Alle volte è necessario sondare l’impossibile. Affrontare oggi la questione palestinese con realismo ed empatia, senza cadere nella retorica sterile, non è per i deboli di cuore. Non solo per la natura intrinsecamente irrisolvibile del conflitto, ma anche per la tendenza delle opinioni pubbliche a ridurlo a slogan, a giornate di futile protesta o a prese di posizione di tendenza, salvo poi tornare rapidamente ai nostri drammi quotidiani come se nulla fosse. Nel corso dell’ultimo secolo la postura nazionale ha mostrato una vocazione filoaraba. Ma dal passato riemerge il rimosso che inevitabilmente ci definisce, e, quando i propri demoni non li si affronta, essi riemergono inconsapevolmente, come le piazze pro-Palestina ci ricordano.
Per noi italiani quella palestinese non è emergenza recente né esercizio di virtù. L’Italia deve muoversi sul filo dell’interesse nazionale, tenendo insieme i rapporti con Israele e l’interlocuzione con il mondo arabo. Il tumulto di queste settimane impone una domanda meno morale e più strategica: qual è il filo di senso che ci lega davvero a questo dossier? E, se c’è, quale linea di condotta massimizza i nostri interessi – morali e materiali?
Il giudice Rosario Priore – magistrato istruttore su Ustica, sull’attentato a Giovanni Paolo II e sui filoni Moro e anni di piombo – racconta di una tendenza antica, già visibile ai tempi di Francesco Crispi, che non nasce da mode passeggere ma da necessità geografiche. Nessun popolo parte da zero, tantomeno noi. Nasciamo in un luogo e quel luogo continua a definirci, fra passato e futuro. Anche quando lo rinneghiamo. Il Mediterraneo è nostro centro gravitazionale e il fianco sud, che dovremmo cercare di controllare modella le nostre scelte strategiche più della retorica.
L’interesse strategico per l’area prese corpo con la guerra italo-turca del 1911-1912. Dopo i conflitti balcanici, l’Italia colpì l’Impero ottomano scegliendo le coste libiche, ultime terre accessibili in un Mediterraneo già spartito: Egitto in mano britannica, Maghreb sotto Parigi. Giolitti ordinò la spedizione, conclusa con una vittoria difficile: la resistenza locale sarebbe durata oltre vent’anni. Il crollo dell’Impero ottomano aprì la fase della spartizione. Nonostante il contributo italiano, i veri beneficiari furono Londra e Parigi: l’una si assicurò Arabia Saudita, Iraq e Giordania, l’altra Siria e Libano. Nella primavera del 1912 Roma aveva già preso le isole del Dodecaneso, ma lì si fermò. La delusione per la scarsa ricompensa spinse Roma a reagire, cercando spazio politico nella protesta anti-inglese delle popolazioni arabe. Fu allora che prese forma una linea filoaraba, utile ad alimentare i malumori contro Londra.
Simbolica la “spada dell’Islam” brandita da Mussolini, presentandosi come difensore dei diritti degli arabi contro le potenze coloniali, in particolare Gran Bretagna e Francia. Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Italia fu estromessa dal Nord Africa, ma non rinunciò alle ambizioni mediterranee. Puntò su diplomazia, economia e nuove relazioni: la linea di Enrico Mattei. Nel dopoguerra la politica italiana mirò a consolidare l’influenza sul Nord Africa, controllare Malta e Cipro, dominare Gibilterra e Suez. Obiettivo: sostituirsi a Francia e Gran Bretagna come potenza di riferimento. Questa volta le ambizioni apparivano realistiche.
Gli Stati Uniti non ostacolarono questa politica, anzi ne favorirono lo sviluppo, vedendovi un utile contrappeso all’espansionismo francese e britannico nel Mediterraneo. La postura filoaraba dell’Italia irritò inevitabilmente Parigi e Londra, ma aprì a Roma nuovi spazi di manovra. In questo scenario, però, emerse presto un altro attore di peso: lo Stato di Israele. Nato nel 1948, rapidamente divenuto una potenza politico-militare regionale, Israele rappresentava un nodo delicato per la politica italiana: da un lato, era partner occidentale con cui intrattenere rapporti di cooperazione; dall’altro, era nemico dichiarato delle nazioni arabe con cui l’Italia coltivava legami sempre più stretti. Le ripercussioni del filoarabismo furono inevitabili nel rapporto con Israele. L’atteggiamento di Roma verso lo Stato ebraico non seguì mai una linea coerente. Israele, accerchiato da nazioni ostili, ha sempre percepito la propria esistenza a rischio. Per questo si è armato fino ai denti e ha risposto con durezza estrema a ogni attacco. Ma la sicurezza è stata declinata quasi solo in chiave militare, raramente attraverso iniziative diplomatiche. Per questo, con il tempo, Israele perse fascino nell’immaginario italiano, da avamposto moderno a problema ingombrante.
Italia e Israele finirono progressivamente per sovrapporsi, fino a entrare in rotta di collisione. Da un lato, Roma si rese conto che alcune scelte israeliane complicavano la propria proiezione mediterranea; dall’altro, Gerusalemme non poteva tollerare che il principale Paese occidentale nell’area fosse al tempo stesso il più legato al mondo arabo. Così, passo dopo passo, i due Stati iniziarono a farsi ombra a vicenda. Al di là della funzione italiana di contenimento dell’asse franco-britannico, esistevano ulteriori motivi che spiegavano perché, almeno in una certa fase, gli Stati Uniti potessero guardare con favore all’Italia, talvolta persino più che a Israele. Roma, infatti, non mise mai in discussione la propria fedeltà all’Alleanza Atlantica e disponeva di un potenziale militare di rilievo, rafforzato da una collocazione geografica di straordinaria importanza strategica.
