Delineando nel romanzo autobiografico “Il mondo di ieri” la fine di un’epoca irripetibile nella storia europea, Stefan Zweig si rese perfettamente conto della differenza abissale che intercorreva tra la generazione posta al tramonto della Belle Époque, e quella in essa nata e cresciuta. Una differenza in un certo modo quantitativa, un cambiamento di ritmo e di velocità. Dalla comoda fiducia nel passato a una rinnovata propensione al nuovo. Una crescita esponenziale della rapidità. Uno slancio imperioso verso un futuro di grandi progressi tecnici e scientifici. Comprendere i sogni, le paure e le ambizioni di una generazione radicalmente devota al futuro e al futuribile, come ha fatto Lorenzo Benadusi nel suo “Il mondo che verrà. Gli italiani e il futuro 1851-1945” significa vedersi proiettare nelle utopiche (e distopiche) fantasie letterarie e filosofiche di chi ripose nelle magnifiche sorti e progressive un volano di liberazione. Ma talvolta anche di chi intravide l’anticamera dell’inferno.
La luce del progresso tecnico si affacciava all’inizio del “secolo breve” anche materialmente tra gli sguardi esterrefatti dei cittadini. L’illuminazione artificiale aprì le Esposizioni Universali così come il bagliore mortale delle bombe atomiche americane su Hiroshima e Nagasaki, chiuse (apparentemente) l’epopea della fiducia nel progresso. L’elettricità creava aspettative radiose, inaugurando anche delle forme di divertimento e di passatempo, come scrive Giovanni Corvetto per “La Stampa” nel 1910:
«E si sogna sempre la novità, il fenomeno che darà una scossa ai nervi, facendoci rabbrividire di meraviglia o d’entusiasmo, l’ultima scoperta che renderà reale l’incredibile, o l’ottima forma di svago, che saprà offrirci un mezzo ignoto di voluttà.»
Le strade illuminate si confacevano a una civiltà che camminava a passi sempre più sicuri e con un controllo sempre maggiore sul proprio mondo. La Terra era divenuta d’un tratto più piccola. In poco meno di un secolo e mezzo le grandi esplorazioni erano finite, le terre incognite ridotte a semplice materia di romanzo. L’uomo, l’occidentale, l’europeo con i suoi vasti imperi terracquei era posto al vertice di una civiltà interconnessa e mondiale.
Un mondo in cui mai come in quel momento era possibile spostarsi con mezzi e strumenti del tutto inediti, dalle ferrovie alle navi a vapore, da Londra a Calcutta, passando per Tokyo, San Francisco, New York e di nuovo Londra, in tempi via via sempre più brevi. La grande narrativa di Jules Verne descriveva in maniera esaltante e fiduciosa la possibilità di girare il mondo in soli ottanta giorni. In verità anche meno, stando ai primi (veri) tentativi di fare il giro del mondo. Il volano inarrestabile del progresso era anche associato, inevitabilmente, alla spinta alla civilizzazione. L’Italia non faceva eccezione, almeno a livello di immaginario letterario.
Così nel romanzo “Gli eroi del Gladiator” del 1900, Yambo descrisse la conquista dell’Africa centrale da parte degli occidentali, mediante la costruzione di una Grande ferrovia Transafricana: «Si fece la ferrovia ad ogni costo. Ogni metro di rotaia quel giorno fu bagnato col sangue. Ma la scienza proseguiva il suo cammino trionfale.»
Non vi era allora che una via. Una traccia ritenuta l’unica in grado di spezzare la “barbarie” e di consolidare il predominio (venduto come necessario progresso dell’uomo) dell’umanità europea sulle altre. Un’umanità protesa ben oltre la Terra, ben oltre il presente e vivo. Il progresso non era mai in dubbio, come ribadito ne “L’illustrazione italiana”: «Il nostro cervello, dicono, non potrà mai conoscere l’infinito. Ma queste cose non si dicevano cento anni fa?»
Si pensa dunque, in maniera sinceramente appassionata, al futuro. Immaginando un’umanità redenta e finalmente felice e pacifica. Forse mai come nell’imbrunire assorto e carico di aspettative che salutò il secolo XIX per accogliere il XX, mentre gli imperi europei sembravano contendersi il pianeta senza però lasciar presagire, un giorno, la carneficina ininterrotta del 1914-1945; mentre l’impero britannico tramontava, aprendo spiragli per un nuovo e rovinoso cambio al vertice del pianeta, si credette a una pace duratura e universale.
