio netto per entrambe le parti.

Con Germania e Polonia che congetturano un’estesa deterrenza europea, Londra, con Parigi, torna ad essere al centro dell’attenzione, malgrado la rilevanza delle sfide, a cominciare dai programmi di aggiornamento, passando per la possibile new wave di Washington che, privando l’Europa delle armi nucleari tattiche, imporrebbe la presenza di un nuovo ombrello protettivo non più così ampio; insomma, problemi mai così in primo piano dalla Guerra Fredda, alla luce poi del fatto che l’attuale Esercito britannico è il più small dai tempi dell’era napoleonica. Attenzione però: anche se Sir Keir, ultimamente tacciato di incoerenza, ha definito l’accordo come un win – win, mancanza di profondità, tempistiche e costi gli conferiscono un’inquietante opacità, viste anche le divergenze comunitarie su Russia e Cina.   

Che gli argomenti affrontati, sia pur brevemente, siano seri, non v’è dubbio; da un punto di vista politico sociale interno, tuttavia, la querelle legata al populismo assume ulteriore risonanza, sia che venga evocata direttamente da Reform UK, sia che venga assecondata dai Tory o rielaborata dai Whig. Anche se l’esecutivo Starmer gode di un’ampia maggioranza, va considerato che Brexit ha contribuito a far grippare vari meccanismi cooperativi consolidati; non solo Londra ha perduto l’accesso diretto al mercato europeo, ma ha anche dato l’addio ad una serie di accordi connessi ad aspetti comunque importanti. Ecco dunque l’entrata sul proscenio di Nigel Farage, retore sorridente e chiassoso, mietitore di consensi ma latore di una patente incapacità di governo perché privo di adeguata struttura politica e di un valente capitale umano, impossibilitato a realizzare idee di per sé non attuabili. Demograficamente, lo strato sociale che ha sostenuto la Brexit era d’età matura, dunque ci si può attendere che il trascorrere del tempo possa ridurre il numero dei simpatizzanti; l’esito delle ultime elezioni amministrative induce tuttavia a non sottovalutare l’imprevedibilità di un fenomeno sociale in grado di rallentare, a caro prezzo, più congrui e razionali disegni politico – economici, un fenomeno che agisce sul leverage di una scadente cultura politica. Secondo Sir Niblett, ex direttore di Chatham House, Reform UK possiede comunque, in nuce, la capacità di infrangere il bipartitismo nazionale, con uno slancio potenzialmente trasformativo. Rimane tuttavia la valutazione dell’impatto sul sistema maggioritario che privilegia candidati locali piuttosto che leader presidenziali,immagine attagliata alla natura personalistica di Reform, un one man party.

Al di là del momentaneo ma indiscutibile successo, lo stile di leadership di Farage ha prodotto notevoli tensioni interne, oltre le quali un recente sondaggio di YouGov, colloca i laburisti al 24%, Reform UK al 23% e i conservatori al 22%, risultati che evidenziano una capacità trasformista tale da permettere, senza colpo ferire, l’impossessamento dell’iniziativa sulle politiche sociali, tradizionale appannaggio laburista. Sir Niblett ha poi osservato che il rapporto di Farage con Donald Trump (scherzi della demagogia populista) potrebbe divenire un ostacolo entro il 2029. Interessanti i parallelismi storici con la sostituzione che, ad inizio XX secolo, i laburisti operarono a danno dei liberali: ma Farage potrebbe indossare i panni dell’Andrew Manson de la Cittadella? Intanto, Nigel ha ridimensionato sia i Tory nelle zone rurali sia i Whig nel Nord post-industriale, costringendo Starmer ad una profonda revisione politica; l’approccio di Downing Street non ha tuttavia soddisfatto nessuno: se i conservatori affermano che non è abbastanza, la base labour guarda con perplessità. La maggior forza di Farage risiede non in virtù proprie ma nelle vulnerabilità politico-identitarie di Starmer, costretto dal realismo ad assumere iniziative che agevoleranno l’ascesa di Reform, occultandone i difetti ed esaltando le paradossalità. Lo scenario offre dunque uno spazio politico ristretto, appena sufficiente per un riavvicinamento anche perché una rinnovata integrazione con l’Europa, ancorché sostenuta internamente, esigerebbe un prezzo, dato che gli interessi di Londra non sono gli stessi di Bruxelles, alle prese con una crescita economica rallentata; il bandwagoning europeo escluderebbe il Regno Unito dai benefici derivanti dai rapporti con gli USA, cosa che consiglia di tentare la mission impossible di rinvenire un equilibrio grazie ad una riformulazione delle relazioni anche perché non è chiaro il ruolo che Washington intenderebbe assegnare a Londra entro l’attuale regime commerciale internazionale. Interessante rammentare Nicholas Spykman per il quale la posizione degli USA verso l’Europa nel suo insieme è… identica alla posizione della Gran Bretagna.. rispetto al continente europeo. La scala è diversa, le unità sono più grandi e le distanze sono maggiori, ma lo schema è lo stesso. Insomma, adottare un atteggiamento riduzionista nel valutare la Gran Bretagna induce all’errore; se è vero che un impero è per sempre, Londra non può venir meno ad una sua funzione politica connaturata.

Sir Winston Churchill non ha mai avuto bisogno di ricorrere al lemma populismo, inteso nella sua accezione più attuale, non mancando tuttavia di esprimere opinioni risolute su democrazia, leader politici, liaison tra governo e popolo; sostenendo la democrazia parlamentare, ha diffidato di semplificazioni e promesse a buon mercato, sostenendo, invece, che il miglior argomento contro la democrazia è una conversazione di cinque minuti con l’elettore medio, una riflessione fondata sull’inquietudine destata dalle manipolazioni dell’opinione pubblica. 

Londra ha già vissuto ore più buie; sempre rimanendo nello scomodo solco tracciato da Sir Winston, non sempre cambiare equivale a migliorare, ma per migliorare bisogna cambiare, purché si rimanga in un’ottica pragmatica, e purché si abbia il coraggio di continuare. Certo, bisogna esserne capaci.

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