Se la Germania rappresentava il bastione da cui resistere a un eventuale urto con l’Europa orientale, l’Italia costituiva il molo d’attracco per tutto ciò che sarebbe giunto dagli Stati Uniti e dovuto fluire rapidamente verso i fronti lungo la Cortina di ferro. Non è un caso che Washington abbia sempre mostrato particolare attenzione per le nostre infrastrutture. Nel caso di un conflitto con le potenze comuniste, ad esempio, un eventuale sbarco di mezzi nel porto di Livorno avrebbe potuto raggiungere in tempi brevissimi il confine orientale e la costa adriatica attraverso la Pianura Padana. A questo si aggiungeva l’importanza della flotta italiana, ritenuta cruciale per il monitoraggio dell’intero Mediterraneo. Insieme di fattori che conferivano all’Italia un peso strategico significativo e che, inevitabilmente, finirono per intrecciarsi con il rapporto complesso e talvolta competitivo con Israele. Sforzarsi di comprendere impone di interrogarsi sulla tanto controversa quanto ambigua scelta di alcune cancellerie europee di procedere al riconoscimento della Palestina.
Paesi come Francia e Regno Unito da un lato vorrebbero riconoscere lo Stato di Palestina, ma dall’altro continuano a mantenere rapporti militari ed economici con Israele, senza imporsi sul serio. Per fronteggiare il calo del consenso, ci si appella anche ad improbabili quanto inutili dichiarazioni di riconoscimento. Intanto l’Europa continua a comprare armi da Israele: nel 2025, il 54% dell’export bellico israeliano finisce nel Vecchio Continente, per un valore di quasi 15 miliardi di dollari – un aumento del 35% rispetto all’anno precedente, per sostenere lo sforzo russo-ucraino. Questo rende il riconoscimento, almeno per ora, un gesto più di facciata che concreto.
Come sempre, la differenza la fa la volontà. Senza, anche i dispositivi giuridici più raffinati restano lettera morta. Abbiamo dato per scontato che il diritto internazionale fosse legge di natura, al massimo filosofia del diritto. Lo abbiamo scambiato per un monolite, anziché vederlo per ciò che realmente è: rapporto fra popoli regolato dalla legge del più forte militarmente. Persino alfieri del diritto, alle Nazioni Unite, sono rimasti impietriti davanti a tanto bagno di realtà. Battono i piedi perché non accettano che il diritto internazionale valga finché reggono i rapporti di forza di chi lo fa rispettare — o finché chi ne ha il potere decide semplicemente di non farlo. La giustizia formale, priva di forza, è fragile illusione. E il riconoscimento della Palestina, se non accompagnato da strumenti politici e coercitivi concreti, non è che un atto estetico. Verba volant. Più concretamente, al di là delle flottiglie — strumento utile all’eterna lotta partitica — con Food for Gaza il Bel Paese ha instradato verso la Striscia migliaia di tonnellate di derrate, kit sanitari e beni essenziali; la cooperazione italiana ha messo sul tavolo oltre cento milioni di euro. La Difesa ha eseguito aviolanci con aerei da trasporto, più sortite per oltre cento tonnellate paracadutate, raggiungendo sacche isolate che altrimenti resterebbero scoperte.
Tutto ciò non risolve la crisi, ma facciamo ciò che possiamo con i margini che abbiamo e più di molti altri, anche se spesso passa in secondo piano. Sul riconoscimento, Giorgia Meloni, a Repubblica, è stata chiara: un’iniziativa del genere avrebbe senso solo come leva politica. Il bersaglio, nella lettura dell’esecutivo, non è Israele – nella retorica costretto a difendersi – ma Hamas e gli sponsor della frammentazione che impediscono qualsiasi percorso credibile verso la statualità palestinese. Ma serve lettura fra le righe. Roma fa capire che riconoscerebbe se esistessero le condizioni, ma si muove con prudenza calibrata per non irritare l’alleato israeliano e, insieme, per non alienarsi gli interlocutori arabo-palestinesi e quindi contenere i rischi sul suolo nazionale – come insegna la storia – mentre si preservano canali potenzialmente utili su entrambi i lati del fronte.
A questo proposito, negli anni Settanta, l’Italia conobbe episodi sanguinosi, come la strage di Fiumicino (1973) o l’attentato all’oleodotto Trieste-Ingolstadt (1972) da parte di organizzazioni terroristiche palestinesi che esportarono la guerra con Israele in Europa, con lo scopo di incidere nelle nostre opinioni pubbliche. Per evitare di trasformare la penisola in campo di battaglia, il governo italiano scese a patti con i palestinesi. Il cosiddetto “lodo Moro”: in cambio della non belligeranza, Roma chiudeva un occhio. Politica saggia. Posizione da spendere a seconda dell’evoluzione degli eventi, in tempi in cui l’incertezza è padrona del nostro quotidiano e finché durerà il rumore, al nostro Paese toccherà continuare a destreggiarsi nell’impossibile.