Eppure, già uno scrittore come Emilio Salgari, colse nel futuro delle ombre. Nell’aria satura di elettricità, i viaggiatori nel tempo del suo romanzo fantascientifico “Le meraviglie del Duemila”, si scorgono già le ansie di un uomo che vede nel futuro specialmente una fuga dal presente. Un fuga che si connette anche al recupero del passato, un luogo che diviene ancestrale, una critica al progresso che non è ancora foriera di possibili distopie:
«Il rischio che l’utopia si trasformi in distopia è dunque ancora embrionale, ma lascia in eredità al nuovo secolo un velo di incertezza sul futuro. Ma soprattutto Salgari getta il seme fecondo di una passione per lo straordinario, per quei viaggi in luoghi lontani dove grazie all’immaginazione si viene catapultati in un altro mondo.»
Troppo potente è l’immaginario dell’avvenire per potersi risolvere ancora in cupi presagi, sebbene aleggi già nella letteratura anglosassone (in particolare in H.G Wells) il timore di una disumanizzazione, evidente nella descrizione dei marziani ne “La guerra dei mondi”, nonché nello sfilacciamento sociale portato fino alle estreme conseguenze ne “La macchina del tempo”. Conseguenza di uno stadio già avanzato del processo di industrializzazione, i timori anglosassoni non trovavano riscontro sostanziale nelle esaltanti tensioni emotive dell’Italia futurista, in quanto nazione giovane, decisa a scrollarsi di dosso il passato per volgere alla grandezza e per unirsi all’alveo dei popoli grandi e industriosi. La letteratura, i romanzi, la poesia celebravano questo passaggio, come in Luciano Folgore nel 1912:
«Abbiamo teso nel sole nervature di ferro, /abbiamo inarcato schiene metalliche, / e aperta a una folata di gioia la bocca, / che aspira gigante la vita […] / Abbiamo dormito sui limiti dell’infinito, / abbiamo lanciato al popolo delle stelle, / i lritmo dell’uomo ribelle, / che marcia verso un destino sublime, / e, a tappe giganti, vuole / piantare con salde radici, /le nostre armature nel sole.»
A tali vertiginose visioni, si associava il ruolo a un tempo salvifico e distruttivo della guerra, elevato da Marinetti a più riprese come esplosione di una grandezza politica vivificata da enormi apparati industriali e dal trionfo indiscusso della tecnica: «Venticinque grandi potenze governano il mondo, disputandosi gli sbocchi dei prodotti industriali sovrabbondanti. Per questo, noi assistiamo finalmente alla prima guerra elettrica.»
I venti di guerra si tramuteranno però presto in tragica realtà. Chi immaginò allora, all’inizio del Novecento, il futuro, riuscì a ragione prevedere un uso sempre più massiccio dell’aviazione, unito a una distruzione mai vista prima, nonché all’intervento salvifico degli americani. Previsioni drammaticamente veritiere, se si pensa che proprio all’America guardarono con invidia e con ammirazione, nel dopoguerra, gli ultimi apostoli del futurismo italiano, confluiti nell’immagine modernista che il fascismo attribuirà al proprio ruolo nella storia d’Italia. Distruttori di tradizione, dunque respinti e spesso criticati, gli americani esaltavano con i loro grattacieli e le proprie città. Le città italiane durante il regime sarebbero dovute diventare moderne e protese al nuovo. Architettonicamente traducendo in spinta verso il futuro l’immagine di un’Italia che, dal Risorgimento in avanti, da sempre era percepita in senso arretrato e passatista. Un’immagine che avrà un lungo seguito, ricordando con quanta gioia, nel secondo dopoguerra, siano stati salutati i grandi palazzi e le grandi opere, in luogo degli antichi borghi, delle viuzze e delle tranquille città italiane.
Nel “Mondo che verrà”, una strana angoscia, unita a una crescente disillusione si propaga dalle prime ottimistiche previsioni di pace e progresso universali degli autori, fino al drammatico capovolgimento. Un viaggio di un secolo, cominciato alla fine del secolo “lungo” il XIX, per sgorgare nel tragico XX secolo, in cui la scienza tradotta in immagini e parole dagli autori di fantascienza, divenne lo specchio delle paure e delle ambizioni dell’uomo in Occidente.
Le bombe atomiche hanno trasformato l’attesa speranzosa del futuro in spasmodico timore dei suoi funesti effetti. E anche il futuro immaginato, atteso in questa epoca così ricca di trasformazioni, lanciata verso lo spazio, verso l’intelligenza artificiale e la robotica, verso l’oltre-umano, non ci compete più come vibrante terra vergine. Forse, dopo un presente divenuto più piccolo, più stretto e meno esaltante, come nella vita ordinaria di Salgari con i propri libri e le proprie carte, oggi anche il futuro volge verso il (tragico) prevedibile. Dove anche il distopico non è che una banale normalità. Con buona pace di qualsiasi futurismo nostrano.