Quello che è successo martedì ha suscitato ilarità alle nostre latitudini. Nell’attuale contesto geopolitico, dove ogni particolare si riduce a unità, si è costretti, pur rifuggendo un collasso concettuale irriflesso, perlomeno ad una riflessione più ampia. Nella scaletta del golpe serale del Presidente Yoon non poteva mancare la difesa nazionale: il confronto con Pyongyang sale di temperatura, ma sul campo (non) neutro dell’Ucraina.
Il Capo dello Stato e il ‘suo’ esecutivo conservatore, anatra zoppa per il Parlamento a maggioranza Democratica, ha tentato una manovra storicamente conosciuta a Seoul: sospensione della Costituzione e legge marziale come strumento per la risoluzione dell’impasse politica e la conservazione del potere. Sei repubbliche si sono succedute durante la Guerra Fredda con questo canovaccio, nel periodo in cui da noi la Prima faceva il suo corso, ma era dal 1987 che non si usciva dalla normale dialettica democratica.
Il dettaglio giuridico dice che non si può procedere all’arresto di un Parlamentare nello svolgimento delle sue attività, ma in questi casi la fedeltà non rimane esclusiva di una Carta fondamentale, quale che essa sia; diventa una scelta, di coscienza, strettamente personale; basilare della Teoria del Partigiano secondo Carl Schmitt, ma, in modo forse più convincente, lezione biografica di Charles De Gaulle. Decisiva, infatti, la bocciatura politica di tutto l’arco parlamentare, conservatori compresi, che ha isolato il ramo esecutivo e costretto il Presidente alla revoca immediata del decreto.
Alla radice di tutto, un fuoco di fila della maggioranza parlamentare – democratica – che aveva negli ultimi mesi proceduto all’impeachment di vari funzionari e ministri. Tra le cause, un presidente semplicemente impopolare (una petizione popolare ne chiedeva la destituzione già quest’estate), allergico al compromesso politico, il tutto condito da scandali familiari con conseguenze giudiziarie. Elementi forse determinanti a livello nazionale; meno per il resto del mondo che osserva.
Tra i destinatari dell’offensiva parlamentare c’era anche il Ministro della Difesa: l’argomento, il corteggiamento di Kyiv per l’invio di armi, ma soprattutto il tentativo di inviare del non meglio specificato personale militare in Ucraina, con non meglio specificati compiti. A logica: l’osservazione delle tattiche dei soldati del Nord, ma plausibilmente anche l’istruzione del personale ucraino in vista di future cessioni di sistemi missilistici, se non l’impiego diretto sul campo di truppe. Il tutto, ovviamente, in risposta al recente dispiegamento da parte di Pyongyang di circa diecimila soldati a fianco delle forze di Mosca, ma, crucialmente, senza il consenso del Parlamento. Da tempo, proseguiva una battaglia giuridica tra Camera e Presidenza sull’interpretazione delle leggi in materia di partecipazione a conflitti di terze parti.
Sotto il velo di società ‘occidentale’ avanzata e dedita al commercio, lo Stato e la società sudcoreane sono massimamente orientati in vista della sicurezza nazionale. Ogni questione politica può essere facilmente contaminata o strumentalizzata in senso securitario. Anche in questo caso, a giustificazione del golpe come degli impeachment, ragioni di sicurezza nazionale sono state al centro della dialettica.
Il Parlamento (in mano ai Democratici) intravedeva un rischio inutile di escalation, verso una proxy war tra le Coree combattuta dall’altra parte del mondo. La Presidenza (conservatrice) guarda il quadro più ampio con un approccio olistico. Il ferreo allineamento filoamericano, nel partito erede della leadership dittatoriale che confrontò Stalin nel 1950 e governò da allora quasi ininterrottamente, forma il prisma concettuale di Yoon, attraverso cui vede il mondo come un tutto unico, irreversibilmente diviso in due.
Un comportamento non atipico in Asia Orientale, dove, dall’inizio della guerra, non sono mancate inusuali dichiarazioni di accorato sostegno all’Ucraina, e copiosi ‘investimenti umanitari’. In vista del futuro confronto con la Cina, la moneta che Seoul, come altri, possono portare a Washington – tramite il teatro europeo – è la fedeltà ai principi e alle regole del sistema internazionale americano.
La Russia post-sovietica non ha mai avuto alcun interesse nell’esplosione della conflittualità tra le Coree, motivo per cui, nei vari formati diplomatici creati per la gestione del conflitto, ha sempre potuto mostrarsi come attore responsabile e disinteressato, orientato alla stabilità, alla pace, e al rispetto del diritto internazionale – nella forma della carta ONU e del Trattato di Non-Proliferazione Nucleare.
Il terremoto in Ucraina sta però modificando tutti i paradigmi, e il teatro coreano non fa eccezione. La DPRK non è più solo un attore portatore di instabilità in un teatro periferico, ma un raro alleato nella competizione globale con l’Occidente. Russia e Repubblica Popolare hanno infatti firmato un trattato di mutua assistenza, che prevede il sostegno bellico tra le parti in caso di “minacce dirette” o “aggressione” ad una delle due. Il trattato prevede però anche collaborazione tecnologica a tutto campo in tempo di pace, in particolare “per rafforzare le capacità di difesa per prevenire la guerra”: un attacco indiretto alla sicurezza dello Seoul già ratificato e in opera.
Putin ammonisce verbalmente Seoul, e si può certo dubitare delle conseguenze immediate di queste minacce; però, nel lungo termine la Russia dovrà scegliere se restituire il favore a Pyongyang o perdere un alleato la cui disperazione strategica lo rende sorprendentemente accondiscendente. Dal punto di vista sudcoreano, specialmente da quello non compromissorio di Yoon, la Russia sta già agendo diplomaticamente contro il suo Stato, e dopo la guerra si troverà nella situazione di doverlo fare anche materialmente. Il circolo vizioso si è già avviato, e si autoalimenta…